Testi di riferimento introduzione (I), testi di riferimento relazione (II)

(I)

Don’t  You Know Who I Am? L’Art Aprés La Politique De L’Identité, a cura di Anders Kreuger e Nav Haq, mostra tenuta presso il Muséè D’Art Contemporain D’Anverss – MHKA (afteridentity.muhka.be/), 13.06.2014-14.09.2014. La mostra, il cui catalogo è pubblicato in tre lingue, ha presentato trenta artisti o duo di artisti. Organizzata in partnariato con AIR Antwerpen (che ha offerto residenza ad artisti partecipanti) e ha visto un importante forum organizzato congiuntamente dal MHKA e dal CAHF (Contemporary Art Heritage Flanders), l’equivalente del nostro Ministero dei Beni Culturali.

Zygmunt Bauman, Vite di scarto, Bari, Laterza, 2005 (edizione originale inglese Wasted Lives. Modernity and Its Outcasts”, Cambridge, Polity Press, 2004.

Zygmunt Bauman, David Lyon, Sesto Potere. La sorveglianza nella modernità liquida, Bari, Laterza, 2014 (edizione originale inglese Liquid Surveillance. A Conversation, Polity Press, Cambridge, 2013). 

(II)

Simonetta Lux, Il nous apprend à dominer le dynamisme universel, saggio in catalogo Cubisti Cubismo, a cura di Charlotte Eyerman, Milano Skyra, 2013, pp. 175-203.

Simonetta Lux, Cézanne attraverso il Futurismo da Soffici a Boccioni e oltre, in Cézanne e le avanguardie, a cura di Nello Ponente, Roma, Officina Edizioni, 1981, pp. 116-167.

Arthur I. Miller, 137 L’equazione dell’anima, Milano, RCS Libri S.p.A, 2009 (titolo originale Deciphering the Cosmc Number, 2009)

Drudi Gambillo – T. Fiore, Archivi del Futurismo, Roma, 1958 (pp. 372-273 la corrispondenza tra Ferruccio Busoni e Umberto Boccioni).

Ferruccio Busoni, Lettere con il carteggio Busoni-Schönberg, Milano, Edizioni Unicopli-Ricordi, 1988. (ed. inglese Londra, Faber & Faber 1987).

Carl Gustav Jung, Contributo allo studio dei tipi psicologici, conferenza letta al Congresso di psicoanalisi di Monaco nel settembre 1913 e pubblicata in francese in Archives de Psychologie, Ginevra, XIII, 1913, n. 52, dicembre.

Zygmunt Bauman, David Lyon, Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2014.

Guillaume Apollinaire, Poèmes de la paix et de la guerre (1913-1916), Parigi, 1918.

Blaise Cendrars, J’ai tué. Prose par monsieur Blaise Cendrars et 5 dessins de monsieur Fernand Léger, Parigi, La belle édition, 1918.

Blaise Cendrars, La fin du monde filmee par l’ange, N-D. composition en coleurs par Fernand Léger, Parigi, éditions de la Sirène, 1919.

Introduzione alla relazione di Simonetta Lux al convegno mondiale di Antwerpen Peace is the Future. Religions e Cultures in Dialogue 100 Years after World War I. 7 – 9 settembre 2014. promosso dalla Comunità di Sant’Egidio. Panel 14 “Art between Conflict and Peace”. Come relatori in questo Panel, oltre alla storica dell’arte  Simonetta Lux, Honorary Professor Università La Sapienza (Italia) sono stati invitati: lo scrittore Nedim Gürsel (Turchia); l’artista Jusuf Hadžifejzović (Bosnia Erzegovina), l’artista César Meneghetti (Brasile), l’artista Johannes Wickert (Germania).

I rappresentanti di tutte le chiese e le religioni del mondo si sono riuniti con sociologi e filosofi tra cui Zygmunt Bauman (relatore inaugurale e relatore nel Panel 10 “Immigration: New Europe and for a New Europe”); giornalisti come Domenico Quirico (Panel 1 “Religions and Violence”) e Antonio Ferrari (Panel 12 “Conflicts and the Media”); testimoni e sopravvissuti dai genocidi dell’IS come Vian Dakheel della comunità Yazita, membro del Parlamento dell’Iraq ed hanno solennemente  condannato e negato la matrice religiosa della guerra in corso per la creazione dello stato islamico. La riflessione si è svolta attraverso 14 Panels.

