Tommaso Tozzi, nato a Firenze nel 1960, è artista e docente presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze e Carrara, dove dirige la Scuola di Nuove Tecnologie dell’Arte e uCAN – Centro di Ricerca e Documentazione sull’Arte e le Culture delle Reti. I suoi progetti artistici hanno avuto inizio dalla seconda metà degli anni Settanta. Negli anni Novanta è stato autore di Hacker Art BBS (1990), co-fondatore del newsgroup Cyberpunk (1991), della rete Cybernet (1993), di Strano Network (1993) e di Virtual Town TV BBS (1994), oltre che ideatore del primo netstrike mondiale (1995). In seguito ha realizzato il sito Hacker art (2000), l’Archivio Hacker Art (2002) ed il progetto in rete WikiARTpedia– libera enciclopedia on-line sull’arte e le culture delle reti (2004) – Honorary Mention Prix Ars Electronica 2009 – Digital Communities. Pioniere della computer art italiana, iniziatore degli happening digitali interattivi, Tommaso Tozzi è sempre stato promotore della cultura antagonista, di progetti di autogestione e autoproduzione, di fanzine, di comunità artistiche indipendenti, di movimenti underground basati su ideali di libertà, uguaglianza e cooperazione tra le persone.

Tommaso Tozzi
www.tommasotozzi.it

Wikiartpedia – La Libera Enciclopedia dell’Arte e le Culture delle reti Telematiche
www.wikiartpedia.org

Archivio Hacker Art
www.ecn.org/hackerart

Serena Pisano: Oltre ad essere docente di Teoria dei Mass Media, di Culture digitali e di net.art, lei è il padre dell’hacker art, uno degli iniziatori dell’arte “della memoria” (mi riferisco a progetti come l’Archivio Hacker Art e Wikiartpedia) e si dedica da molti anni a cause attiviste, alla promozione di attività artistiche in contesti alternativi e spesso autogestiti. In sintesi lei ha creato e diffuso cultura sia in ambiti istituzionali che underground. Potrebbe spiegarmi in quali circostanze e in quale misura questi due mondi vengono in contatto ed interagiscono tra loro?
Tommaso Tozzi: Direi che con una certa frequenza persone che dedicano parte del proprio tempo ad attività di un mondo sono poi per percorsi personali coinvolti anche nell’altro. Questo favorisce un cortocircuito tra i due mondi. Non vorrei azzardare anche l’ipotesi che talvolta il mondo underground funziona da laboratorio politico dove sperimentare modelli e soluzioni per quello istituzionale. Non lo faccio perché nella facciata sembrerebbe esservi una totale idiosincrasia tra i due mondi. Se però poi si vanno a guardare le storie reali, spesso non sono così distanti.

S.P.: Ho sentito parlare molto di feticismo dell’arte e di feticismo della tecnologia. Da una parte c’è chi sostiene che l’arte sia fine a se stessa e che possa utilizzare la tecnologia come strumento per manifestarsi, dall’altra parte, invece, c’è l’opinione secondo cui sia la tecnologia ad esplicarsi tramite l’arte, la cui forma diventa, in questo caso, quasi una naturale conseguenza dell’uso di determinati dispositivi. Lei cosa ne pensa? L’hacker art nasce per agire nel sociale, è tutt’altro che fine a se stessa: è oggetto di qualche tipo di fascinazione per la tecnologia oppure intrattiene con essa un rapporto puramente strumentale?
T.T.: Tendo a propendere per una visione sistemica e olistica. Penso dunque che ogni ambito, pur avendo un suo specifico, intrattenga legami con l’altro influenzandolo e modificandolo. Se dunque si fa arte tecnologica non si fa né ARTE tecnologica, né arte TECNOLOGICA, ma si fa arte tecnologica, ovvero il risultato dell’incontro tra questi due ambiti, un risultato nel quale ognuno dei due ambiti non prevale ed è modificato nel suo essere sostanziale.

