Domenico Scudero: La prima cosa che vorrei chiederti è come puoi descriverti.
Dmitri Prigov: Mi riesce difficile rispondere perché io non mi sento un artista nel senso classico ma credo di essere un uomo di cultura. La mia attività si realizza attraverso differenti media, come poeta – sono molto conosciuto in Russia come tale – come scrittore ho pubblicato diversi lavori, ho fatto e faccio l’attore, cinema, lo scultore, faccio installazioni, performance musicali. Tutte queste attività hanno per me lo scopo di proiettare una sorta di immagine virtuale della persona-autore come se ogni singola parte delle mie attività fosse proiettata in uno spazio astratto ed al centro, all’incrocio delle varie proiezioni si crea l’immagine, la mia immagine virtuale, immaginaria. Per questo posso dire che sono molto più interessato alla mia immagine che non ai lavori concreti, reali. Ma questa non è una semplice riflessione della mia immagine reale, non sono interessato a questa. Credo che la cultura artistica contemporanea sia troppo legata al punto di vista materialista, e non parlo soltanto di oggetto, ma anche delle immagini che si fanno. A me piace pensare che l’opera somigli di più ad una trasposizione della materia dell’immagine come quando ci si reca in chiesa e da lì si immagina il paradiso dei santi. Bene, per me il lavoro d’artista significa un po’ questo, ricreare un’immagine elevata del sé.

D.S.: Ma quali sono i tuoi rapporti con la scena pubblica?
D.P.: Mi interessa capire cosa realmente cerca il pubblico; per esempio in Russia mi accettano soprattutto come poeta e tutto il resto non viene preso in considerazione, mentre all’Ovest sono ritenuto principalmente un artista visivo e la mia produzione letteraria non è conosciuta perché ci sono problemi di traduzione. Ma per me non è un problema perché ogni tipologia di lavoro che compio soddisfa la mia proiezione astratta e considero ogni singolo elemento come parametro di un insieme. Naturalmente ogni cosa che faccio voglio che sia fatta bene; il video che produco deve essere ben fatto, l’installazione deve essere come la penso. L’importante è riuscire a dare un’immagine altra, elevata.

D.S.: Ma c’è qualcosa che preferisci fare?
D.P.: No, però è vero che fare delle installazioni è molto complicato, diciamo che fare l’artista visivo impegna molto, non puoi farlo a spezzoni. In ogni caso non faccio gerarchie anche se puoi fare il regista solo un giorno la settimana, il poeta per pochi minuti al giorno, ma pensare l’arte visiva è sempre molto impegnativo.

D.S.: Quando fai una mostra come questa del MLAC hai bisogno di molto tempo per prepararla, diversamente dalla produzione letteraria?
D.P.: Mantengo ogni attività giornalmente: almeno un paio di poesie al giorno, dieci bozzetti di disegni, senza orari prefissati. In qualsiasi posto mi trovi devo sempre realizzare le mie attività ma non c’è un ordine, non faccio pianificazioni. Tutto dipende dagli eventi concreti che devo realizzare. Evidentemente quando ho la necessità di concludere un lavoro cinematografico mi ci devo dedicare di più, ma non abbandono mai le altre attività.

D.S.: Per fare tutto questo hai anche bisogno di molta tecnologia, cosa ne pensi in proposito?
D.P.: Sì certo, la tecnologia mi impegna, ma è molto più importante fare in modo di riuscire ad indirizzare l’attenzione sulle diverse attività piuttosto che pensare alla meccanica della tecnica. Non uso distaccarmi dall’una e dall’altra tecnica e la tecnologia mi serve per sviluppare le idee, non ne sono intimorito.

D.S.: Come progetti le tue esposizioni, ad esempio ti ho visto arrivare qui con una semplice cartella di bozzetti e in poche ore hai realizzato un’installazione complessa con materiali comperati in giro.
D.P.: Io disegno sempre un grande numero di modelli di installazioni e così quando arrivo in determinati spazi posso decidere e scegliere quale progetto realizzare anche modificandolo.

D.S.: Così i tuoi progetti sono sempre aperti ad eventuali modifiche?
D.P.: Naturalmente, sono progetti aperti, anche se in determinati casi il progetto è definitivo, ma in casi come questo al MLAC, rispettare il bozzetto non è possibile. Inoltre uso una serie di elementi nel disegno e spesso questi elementi non sono esattamente realizzabili concretamente. Mi piace combinare oggetti usuali, come le sedie, le stoffe insieme con il disegno.

D.S.: Pensi che il tuo ruolo sociale abbia un valore particolare?
D.P.: Sociale? Non politico? Beh certo in Russia per esempio ho una rubrica che tratta di caratteri sociali, generici, non certo del lavoro ma in cui si riflette settimanalmente sulle impressioni generiche. Più importante è per me riuscire a far visualizzare l’identità di un intellettuale non connesso in alcun modo con il potere, né con alcun particolare partito politico fra quelli che ci sono adesso in Russia. Anche perché in Russia non abbiamo avuto una tradizione di opposizione intellettuale al potere, e anzi generalmente gli artisti sono ideologicamente dipendenti dal potere nelle sue forme. Così per me è molto importante costruire l’identità dell’intellettuale di sinistra, critico nei confronti della società.

