Bibliografia:

Theodor Wiesegrund Adorno, Philosophie der neuen Musik (Tübingen 1949; Torino 1960).

Jean-Francois Lyotard, La Condition postmoderne: Rapport sur le savoir (1979); Les Immateriaux (1985, Centre Georges Pompidou).

Fredric Jameson, Postmodernism, or, The Cultural Logic of Late Capitalism (inizialmente sulla New Left Review nel 1984), traduzione italiana Il postmodernismo ovvero La logica culturale del tardo capitalismo (Garzanti 1989).

Zygmunt Bauman, Modernity and The Holocaust, Ithaca, N.Y., Cornell University Press 1989; Le sfide dell’etica, 1993.

Gilles Lipovetsky, Le crépuscule du devoir (Gallimard, 1992; Il buio del postmoderno, 2011).

Maurizio Ferraris, La fidanzata automatica (Bompiani, 2007).

Simonetta Lux, Arte ipercontemporanea. Un certo loro sguardo… Ulteriori protocolli dell’arte contemporanea, Roma, 2006.

È nel soggetto e nel contesto che ho definito ipercontemporaneo che finalmente l’atto del ricordare e l’atto testimoniale sfuggono al chiuso carattere metaforico dell’opera o della creazione artistica, aprendo l’opera e la creazione dell’arte all’altro attraverso un processo che non si chiude nell’oggetto realizzato ma che si proietta con azione trasformatrice psicologica e culturale negli altri soggetti e ambienti della recezione, con azione di inclusione e partecipazione in un feedback che potremmo quasi dire infinito.

Tale soggetto artista imputa in prima istanza a se stesso, autobiograficamente, le ragioni e il fatto della scelta (dei modi, mezzi, tecniche, procedure e tematizzazione creativi) e in secondo luogo alla realtà e agli altri la continuità dello svolgersi e dell’operare dell’opera stessa, presumendone fin dall’istituzione dell’opera l’inclusione.

Quando ho parlato di arte ipercontemporanea e di un certo loro sguardo non mi sono riferita a quell’”oggetto che crede di essere un soggetto”, l’opera d’arte (Maurizio Ferraris, La fidanzata automatica) – definizione che non manco mai di citare, anche fuori contesto per la sua brillantezza ed anche per il suo riferirsi non ad un oggetto ma ad un modo di vedere una certa classe di opere “come se” si potesse escludere il soggetto ideante o forse perché il soggetto ideante ha investito tutto sulla forma chiusa e operante in quanto tale della sua opera –, ma mi sono riferita proprio a quel soggetto, uomo/donna/artista, che nel mondo globalizzato della fase postmoderna del capitalismo (la III fase, secondo Jameson in Postmodernismo ovvero La logica culturale del tardo capitalismo, 1984/1992) iscrive la propria visione critica su tale mondo, compie un atto etico, nella propria opera: lo fa attraverso un mode d’emploi peculiare di tutti i mezzi possibili di espressione (resi disponibili proprio dalla deregulation di ogni paradigma dell’arte esplosa in ciò che chiamiamo con Lyotard condizione postmoderna): da quelli codificati nelle epoche precedenti, a quelli nuovi da sempre estranei ai paradigmi moderni dell’arte.

Lo statuto o condizione di tale soggetto e uomo/donna/artista ipercontemporaneo, è statuto di alterità o estraneità al mondo: ma l’artista è come condannato a operare con la e sulla materia di quel mondo (Boris Groys). Una condizione e uno statuto di estraneità che è effetto del discredito “del senso storico” (Benjamin, Adorno). Laddove è venuta meno la fiducia in un potenziale ermeneutico e costruttivo della operazione artistica, questa si può tuttavia compiere come azione critica e come azione trasformatrice, con un processo di sconfinamento nel reale e negli interstizi tra i vari campi chiusi e autoregolati della vita.

