Rossella Biscotti ha appena vinto il premio Italia con l’opera dal titolo Il processo. Un titolo che a molti ricorderà l’assurda vicenda Kafkiana, ma che l’artista riferisce al Processo del Sette Aprile, formalmente elaborato con dei calchi di cemento tratti dai luoghi significativi di quella che fino a pochi anni fa era l’Aula Bunker romana dove si svolse il Processo, e con un’installazione sonora, che ha la durata complessiva di otto ore, ripetutamente mandata in loop.
L’Aula Bunker si trova all’interno del complesso del Foro Italico nei pressi di P.le Maresciallo Giardino: la ex-Casa delle Armi, progettata da Luigi Moretti e realizzata tra il 1933 e il 1936.
In seguito divenne la sede di alcuni tra i più importanti processi della storia italiana, da quello alla Banda della Magliana, al Processo sul delitto Aldo Moro. Una destinazione che ha trasfigurato questo capolavoro di architettura razionalista, secondo una logica militare e restrittiva.
Tra i molti, quello del Sette Aprile fu forse uno dei processi più chiassosi – e anche creativi – della storia italiana. Durò un anno e mezzo, e i superdetenuti erano scortati dal carcere fino all’Aula Bunker con colonne di blindati – alcuni dei quali vuoti – ed elicotteri, lasciando il segno nella memoria della città.
La storia, l’architettura, l’arte, la memoria collettiva e la politica si incrociano in questo luogo, e vengono tradotti dall’artista in una narrazione estetica che ne individua i tratti significativi e riduce ad una sola forma la materialità pesante dei fatti, dei segni del tempo e l’immaterialità dei suoni e dei ricordi.

Daniela Voso: Rossella, nel tuo lavoro il rapporto con la storia e con i materiali d’archivio, la memoria e l’attualità, si sposano con la ricerca di soluzioni formali specifiche. Da questo percorso sulle architetture razionaliste di epoca fascista, sei giunta ad affrontare una delle vicende più controverse della storia italiana: il Processo del Sette Aprile. Perchè hai scelto di parlare di un tema così complesso?
Rossella Biscotti: Senza dubbio il Processo del Sette Aprile, tema che è stato messo in secondo piano dai comunicati stampa, è proprio l’oggetto di questo lavoro.
È stato nel 2006, entrando la prima volta dentro quell’Aula, sede di processi importanti e osservata molte volte in televisione o attraverso i giornali, che ho sentito la necessità di sviluppare un lavoro narrativo che ne cogliesse il significato più ampio; non solo nel suo valore architettonico, ma anche nella sua ragione storica e politica.

D.V.: L’ex Casa d’Armi – attuale Aula Bunker – è considerata una delle massime espressioni dell’architettura razionalista, insieme al Palazzo dei Congressi dell’Eur di Adalberto Libera, mentre oggi ci appare radicalmente trasfigurata dalla logica militare e restrittiva. Come ti sei avvicinata a questo luogo?
R.B.: Mi sono avvicinata a questo complesso attraverso un lavoro di studio sul recupero degli edifici fascisti e sulle loro trasformazioni, che stavo conducendo insieme a Kevin Van Braak. Quello che mi interessava inizialmente era solo ritrarre questo luogo con una foto. All’epoca ero già a conoscenza delle vicende sul passaggio di questo edificio dal Ministero di Grazia e Giustizia a quello dei Beni culturali e del dibattito in corso sulle possibili destinazioni della struttura.
Vista la sua storia e le continue trasformazioni di cui questa è stata oggetto, ho iniziato a considerare l’Aula Bunker nel suo aspetto di luogo contenitore. Le ristrutturazioni, che la caratterizzano ancora oggi come luogo fortificato, sono emblematiche di un periodo storico: quello dei cosiddetti anni di piombo. Un periodo che non è stato abbastanza trattato da artisti e film-maker, o meglio non lo è stato attraverso un incontro reale con i protagonisti di allora. Quella degli anni di piombo è infatti una storia che per molti anni, proprio quelli della mia formazione, è rimasta un tabù ed ha subìto un oscuramento, che io non giustifico e che credo sia necessario recuperare.
Dagli anni di piombo ad oggi sono numerosi i processi ai quali l’ex-Casa delle Armi ha fatto da sfondo, e tra questi due in particolare sono stati fondamentali per la nostra storia: quello del Sette Aprile e quello di Aldo Moro.
Lavorare sul Sette Aprile è stata una scelta precisa, determinata da diversi fattori: in primo luogo dai contenuti espressi negli eventi storici che vengono ricostruiti nel corso del processo: dai movimenti del ‘68 ai picchettaggi nelle fabbriche occupate e alle manifestazioni, si delinea infatti una parte della storia politica di Potere Operaio e dell’Autonomia. L’altro aspetto fondamentale è la contemporaneità che le discussioni interne a questo processo esprimono ancora oggi, nel modo in cui affrontano il tema del lavoro rispetto alle condizioni di vita e di esistenza, condizioni che si ripropongono dal lavoro in fabbrica alla catena produttiva, dal lavoro in nero al lavoro precario. Il terzo aspetto è che questo è stato un processo politico tout court, differente da molti altri per la posizione che assunsero gli imputati, che rivendicarono le loro azioni e si difesero instaurando un rapporto diretto e dialettico con la Corte.

