Che la luce possa farsi interiorità, profondità, senso, non è così scontato in teatro. E non è così scontato che possa divenire un unico movimento con la parola, la danza, il suono. Quel che ho visto e udito, spettacolo dedicato a Ingeborg Bachmann, presentato alle Scuderie della Casa dei Teatri a Roma dagli studenti del laboratorio “La poesia e la luce” condotto da Fabrizio Crisafulli, ha avvolto il pubblico in una particolare condizione emozionale fin dall’ingresso in sala, con gli studenti che prendevano gli spettatori ad uno ad uno sotto braccio per condurli al loro posto, in piedi, quasi a stabilire fin dall’inizio un contatto sensoriale, senza mediazioni.

Crisafulli, che della luce è un maestro, ha guidato i suoi allievi dell’Accademia di Belle Arti di Roma in un percorso di lavoro evidentemente rivolto alla trasformazione dello spazio delle Scuderie in un luogo interiore, una buia caverna dell’anima, cassa di risonanza dei testi di altissima intensità poetica della Bachmann, detti da Simona Lisi, interprete molto convincente e dalla straordinaria gestualità.

Il teatro, in un lavoro come questo, è insieme di segni di differente natura in equilibrio mobile tra loro, talmente intrecciati da divenire un’unica, complessa “musica”. Questo fa pensare ad una ritrovata potenza originaria del teatro; o all’utopia kandinskiana del teatro come “grande enarmonico”, crogiuolo di tutte le arti. Lo spettacolo si anima in un unico afflato. Diventa un essere vivente. Siamo immersi in un liquido amniotico. E ci sono il rigore della partitura e della regia di Crisafulli a condurci oltre il puro esperimento sensoriale, a modellare il percorso conoscitivo e percettivo del pubblico, a “scolpire il tempo” e  la drammaturgia.

Insieme alla spettacolarità di disegni e movimenti di luce dei quali non è facile comprendere la tecnica, stupisce in certi momenti invece la semplicità di alcune soluzioni. Il fatto che l’efficacia visiva possa essere affidata, ad esempio, ad una lunga sequenza risolta con semplici torce elettriche manovrate da un gruppo di ragazze in corsa, cha trasformano in continuazione l’universo nel quale il pubblico è avvolto. Il suono, curato da Andrea Salvadori, perfettamente integrato con il resto, sembra quasi parte del luogo e delle presenze.

Il lavoro è di grande interesse anche dal punto di vista del metodo. Come ha raccontato Crisafulli in conferenza stampa, il laboratorio ha avuto, prima di approdare alle Scuderie, diverse fasi realizzative, in luoghi differenti e con diversi gruppi di studenti. In questo percorso ha incontrato diverse collaborazioni: Renzo Guardenti dell’Università di Firenze, Stefano Geraci e Raimondo Guarino di RomaTre, Dario Evola ed Ernani Paterra dell’Accademia di Belle Arti di Roma; e diversi spazi: il Teatro della Pergola di Firenze, l’aula Columbus del DAMS di RomaTre, il Teatro Studio Krypton di Scandicci. Ed ogni volta il risultato è stato diverso, pur sulla base di una medesima, dettagliatissima partitura di azioni. Questo, ha spiegato Crisafulli, permette di valutare la qualità dell’incidenza del luogo, inteso sia come luogo fisico che come ambito di relazioni tra i partecipanti, sulla costruzione del lavoro. E di aggiungere quindi un tassello alla comprensione del suo possibile ruolo di motore drammaturgico, insieme alla parola, al corpo, alla luce, al suono.

Altro aspetto di interesse sul piano metodologico, è la considerazione della luce come linguaggio autonomo all’interno dello spettacolo teatrale, questione sulla quale Crisafulli lavora da anni, sia con la sua compagnia che con l’attività ormai venticinquennale dei suoi laboratori, e che è analizzata in modo approfondito, con riferimento ai laboratori, in un libro prezioso, La luce come pensiero, curato da Silvia Tarquini (Editoria & Spettacolo, Roma, 2010), nel quale, in una lunga intervista, Crisafulli individua in maniera sistematica e approfondita, appunto, le coordinate di questa autonomia possibile.

Dall’alto:

Quel che ho visto e udito

Simona Lisi in Quel che ho visto e udito

foto Laura Ferrante