La condizione dell’uomo sotto la guerra e ogni forma di violenza, è oggi la stessa di cento e mille anni fa. Simonetta Lux ha in particolare messo in evidenza la condizione e la posizione critica dell’artista cento anni fa e oggi. Durante la sua visita, insieme agli artisti anch’essi relatori, César Meneghetti e Jusuf Hadžifejzović, fatta al museo di arte contemporanea di Antwerpen MHKA, la mostra in corso dal titolo Don’t You Know Who I Am? L’Art Aprés La Politique De L’Identité non ha sorpreso per il senso di disperazione e frammentazione presente nelle opere di quasi tutti gli artisti invitati: ne è simbolo ad esempio l’installazione del duo di artisti dal nome Pennacchio Argentato: You Will Never Be Safe del 2013. Il duo di artisti – come l’opera di quasi tutti gli altri partecipanti – è parso subito operare come in sintonia con quanto Zygmunt Bauman diceva nella introduzione al convegno, nella sua relazione nella sezione Immigrazione al Panel 10 e in quanto scritto nei suoi numerosi libri e saggi, in particolare in “Vite di scarto” (2004) e, insieme a David Lyon, in Sesto Potere. La sorveglianza nella modernità liquida (2013). Pennacchio Argentato si concentrano appunto sul soggetto umano: “riflettendo sulla costruzione dei nostri Io virtuali attraverso le tecnologie attuali di comunicazione in cui le biografie si fanno provvisorie, fluide, disparte e multidimensionali”. Come ciò che Bauman auspica, questa generazione di artisti non appaiono né pro né contro i progressi tecnologici della comunicazione, conservano tuttavia una coscienza critica.

Per fortuna l’artista Nastio Mosquito con un’ironia grottesca e il gioco – come detto nel catalogo “tra carisma ed esotismo, divertente e perturbante nello stesso tempo” – ci garantisce un minimo di futura libertà al di là del politicamente corretto, insomma paradossalmente una certa possibilità di azione critica “al di là del desiderio di essere consumatori della differenza culturale”.   

 

Incompatibilità dell’Arte con la guerra: costruzione dell’immaginario e fuga dalla violenza

Relazione di Simonetta Lux al convegno mondiale di Antwerpen.

Gli artisti dell’Avanguardia negli anni della prima guerra mondiale fuggono dalle guerre e, nomadi per l’Europa, si riuniscono costruendo nella loro arte testimonianze di trasformazione dell’immaginario per la pace e le relazioni transnazionali.

Possiamo dare per scontata la incomunicabilità di campi tra la energia creativa e la energia distruttiva: dobbiamo a Charles Baudelaire la prima affermazione, alla fine dell’Ottocento, della incompatibilità assoluta tra la poesia e la politica, forse anche memore della cacciata dei poeti dalla utopica Repubblica disegnata da Platone.

Certo è che abbiamo quasi un’immagine dell’Europa analoga a quella che stiamo vivendo in questo 2014, negli anni di enormi trasformazioni sociali nell’Europa dei primi due decenni del Novecento: in particolare l’immagine dell’Europa, proprio al tempo della prima guerra mondiale che inaugura il secolo e cui si fa riferimento in questo incontro volto a dichiarare la necessità di una prospettiva pacifica per la costruzione di un futuro degno dell’uomo libero.

Non solo gli scienziati (pensiamo alle grandi scoperte di Albert Einstein – la teoria della relatività –, di Wolfgang Pauli – il principio di esclusione e la nuova teoria della materia-, di Sigmund Freud e Carl Gustav Jung – la nascita della psicanalisi, con lo svelamento delle ossessioni interiori della società dell’epoca), ma anche gli artisti realizzano opere rivoluzionarie. Essi si muovevano, come i nomadi della attuale società globalizzata in tempi soggetti a rivolte e violenze di ogni tipo, attraverso frontiere e si riunivano di volta in volta in grandi capitali diverse d’Europa, condividendo progetti di nuove forme, linguaggi e teorie scientifiche. Analogo a questa nostra epoca era infatti allora, cento anni fa, il processo di comunicazione e scambio (anche se non esisteva la facilità tecnologica attuale di internet, della radio e della televisione) in un’ansia di relazione e condivisione dei processi creativi in atto. Sarebbe troppo lungo qui ricordare lo sfondo di dubbi e intuizioni, condiviso nell’ambito della cultura artistica e della cultura scientifica: dominante tra tutti – anche se in modi e in radici differenti – l’aspirazione ad una libertà dell’uomo che andava oltre l’idea di progetto e rivoluzione terrena. Si trattava della aspirazione al superamento dei limiti fisici della materialità, della materia, per scoprire e svelare il segreto stesso della natura della materia e dei suoi componenti invisibili. Come sappiamo questa ansia tocca scienziati ed artisti: quale che fosse la diversa radice, religiosa o esoterica o laica, i processi di conoscenza e di creazione sono intrecciati e partecipati nella diversità.