D.V.: Un lavoro di ricerca e di ricostruzione storica di tutto rispetto quindi – fatto di documenti, notizie e impressioni – questo del Processo. Come hai risolto formalmente questa tematica e i materiali che hai acquisito?
R.B.: Come sai ho lavorato su due livelli, realizzando un editing audio e una serie di sculture in cemento. Queste forme non si possono dividere, e sono entrambe la mia traduzione del processo.
Per quanto riguarda l’editing è stata una scelta di contenuto, struttura e forma.
In questi anni ho studiato molti testi e pubblicazioni e ho ascoltato tutte le registrazioni di un anno e mezzo di processo, da cui ho fatto la selezione delle otto ore. Ma prima di tutto ho ascoltato i racconti di quella generazione dai protagonisti stessi, ed è in questo incontro che le parole hanno assunto tutta la loro pienezza e forza, determinando le mie scelte di contenuto.
Dall’ascolto delle registrazioni siamo passati quindi alle trascrizioni, con cui abbiamo ricostruito tutto il processo, accorgendoci di molti dettagli, come ad esempio la reiterazione sistematica di certe domande che venivano rivolte agli imputati, al punto che mi sembrava di avere già ascoltato certi brani. Cosa che si è riscontrata soprattutto nei quattordici giorni dell’interrogatorio a Toni Negri, più lungo degli altri che duravano in media due o tre giorni.
Per Il processo ho scelto un’impostazione cronologica rispetto ai fatti, anche se non lo era nel processo reale. Ho aperto quindi con l’istruttoria del giudice e la lettura dei capi d’accusa rivolti a Toni Negri: uno dei momenti più significativi del processo, perché in questa lettura vengono amalgamate tutte le differenze della galassia politica extraparlamentare e perché è la premessa ad uno scambio di citazioni adottate sia dall’accusa che dalla difesa. A questa confusione corrisponde, infatti, la complessità di un’istruttoria che è stata svolta con il recupero e la lettura di testi, documenti e libri, che qui sono citati direttamente dal Giudice, ma che furono di fatto utilizzate anche nel corso del processo dagli stessi imputati come strumenti di difesa.
Dai capi d’accusa c’è l’allargamento in seconda battuta al processo a Paolo Virno, si passa quindi dal procedimento verso un imputato specifico – Toni Negri – al discorso complesso di una generazione sulle stagioni di lotta e le trasformazioni sociali degli anni ‘70. Di qui man mano si sviluppa tutta la narrazione, con le dichiarazioni e gli interrogatori di altri imputati (tra cui Augusto Finzi, Alberto Magnaghi, Chicco Funaro, Paolo Pozzi, Franco Tommei). L’audio parte dal confronto tra Presidente e Imputato (Negri), ma sarà – e fu – quest’ultimo a determinare poi lo svolgimento del processo, di cui gestì il ritmo, fino al recupero del giudice e al ritorno nella dimensione giudiziaria. Ci sono momenti di grande intensità in queste registrazioni, dove si può percepire uno scontro che va al di là del giudizio e dei contenuti, che attraversa il linguaggio, il modo di vita.
A questo proposito sono molto importanti le dichiarazioni degli imputati in custodia cautelare, che parlano dalla gabbia e che scandiscono le tappe del processo con delle interruzioni che al piano politico sovrappongono quello umano, riportando le testimonianze della vita e del carcere durante la legislazione d’emergenza: carcerazione preventiva, celle di isolamento, carceri speciali, scioperi della fame.
Da tutto l’insieme emerge l’assurdità di questo Processo, che si è focalizzato su dei fatti specifici, poco rilevanti come reati e usati come pretesto per stroncare il Movimento.