D.S.: Pensi che in Europa Occidentale sia diverso?
D.P.: In un certo senso in Europa l’idea di movimento di sinistra, come area di pubblica opinione è molto diffusa, mentre in Russia questo non esiste. L’idea di non dipendere direttamente dai gangli della società strutturata ma di mantenere un contatto ideale con le posizioni libertarie spesso non c’è in Russia. Non c’è uno sviluppo della società libera ed io lavoro molto attraverso le forme dell’azione artistica per visualizzare questa possibilità. Cerco di dare alla gente qualsiasi idea che non sia soggetta al controllo della società burocratizzata. Anche l’idea della poesia mi interessa perché il poeta esiste in virtù di un genere, ma viene costruita per visualizzare un ambito esterno al Sé e comune a molti. Io cerco di identificare l’ipotesi che è dentro ogni forma di poesia per disarticolare la tendenza al superomismo, alle ambizioni di unicità.

D.S.: Mi hai parlato dell’importanza del tempo. Il tempo all’interno del lavoro o l’idea propria del tempo?
D.P.: Noi viviamo immersi in una serie differente di tempi, ciascuno a modo proprio. C’è un tempo della vita umana, un tempo della cultura, un tempo della storia. Ma c’è anche una storia dell’eternità. Se pensiamo che una singola differenza di cromosoma può differenziare specie viventi. Mi interesso della cosmologia e della filosofia del tempo per meglio comprendere le relazioni che legano la nostra vita alla realtà.

D.S.: Hai qualche relazione con il mercato dell’arte?
D.P.: Il mercato certo, sono connesso col mercato perché lavoro con i galleristi. Vivo di questo lavoro, ma non vivo grazie alle mostre che faccio ma anche perché con tutte le attività che svolgo, poesia, scritture, performance, azioni musicali riesco a trovare i proventi che servono. Non guadagno tanti soldi ma sopravvivo. Quindi non sono coinvolto nel mercato e in fondo non mi piace vivere nel mercato, ovvero entrare nel meccanismo del mercato che pretende un modello definito per fare un sacco di soldi. Credo sia un problema del XX secolo, contemporaneo. Cézanne ad esempio ha fatto una rivoluzione attraverso la pittura, ma oggi si usa ideare un prodotto come un oggetto da design, un quadro da design, da moltiplicare. Ecco il mercato non permette d’essere Cézanne perché non accetta le sperimentazioni. Il mercato protegge questi progetti e li usa per il sistema di committenti, le banche, le istituzioni, ma per me è molto più importante il rapporto con le aspirazioni umane. Anche le grandi esposizioni internazionali, come le varie biennali, sono il frutto di questa idea di produzione e questo non mi piace molto.

D.S.: Ti dichiari artista indipendente e naturalmente lo sei. Ma quali sono i tuoi referenti principali?
D.P.: Sono influenzato da Malevic, dall’arte delle avanguardie. Un altro che mi ha molto influenzato è Duchamp. Il primo ha realizzato la pittura oggetto e l’altro ha realizzato la vita ad arte e ne ha fatto oggetti da museo. Nella tradizione russa è impossibile rimuovere questo elemento di produzione, quando parlo di design, ovvero di oggetto funzionale. Per quanto riguarda i tempi più recenti ho avuto contatti con un gruppo di Mosca di cui ero amico, Komar & Melamid, Kabakov, Bulatov, Rubinstein, il filosofo Boris Groys. Con loro ci incontravamo tutti i giorni e potevamo organizzare mostre scambiare idee. Dagli anni Sessanta sino agli anni Novanta, ma adesso in Russia, della mia generazione sono rimasti in pochi.

D.S.: Erano tempi difficili?
D.P.: Erano tempi difficili e dovevi sopravvivere. Ma in ogni caso è passata. Ho avuto più problemi per quello che ho scritto e per questo sono stato rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Non era il tempo dello stalinismo durante il quale ti uccidevano. Ho vissuto tempi in cui si preferiva ridurti allo stato vegetale per sopprimerti, ma almeno non ti uccidevano (ride)…

D.S.: Hai progetti per il futuro?
D.P.: Sono un uomo di una certa età, per me il futuro non ha più tempo. No, sono molto interessato a capire come sta trasformandosi la figura dell’artista inteso secondo le forme tradizionali e cosa diverrà. Dall’artista amanuense si sta passando all’idea dell’artista antropologo, connesso con ingegneria, biogenetica, tutte le forme nuove del comunicare sul corpo, anche in quelle forme che è difficile accettare nella medicina, nella ricerca. L’artista lavora in questo ambito anche perché le tecniche per produrre quadri, installazioni ed altro sono alla portata di chiunque, quindi per sperimentare bisogna invadere nuovi sistemi. Questo non è né giusto né sbagliato: potrebbe essere giusto come potrebbe essere una rovina, non lo sappiamo.