Le esperienze dell’arte cui possiamo fare riferimento nel limitato tempo che abbiamo a disposizione in questa sede, sono direi quelle più eclatanti degli inizi del Novecento, cioè delle avanguardie cosiddette storiche (si usa questo aggettivo per differenziarle dalle nuove avanguardie che si svilupparono dopo la seconda guerra mondiale a partire dal 1946-47). È nell’ambito del Futurismo e del Cubismo ad esempio, che possiamo intravedere non solo quella immagine nomadistica e transnazionale dell’arte, ma anche un processo di ripensamento di sé e delle proprie diverse scelte, nel momento in cui gli artisti di quei due movimenti passano- costretti o per scelta – proprio attraverso l’esperienza della guerra, toccati direttamente o indirettamente, dalla prima guerra mondiale.

Uno dei casi che vorrei ricordare è quello di Umberto Boccioni che, poco prima di morire nel 1916 mentre era stato richiamato al fronte, lancia un suo disperato messaggio contro la guerra e le sue ragioni extra umane e modifica sostanzialmente il suo stesso linguaggio in un’opera rimasta famosa: il ritratto del compositore e pianista di fama internazionale, Ferruccio Busoni. C’è da chiedersi come sia avvenuto il cambiamento dal linguaggio rivoluzionario futurista, peraltro di grande bellezza e significato per la storia mondiale della cultura del Novecento, per tornare a un linguaggio di pittura in senso stretto che si rifà a un prerivoluzionario come Paul Cézanne, per ricomporre in una pittura pura l’immagine dell’uomo.

Non si pone una questione di estetica, ma una questione profonda di mutamento interiore.

Si pone un grande mutamento interiore in Boccioni come in altri (Ardengo Soffici) del gruppo dei futuristi italiani che erano entrati nella guerra nel 1915, come volontari entusiasti.

Sappiamo che l’intervento in guerra dell’Italia fu soggetto ad un dibattito interno alle stesse ideologie pacifiste socialiste e molto è stato ormai chiarito dalla storiografia, delle ragioni storiche che hanno determinato quella scelta. Ma, a determinare il rivolgimento interiore dell’artista, è proprio l’incontro che – negli anni della guerra – avviene tra il grande musicista Ferruccio Busoni che eseguiva importanti concerti in tutte le capitali d’Europa e l’artista Umberto Boccioni.

Ferruccio Busoni ci narra, attraverso le sue lettere oramai pubblicate (Ferruccio Busoni, Lettere con il carteggio Busoni-Schönberg, Milano, Edizioni Unicopli-Ricordi, 1988. ed. inglese Londra, Faber & Faber 1987) inviate in tutto il mondo e da tutto il mondo a corrispondenti, artisti, amici ed anche, importantissime, alla moglie, tutto l’orrore dell’animo di un artista di fronte agli eventi devastanti in corso. Come egli afferma, non si tratta di una questione di estetica, ma di umanità. Che cosa pensava egli della guerra? Possiamo citare, per tutte, la lettera di Busoni del 1916, scritta tra l’altro ancora col dolore vivo per la morte del suo amico artista Boccioni. “Il mondo accetta tutto con troppa naturalezza, sia quel che è grande, sia quel che è spaventoso, sia quel che è insolito (e invece perde la testa per i peggiori luoghi comuni). Più delle azioni che la provocano, mi sorprende la docilità stupida con cui oggi la gente accetta supinamente ciò che in tempi andati riguardava solo coloro che erano inclini al “nobile” mestiere della guerra, o ne facevano la propria professione. Questa bella istituzione dell’arruolamento generale (mi si dice che la dobbiamo alla Svizzera) è un mirabile sistema per sottomettere l’individuo”. (Lettere, cit. pp. 342-343).

Sarebbe interessante confrontare le osservazioni di Ferruccio Busoni sulla ricezione di allora della guerra e della violenza, con le attuali riflessioni sulla modalità presente con cui ragioni e immagini di violenza guerresca vengono diffuse e accolte attraverso gli infiniti canali della comunicazione istantanea.

“Sistema per sottomettere l’individuo”, scriveva Ferruccio Busoni. E oggi, in questo convegno mondiale, abbiamo sentito Domenico Quirico ricordare come il nuovo totalitarismo diffuso e violento, promosso – nel caso dell’IS o ISIS – da una minoranza fanatica (e nascostamente supportato da Stati che approvano ogni forma di sottomissione dell’individuo) domina la maggioranza pacifista e la rende fanatica strumentalizzandola e completandone l’opera di sottomissione. Abbiamo sentito Zygmunt Bauman, proclamare non solo la necessità di un nuovo rapporto di solidarietà verso la massa pacifica maggioritaria degli uomini contemporanei, ma anche drammaticamente rilevare come gli uomini collegati fluidamente in rete nella pratica della comunicazione diffusa e globale trovino la possibilità di identificarsi e quindi riconoscere se stessi: e questo al costo di divenire vittime della strumentalizzazione e della sottomissione.