Tra questi campi, quello del cosiddetto sistema dell’arte, è per l’artista ipercontemporaneo la possibilità fragile e contraddittoria di una legittimazione. Pur criticandone la autoreferenzialità, deve a quel sistema – in quanto zona franca – la possibilità della sua azione e del suo linguaggio. Tale soggetto uomo/donna/artista tenterà in ogni modo di entrare e legittimarsi in quel sistema, pena la non efficacia della sua azione con l’arte.

Riferendomi (in Arte ipercontemporanea. Un certo loro sguardo… Ulteriori protocolli dell’arte contemporanea, Roma, 2006) soprattutto a quella ricerca artistica che in artisti internazionali si è decisamente indirizzata a un’anti-cosmetica nell’ultimo ventennio, proprio sul fluire della condizione postmoderna estremizzata per i dominanti processi culturali ed economici della globalizzazione, ho chiamato soggetto ipercontemporaneo colui che si fa artista muovendo da un campo qualsiasi di esperienza o di professionalità, strutturando in linguaggio – appunto – artistico la questione fondamentale o la problematica più acuta relativa al proprio campo di esperienza o di professionalità, proponendosi alla legittimazione del sistema autoreferenziale dell’arte, per quanto e fin tanto che tale sistema si dà come “zona franca” dove tali questioni o tali acute problematiche esterne si possano impunemente toccare e accettare come “valore” intrinseco al linguaggio/arte che le trasporta (o le traspone).

Chiamo poi contesto ipercontemporaneo quella o quelle zone intercampo tra sistema/i autoreferenziale/i dell’arte e mondo della vita (chiusa o fissata nei campi circoscritti e – a loro volta – autoregolati della scienza, della politica, della storia, delle arti, delle società e delle culture). Che tale azione creatrice, di messa in opera della verità, azione combinata di un soggetto/artista auto/interpretato (autobiografico e nomade) in tensione morale contro certe inaccettabili realtà del suo mondo e del reale in generale, per un’esigenza di svelare (usando segni, tracce, depositi della memoria e della tecnica) e di testimoniare condividendole una posizione e una scelta, avvenga proprio nel contesto della estrema condizione storica della postmodernità, aprirebbe una contraddizione insanabile.

Ricordare e citare senza mettere in opera (quella che io chiamo la cosmetica dell’arte), testimoniare del nulla e del vuoto, non sarebbe che la adesione fluida a quella stessa condizione. Fin in questo stato del postmodernismo, ci si trova certo di fronte – come ha ben descritto Gilles Lipovetsky in Le crépuscule du devoir “a una vita sociale priva delle preoccupazioni morali, dove il puro <è> non è più guidato da un <dovrebbe>”.

Con Zygmunt Bauman (Le sfide dell’etica, 1993, e Il buio del postmoderno, 2011), invece di accettare le descrizioni della vita dell’epoca postmoderna come uno stato di fatto autogiustificatorio, possiamo usare quelle descrizioni proprio come descrizioni di una apertura per capire ciò che invece nella condizione moderna non ha funzionato.

“La modernità – scrive Bauman (1993) – aveva la capacità di ostacolare l’autoanalisi, essa avvolgeva i meccanismi dell’autoriproduzione in un velo di illusioni senza le quali quei meccanismi, per come erano, non potevano funzionare correttamente, la modernità doveva porsi obiettivi irraggiungibili per raggiungere quelli che erano alla sua portata”. Sostanzialmente Bauman tenta di spiegare come le fonti della forza morale, che nell’etica e nella pratica politica moderne erano nascoste alla vista, possano essere rese <visibili>.

Insomma si chiede come mai “la regola morale sia stata <depennata> dall’arsenale delle <armi> messe in campo nella lotte autoriproduttive della società”.