D.V.: In effetti quello del Sette Aprile è stato uno dei momenti di svolta della storia e della cultura politica italiana, ricordato soprattutto da quello che è stato definito il teorema Calogero: “Visto che non si riesce a prendere il pesce, bisogna prosciugare il mare”. Una metafora che mirava alla detenzione preventiva, dei leader di Autonomia Operaia, e che metteva sotto processo le teorie che erano considerate dal PM alla base di un presunto progetto di insurrezione armata.
Dall’immaterialità del suono, con cui riassumi storie e parole che hanno pesato molto, come sei passata al contrappasso delle sculture di cemento?
R.B.: Nella scelta formale ho voluto tradurre la materialità del processo e ne ho individuato prima di tutto i luoghi. Mi piaceva l’idea di usare il cemento: un materiale grezzo, fatto di acqua e di sabbia, economico e solido. Con questo ho voluto rendere la presenza e la forza degli imputati che non rifiutarono il processo e la capacità che questo luogo, l’aula bunker, ha di lasciare un segno molto forte.
Prima di tutto sono partita dal calco delle sbarre che dividevano l’imputato dall’esterno e dall’affettività, per poi individuare gli altri luoghi. In un articolo riportato nel Manifesto, Emilio Vesce cita la scala d’accesso alle gabbie (Emilio Vesce, Quella rampa di scale che ci porta lassù. Il Foro Italico visto da una gabbia, pubblicato ne “il Manifesto”, 6 gennaio 1984, pag. 4), che quotidianamente i detenuti percorrevano per andare ad ascoltare il processo, e la riconosce come luogo dell’esercizio fisico e mentale, di preparazione al giorno della sentenza. Ho individuato poi la porzione di pavimento dove poggiava la sedia del giudice, la scala da cui il pubblico e gli imputati a piede libero avevano accesso all’aula-bunker, il microfono da cui parlavano gli imputati dalle gabbie.
Ci tengo a specificare che quanto ho tradotto con i calchi in cemento non è la superficie dell’aula-bunker, ma sono gli spazi simbolici: i luoghi.

D.V.: Dalla narrazione, alla ricerca, alla collaborazione, è corretto dire che il tuo lavoro non si è concluso nella presentazione dell’opera, ma vive in relazione all’aula?
R.B.: Sì. La giornata trascorsa nell’aula-bunker il 4 dicembre, dopo la premiazione, è stata decisamente emozionante e per me è stato il momento conclusivo dell’opera. Ho proposto questo sopralluogo condiviso, una specie di incontro e di visita informale all’interno dell’aula. Ho esteso l’invito agli imputati, ai loro intimi, agli avvocati, ma anche a tutte le persone che ho incontrato in questo percorso e che mi hanno influenzata nel lavoro che, sento di poter dire: è stato un lavoro collettivo.

D.V.: Prima hai sottolineato come l’incontro diretto con i protagonisti dell’epoca sia stato uno dei punti di forza di questa ricerca. Inoltre so che ti sei avvalsa di collaborazioni preziose nelle varie fasi di realizzazione finale dell’opera, mettendo in piedi e coordinando una vera e propria macchina operativa. Quali sono state le forme di questa collaborazione e quale la ricchezza che ne hai tratto?
R.B.: La fase di produzione è il momento più importante e più bello del lavoro, quello che dà luogo alle scoperte. Il Processo ha avuto una lunga gestazione, a partire dal 2006, ma è stato materialmente realizzato in circa sei mesi, grazie all’aiuto di una vera e propria squadra, che ha dato vita ad un lavoro di coordinamento tra persone con le quali si è instaurato un rapporto di sintonia e fiducia.
Ho lavorato con Rossana Miele per tutti questi mesi sulla ricerca storica e la produzione, Max Mosca ha realizzato l’editing audio in stretta collaborazione con me e Mariachiara Piccolo, Kevin van Braak mi ha aiutata nella progettazione dei blocchi in cemento che sono stati realizzati da una squadra eccezionale di tecnici (Sorin Bucsa, Minel Ciuceanu, Adrian Mancas, Constantin Nistor, Gheorghe Sion) messa a disposizione da Stefano Sciarretta. È capitato molto spesso di stare insieme giorno e notte, discutere, confrontarci.