L’amicizia ed il lavoro con Busoni fu molto importante per Boccioni: Busoni ne era consapevole, tanto che il 19 settembre 1916, pochi giorni dopo la improvvisa morte dell’artista (il 17 agosto, a Verona, dove era stato richiamato), egli scrive: “Non riesco a superare il dolore per il caso Boccioni. A parte il fatto che gli volevo bene, era di nuovo, dopo un lungo intervallo, un pittore italiano di importanza storica. E diceva di essere soltanto agli inizi. – Basta –”.

E Boccioni, che aveva vissuto questo scambio con grande intensità, ne aveva scritto in lettere ad amici artisti del suo gruppo: “Sono ospite di questa villa – scrive Boccioni a Pratella, dalla villa di Busoni in San Remigio, il 16 giugno 1916 -. Lavoro molto e in molti sensi. Scrivevo a Marinetti che è terribile elaborare in sé un secolo di pittura. Tanto più quando si vedono i nuovi arrivati al futurismo afferrare le idee, inforcarle e correre a rotta di collo storpiandole…” (M. Drudi Gambillo – T. Fiore, Archivi del Futurismo. Roma, 1958, vol. I, p. 372). Ferruccio Busoni aveva scritto a Boccioni da Zurigo, l’8 luglio 1916: “Sono felicissimo della tua contentezza e maggiormente di averne qualche parte (…). Per entrare nell’arte, bisogna uscirne (tu diresti)…” (ivi, p. 372-373). E dopo pochi giorni, il 26 luglio, Busoni scrive a Boccioni allarmato, perché l’artista è stato richiamato al fronte a Verona: “La tua lettera, tanto buona, mi ha sorpreso… per la inaspettata decisione che da essa apprendo! Stimo e rispetto le tue opinioni senza troppo comprenderle e deploro anzitutto l’interruzione forzata del tuo lavoro, già iniziata con bell’impeto a San Remigio. Sii intanto contento dell’esito di quel soggiorno, fecondo di progressi, di nuove visioni e di innegabili risultati artistici” (ibidem). Boccioni, nelle ultime righe della lettera scritta pochi giorni prima della morte al suo gallerista Walden, a Berlino, appare disperato: “Da questa esistenza io uscirò con un disprezzo per tutto ciò che non è arte. Non c’è nulla di più terribile dell’arte. Tutto ciò che vedo attualmente è un gioco di fronte ad una pennellata bendata, un verso armonioso, ad un accordo musicale ben composto. Tutto a confronto di ciò è una questione di meccanica, di abitudine, di pazienza, di memorie. Esiste solo l’arte…“ (ibidem).

L’uomo che Ferruccio Busoni vedeva come oggetto d’uso da parte dei poteri che lo portavano alla guerra, incasellandolo, è l’uomo che è al centro delle scritture filmiche, poetiche, letterarie e artistiche, a partire dalla fine della prima guerra mondiale. A questa condizione, nel primo ventennio del Novecento, gli artisti sia futuristi, sia cubisti, sia tutti gli altri, si erano opposti fuggendo dalla stessa guerra: ad esempio i Dada che erano non interventisti, si fanno disertori e vanno a Zurigo e usano una ironia dissacrante che mette in discussione tutte le forme, anche più rivoluzionarie dell’arte stessa, portando fuori dal gioco finanziario dell’arte, quell’arte stessa, dissolvendola. Anche la costruzione dei linguaggi rivoluzionari, come abbiamo detto all’inizio, avviene grazie allo spasmodico movimento in tutta Europa, degli artisti provenienti da tutte le capitali. Parigi è luogo privilegiato dell’incontro e vi si ritrovano, come avviene nel prototipo di collettivo di artisti riuniti a La Ruche a Montparnasse, Wladimir Baranoff-Rossine e Sonia Delaunay, il ceco Joseph Csaky, Ossip Zadkine, Moise Kisling, Marc Chagall, Max Pechstein, Fernand Léger, Jaques Lipchiz, Max Jacob, Blaise Cendrars, Chaim Soutine, Robert Delaunay, Amedeo Modigliani, Constantin Brancusi, Diego Rivera e naturalmente Guillaume Apollinaire, il poeta teorico del cubismo e tra i primi sostenitori del cinema insieme a Ricciotto Canudo. Sonia Delaunay, che veniva dalla Russia, fugge durante la guerra da Parigi e si reca a Madrid dove crea un suo laboratorio che poi riprenderà col suo rientro nella capitale francese.