Dividiamo l’ironia di Bauman su Gilles Lipovetsky, che chiama “illustre cantore <della liberazione postmoderna>, inventore dell’<Era del vuoto> e dell’ <Impero dell’effimero>” (1993, p. 8), sul cantore entusiasta dell’avvento dell’epoca dell’après-devoir, “un’epoca <post-deontica>, in cui in cui la nostra condotta è stata liberata dalle ultime tracce di opprimenti <doveri illimitati>, <precetti> e <obblighi assoluti>… Gli uomini non provano più l’impulso né il desiderio di perseguire ideali morali; i politici hanno chiuso definitivamente con le utopie; e gli idealisti di ieri sono divenuti pragmatici. <Vietato fare più del necessario>!”.

La verità è che proprio dentro questo processo dissolutivo, detto anche in parte a ragione <liberatorio>, viviamo il dispiegamento finale della postmodernità (finale poiché tutto quello che doveva venire dopo il moderno è avvenuto), finale incardinato negli interessi dell’economia capitalistica di III fase, ora economia finanziaria <globale>, finale anche della dissoluzione e <liberazione> dei linguaggi. Una <liberazione> intrapresa con segno diverso e positivo della parole (verso l’ignoto e l’irrazionale del linguaggio, sin dal Simbolismo nell’arte poetica) e della tecnica.

A partire dagli inizi del ‘900, per tutto il XX secolo, abbiamo assistito a processi di dissoluzione ed esplosione dei linguaggi dell’arte. Tali processi corrispondono a una più o meno inconscia consapevolezza di quanto affermato da Ferdinand de Saussure: cioè della irrelatività tra significante e significato, ovvero dell’inconciliabilità del rapporto parola e cosa, della arbitrarietà del rapporto significante/significato, e più oltre della inconciliabilità di immaginario e realtà, con i fecondi esiti irrazionalistici del Surrealismo e degli sviluppi della teoria freudiana in Jacques Lacan. Molte le resistenze alla <apertura> del soggetto bloccato e all’idea dell’inconscio come linguaggio, come processo di costruzione infinita (del reale).

Sia che tali processi dissolutorii/liberatorii si siano svolti nell’illusione di una reinvenzione dei linguaggi stessi e/o di concorrere a una reinvenzione dei sistemi socio politici (come avviene nelle avanguardie storiche della primo venticinquennio del Novecento), sia che si siano praticati nella disillusione seguita alla seconda guerra mondiale (come avviene nelle neo-avanguardie della seconda metà del Novecento), sono in verità processi complessi, il cui assunto differenziante è dato, nei primi, dall’impulso a dimenticare e rigettare il passato, nei secondi a ricordare.

La seconda guerra mondiale è innestata nel 1939 da Hitler, al culmine del tentativo di affermazione mondiale delle dittature fascista, nazista e comunista sovietica: è una terribile cesura nella cultura occidentale, che segna con la sua violenza ed il genocidio degli ebrei e dei “diversi” un punto imprescindibile – la conditio sine qua non – per l’idea stessa e la possibilità di fare arte.

La pratica della “memoria” diviene una necessità, il vero e proprio fondamento etico di una prassi dell’arte che dopo le decennali interrogazioni sul proprio statuto e sulla stessa possibilità di esistere (interrogazione metaforica, come avviene per esempio nell’Arte Povera, o interrogazione concettuale come avviene nelle pratiche dei diversi movimenti minimalisti o di dematerializzazione, come ad esempio in Art and language). Il soggetto è chiuso, salvo nel caso di un artista sconfinante e sconfinato come l’italiano Luca Patella.

La pratica dell’arte ritorna nel soggetto (uomo/donna/artista) e nel “reale”, e si confronta con un mondo totalmente rivoluzionato, o in totale rivoluzionamento: lo statuto transizionale ed il carattere testimoniale connota l’apparire di certi nuovi modi d’uso dei linguaggi e delle tecniche, il racconto e il basso o il deietto, costituirà il loro territorio in comune (Anton Roca).