S.P.: Lei è l’ideatore del primo netstrike mondiale, che, al di là della sua esplicita funzione di protesta civile, viene annoverato tra le più importanti opere di net.art. Qual è la sua posizione a riguardo?
T.T.: Che sono felice di averlo inventato, ma che era già nell’aria nel 1995, in quanto le potenzialità di una tecnologia emergono spontaneamente con una certa facilità quando si inizia ad utilizzarla. I meriti sono dunque della tecnologia e dei loro inventori. Credo che il modo originario con cui lo proposi nel 1995 a Strano Network (ovvero il risultato di click fisici delle persone, senza l’ausilio di software, coadiuvato da una grossa campagna di informazione mediale) sia la forma genuina e corretta del suo uso. Un uso cioè che si renda rappresentativo dei reali numeri di chi partecipa alla protesta. Il modo in cui Dominguez nel 1998 e poi altri successivamente lo hanno rielaborato con l’utilizzo di software che falsavano la capacità rappresentativa di tale pratiche, ma che lo facevano diventare uno strumento di guerriglia elitaria, non mi ha mai convinto, sebbene io rispetti e stimi lui e gli altri e il loro lavoro che credo abbia favorito l’affermarsi di un agire collettivo di uso critico dell’arte e dei media. Credo infine che possa essere considerato arte così come un’infinità di altri modi con cui nella vita quotidiana possiamo cercare di impegnarci per migliorare il mondo.

S.P.: Un concetto ricorrente relativo alla net.art è quello della sua impermanenza, dell’impossibilità, cioè, di fissare un’opera di net.art su di un supporto fisico, di poterla conservare. Sembra che questo abbia cambiato qualcosa nel modo stesso di concepire un’opera d’arte. Qual è il suo punto di vista?
T.T.: Credo che il concetto di arte immateriale o aleatoria, di arte/vita sia figlio di un agire millenario che crede meno nelle cose che non nei valori, nelle persone e nelle loro relazioni. Per venire ai giorni nostri l’atmosfera in cui si sviluppa l’utopia del computer negli anni Sessanta e Settanta è parallela all’affermarsi di pratiche artistiche immateriali come l’arte concettuale, la land art, gli happening e le performance, l’arte sociologica, ecc. e le due storie sono pesantemente intrecciate non solo per affinità, ma esattamente per le storie delle persone che si intersecano tra i due ambiti. Certi presupposti di quel periodo sono ben più impermanenti di una pagina dinamica sul web, ma poi in entrambi i casi opera non è la traccia lasciata da un processo che si sviluppa (nè la fotografia di una performance né un file in un computer) ma ciò che sta a monte, ciò che viene prima, e che verrà dopo. Per entrambe non vi è il vincolo di dover considerare opera solo ciò che è formalizzabile entro i limiti di ciò che può essere venduto.
L’arte, per poterne parlare con maggiore concretezza, va ripulita dalla necessità di essere uno strumento di sussistenza. Io non ritengo negativo che si possa vivere di arte, anzi vorrei che tutti nella migliore delle società possibili possano vivere di arte, ma ritengo negativo il fatto che spesso i limiti del riconoscimento di qualcosa come artistico siano dati dalla sua possibilità di essere venduto. Un’opera può avere un grande impatto mediatico e sociale e poi sparire, essere scordata poiché non è nata per il mercato e non sarà da tale mercato conservata, sponsorizzata, storicizzata. Eppure, se oggi si entra in un qualsiasi museo di arte contemporanea, delle miriadi dei lavori artistici fatti da soggetti meritevoli, sono conservati solo quegli oggetti da loro fatti che possono essere venduti. Un’opera come tu dici impermanente è inconcepibile per il mercato dell’arte e dunque un’ipotesi come la tua non può appartenere all’attuale mondo dell’arte. La trovi dunque come asserzione fatta da parte di chi si situa simultaneamente in più mondi, non solo quello artistico, ma anche quello sociologico, economico e politico, solo per fare degli esempi.
Quando il mondo sarà cambiato al punto da poter affermare che tali soggetti sono solo artisti, e non artisti/sociologi/critici/ecc., allora forse sarà stata vinta un’importante battaglia e si potrà affermare che il loro lavoro è un’opera di net.art. Oggi invece ancora la net.art è compromessa e invischiata con le logiche del Palazzo dell’arte ed è dunque difficile a mio avviso ipotizzare la possibilità di definire con certezza l’esistenza di un’opera di net.art impermanente.