D.V.: Un contributo importante quindi. Già a partire dagli anni Sessanta molti artisti iniziarono a fare una distinzione tra le fasi di realizzazione materiale dell’opera e la sua progettualità. Si pensi ai pacchetti sovradimensionati di Christo o alla Spiral Jetty di Robert Smithson, che hanno messo in piedi opere magnifiche che non potevano essere risolte diversamente se non con il supporto di tecnici specializzati. Ecco, mi sembra che il tuo lavoro si distingua rispetto a quello di questi artisti, che si confrontavano direttamente con i territori in cui intervenivano, per la forte connotazione storica e per lo spessore di una ricerca d’archivio che lo sostiene. Sei d’accordo con questa lettura?
R.B.: In un certo senso sì. Il mio lavoro deriva dall’arte concettuale e minimale ma parte da una ricerca, che il più delle volte è storica e sviluppa una narrazione che è interna alla forma. Forse questo è più chiaro sapendo che i miei primi lavori sono principalmente video e film. Anche nel momento in cui realizzo delle opere scultoree, per esempio, il mio processo è narrativo, include il tempo.
Mi interessa lavorare su più livelli contemporaneamente, e avere un messaggio che passa attraverso il contenuto, la forma, l’installazione. Parto dalla storia che voglio raccontare e procedo nella ricerca, raccolgo materiali, interviste, documentazione, e poi porto tutto all’interno dell’opera in una misura esatta, in maniera tale che non ci sia nessun’altra combinazione possibile. Nonostante questa precisione nella formalizzazione del lavoro, lascio sempre uno spazio immenso d’interpretazione ed esperienza per lo spettatore. Mi interessa creare un’esperienza che riporti tutto in gioco: la storia e il presente, l’arte, il documento, il tempo.

D.V.: Visto il forte carattere politico di quest’opera e di altre che l’hanno preceduta, la tua si può considerare un’arte politica?
R.B.: Questa domanda ritorna ciclicamente. La mia arte è arte con tutta la bellezza, la forza che l’arte può e deve determinare all’interno della società. Ovviamente ha una connotazione politica che deriva appunto dai miei interessi, dalla mia vita, ma che non è necessariamente riconducibile ai contenuti dell’opera se non all’etica della ricerca, al processo di realizzazione, alla volontà di far emergere attraverso l’estetica una riflessione profondamente sociale.

 

Dall’alto:

1-2-3
Rossella Biscotti
Il Processo, 2010 – 2011
Installazione sonora, 8 ore in loop.
Calchi in cemento armato, dimensioni varie.
Performance. Aula Bunker del Foro Italico, ex Corte d’Assise di Roma.
performance
Foto Rossella Biscotti

 

4
Rossella Biscotti
Il Processo, 2010 – 2011
Installazione sonora, 8 ore in loop.
Calchi in cemento armato, dimensioni varie.
Performance. Aula Bunker del Foro Italico, ex Corte d’Assise di Roma.
Veduta dei lavori
Foto Rossella Biscotti

 

5 e 6
Rossella Biscotti
Il Processo, 2010 – 2011
Installazione sonora, 8 ore in loop.
Calchi in cemento armato, dimensioni varie.
Performance. Aula Bunker del Foro Italico, ex Corte d’Assise di Roma.
Veduta dell’Aula Bunker e veduta parziale dell’installazione.
Foto di Gennaro Navarra

 

7
Rossella Biscotti
Il Processo, 2010 – 2011
Installazione sonora, 8 ore in loop.
Calchi in cemento armato,dimensioni varie.
Performance. Aula Bunker del Foro Italico, ex Corte d’Assise di Roma.
Veduta complessiva dell’installazione
Foto Sebastiano Luciano
Courtesy Fondazione MAXXI