Dopo la scelta radicale, omeopatica e sciamanica dell’artista tedesco Joseph Beuys, il primo a entrare – negli anni ’60 – nel merito della questione dell’Olocausto e a congedarsi assolutamente dai codici linguistici dell’arte e dell’estetica modernista o neoavanguardista, possiamo sommariamente indicare i luoghi/tempi o territori culturali/politici di questi tali “nuovi linguaggi”. Precisando però sin da subito che – e da ciò deriva il mio corsivo: nuovi – ci troveremo di fronte a un mode d’emploi, a un modo d’uso ed a un modo di iscrizione differente dei codici, delle forme e dei processi già praticati nelle avanguardie storiche e nel modernismo, più in generale.

L’evento più terribile del 1900 è stato indubbiamente la Shoa, cioè la persecuzione, internamento e uccisione di milioni di ebrei ad opera dei Nazisti. Il primo nodo da sciogliere, perché si potesse parlare di nuovo di Arte e di linguaggio, era stato nel 1947 l’interrogativo posto a tutto il mondo e specialmente all’Europa da Adorno e Horkeheimer in Dialettica dell’illuminismo nel 1947 (capolavoro della teoria critica, steso nell’esilio americano durante gli anni della guerra) e in particolare da Theodor Wiesegrund Adorno, in Philosophie der neuen Musik (Tübingen 1949; Torino 1960, pp. 18-33). Cosa fare perché Auschwitz non si ripeta?

“Pare emergere la tesi secondo cui la cultura che è immondizia non è tutta la cultura, ma solo quella che c’è stata fino ad allora: sicché è possibile immaginare una nuova cultura. E nella parte della Dialettica in cui “due giovani conversano fra loro”, uno dei due è Adorno che parla di se stesso: dice di non detestare in sé la ragione, ma solo quella che v’è stata fino ad allora; c’è bisogno di una forza messianica per non guarire. E in tale prospettiva, Adorno abbozza una pedagogia affinché Auschwitz non si ripeta: la linea fondamentale che percorre tale pedagogia è che non abbiamo più potere sulla realtà e sulle strutture di dominio che ci sovrastano, cosicché possiamo solo lavorare su noi stessi. Perciò egli elabora una “pedagogia della resistenza”, incentrata su tre punti cardinali: a) riconoscere che è la freddezza la condizione che fa nascere Auschwitz; b) “non diventiamo gli assassini di noi stessi!“, egli dice; c) non stancarsi mai di aprire gli occhi alla gente sull’orrore che c’è stato e che c’è ancora”.

(cfr.http://www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/teoria_critica_b.html).

Come uscire dalla negazione di quella ragione stessa da cui muovono tuttavia le istanze emancipatrici della società, dalla messa in discussione del “pensiero, nel cui meccanismo coattivo la natura si riflette e si perpetua, e riflette, proprio in virtù della sua coerenza irresistibile, anche se stesso, come natura immemore di sé, come meccanismo coattivo” (Adorno-Horkheimer, 1947, p. 47).

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Parlerò di alcuni artisti, operanti a partire dalla fine degli anni Cinquanta: l’italiano Luca Patella (1934), il tedesco Joseph Beuys (1921-1986), il lituano naturalizzato statunitense George Maciunas (1931-1978), il tedesco Wolf Vostell (1932-1998) come coloro tra quelli che sembrano soddisfare le <condizioni cardinali> sul cui fondamento Adorno intravedeva una <possibilità> di <essere> all’arte e all’artista. Per vie apparentemente lontane ma all’incirca fin dallo stesso torno di tempo (i primi anni Sessanta), essi maturano l’esigenza di creare con un <nuovo> inaudito modo d’uso di strumenti e dei linguaggi dell’arte, intraprendendo – nella creazione – come primo atto lo svelamento di sé a se stessi e quindi attraverso l’opera lo svelamento e la attivazione del nascosto, del rimosso nell’altro, per intendere cioè che rivolgono tale attivazione in un ex-pubblico ora divenuto persone, del mondo allora contemporaneo.