S.P.: La performance, che diversamente dall’opera di net.art può tenersi in uno spazio museale, ha una caratteristica importante in comune con l’opera di net.art: entrambe “accadono” ed entrambe possono essere documentate in qualche modo, ad esempio fotografando il momento della preparazione. Le fotografie potrebbero poi essere anche vendute. Secondo lei, rispetto a questo, quali sono le novità apportate dalla net.art? Lei ritiene che sia il solito sistema del mercato a regolare e dettare legge sulla net.art? Per quanto riguarda l’hacker art, accade qualcosa di diverso?
T.T.: Ritengo che una cosa sia l’intenzione di chi fa quelle cose, un’altra il modo con cui vengono storicizzate. Si dice spesso che l’arte ha il compito di rendere visibile l’invisibile. Ma sappiamo anche che ogni cosa che noi rendiamo visibile è parziale rispetto a quell’invisibile che evoca. Forse quando saremo in Dio potremo cogliere con maggiore chiarezza la possibilità di rappresentare l’essenza di una performance o di un’opera di net.art. Ora occuparsi di queste cose rischia però di essere un modo per distoglierci dall’attenzione verso i problemi terreni e concreti del mondo.
Risolvere questi problemi penso sia una forma d’arte. Come dare forma all’agire che risolve i problemi del mondo per poterne indicare con esattezza i contorni è un altro problema che tendenzialmente come artista non dovrebbe appartenermi. Mi appartiene nel momento in cui provo a fare lo storico, ma anche in questa veste più riesco a sfuggire a tali domande per riportarle nel binario di ciò che è utile e più credo di essere rimasto fedele all’essenza dell’opera.

S.P.: C’è chi dice che l’esperienza della net.art si sia conclusa. Secondo lei è vero? Se fosse vero, quale eredità avrebbe lasciato al mondo dell’arte?
T.T.: Se potessi dire quando una cosa è iniziata e quando è conclusa sarei ugualmente capace di fornirne i contorni. Io posso provare a fornire esempi che mi sembrano rappresentativi di ciò che voglio dire, ma non ho mai la presunzione di aver esaurito il campo degli esempi possibili. La net.art non è nata con Vuk Cosic e nemmeno è morta. Così come l’hacker art non è nata nel momento in cui viene nominata come tale, altrimenti si rischia di pensare che l’essenza si esaurisce nel nome. Il nome è solo un segno che ci serve per comunicarci l’essenza delle cose. Se non si capisce questo si cade nell’errore indicato da Mao: “guarda la luna e non il dito che la indica”.
La vita delle persone è connessa con quella degli altri.
Le loro idee pure.
Le loro azioni anche.
Le loro opere di conseguenza.
Io faccio uno strumento come Wikiartpedia che cerca di dare forma alle opere, agli artisti, alle correnti ecc., ma vorrei che fosse chiaro che con tale strumento non ho nessuna presunzione di poter fornire l’essenza di tali cose, ma solo cercare un modo comprensibile per poterle sommariamente comprendere e comunicare tale sapere. Ma una scheda di wikiartpedia non sarà mai l’opera che essa descrive, così come una foto di mia madre non sarà mai mia madre, così come un’opera di net.art non ha un inizio certo e una fine certa, così come mia madre anche dopo che è morta continua a vivere in me. Se sapessi definire cos’è la morte forse potrei affermare che un’opera di net.art è morta. Ma non ho tale presunzione perché non credo di conoscere la morte in quanto sto sperimentando la condizione della vita. Dunque preferisco restare nell’ambito di ciò di cui posso – entro certi limiti – parlare ed affermare che la net.art è ancora viva dato che non saprei che significato dare alla mia affermazione che la net.art è morta.

Dall’alto:

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BBS Hacker Art di Tommaso Tozzi