In questo clima internazionale, gli apporti dovuti alle esperienze individuali si modulano nel riconoscimento della diversità degli altri, e si condividono alcuni fondamenti comuni della creazione artistica, sommando la memoria delle rivoluzioni culturali precedenti, con le nuove scoperte della scienza.

Questo lavoro di pseudo – resistenza alla violenza della guerra (resistenza che è fondata sulla libertà e sulla relazione transnazionale degli artisti stessi: insomma, sul fatto stesso di fare arte), dopo la prima guerra mondiale è sotto scacco. Gli artisti continuano ad affermare le loro posizioni pacifiste e contrastano consapevolmente e chiaramente quei fatti dell’azione politica che hanno fondato l’ideologia della guerra: la produzione di armamenti, il colonialismo, il dominio dell’uomo sull’uomo, la radicalizzazione e strumentalizzazione delle religioni stesse. Ma questa oasi di consapevolezza e di resistenza dell’arte è un’oasi, appunto, e non vi si abbevera la massa, dunque oltre alle persecuzioni serpeggia nella cultura artistica un’inquietudine e un pessimismo insormontabile.

Si spiegano così le tante opere, balletti e film che hanno a tema l’uomo automatico, l’uomo meccanico e meccanizzato, anche nel gioco.

Così, tra le tante cose che sarebbe interessante ricordare, possiamo seguire un filo rosso: l’opera del poeta Blaise Cendrars che, dopo aver scritto il testo poetico letterario La prose du Transsibérienne et de la petite Jeanne de France, nella adolescenza, durante un viaggio da quindicenne nella Russia prerivoluzionaria durante la guerra russo-giapponese, approda a Parigi e lo pubblica insieme a Sonia Delaunay come poema simultaneo, nel 1913.

Come avviene in molti poeti, il viaggio e l’esperienza interiore si intrecciano con il viaggio e l’esperienza reale del mondo. Nella grande produzione di poemi e scritti di Blaise Cendrars, per il nostro tema è interessante ricordare La Fin du Monde filmée par l’Ange, un romanzo-sceneggiatura con 22 illustrazioni di Fernand Léger, l’artista cubista che integra nelle sue immagini lettere dell’alfabeto, numeri, slogan della pubblicità e citazioni, pezzi di frasi, per restituire l’idea della agitazione della grande città. Il testo della Fin du Monde è concepito da Cendrars come la sceneggiatura di un film: il grande poeta vi traccia con umorismo ironico, l’apocalisse del mondo moderno in 55 capitoletti, il primo dei quali inizia così: “Dieu le père est a son bureau américain. Il signe hativement d’innombrables papiers. Il est en brasse de chemise et a en abat-jour vert sur les yeux. Il se lève, allume un gros cigare, consulte sa montre, marche nerveusement dans son cabinet, va et vient en méchonnant son cigar ». Dio riunisce tutti i suoi capi Dipartimento, ovvero i capi di tutte le religioni del mondo: dal Papa al Gran Rabbino, dal Dalai Lama a Rasputin. Il suo bilancio è soddisfacente. La guerra ha riportato alla religione molte anime. Ma il compito è infinito. Per perseguirlo e fare profitti, colpisce il mondo con disgrazie e piaghe. Il mondo si ritrova spopolato e dominato dalla vegetazione, e Dio riconosce la sua sconfitta. È così che un uomo moderno, il poeta Blaise Cendrars, che aveva visto molte cose, che aveva descritto quello che lui chiama l’Homme nouveaux, appena uscito dalla guerra nella quale aveva perso un braccio, immagina la fine del mondo: come attraverso le lenti di una macchina da presa.

Da questa collaborazione con Cendrars, il poeta che per tutta la vita raccontò di se stesso la verità, come in J’ai tué del 1946, Léger imparò molto: pessimismo paradossale che si tradusse nel ’24 nel suo film Ballet méchanique.

Blaise Cendrars, per un anno prima della pubblicazione de La fin du monde, in tutto il 1918 aveva avviato una collaborazione con altri autori e poeti, tra cui Jean Cocteau e Guillaume Apollinaire, per farne il film secondo la sua idea originaria.

Guillaume Apollinaire muore proprio nel 1918, a novembre, e poco dopo in quello stesso anno viene pubblicata la raccolta di suoi testi poetici Poèmes de la paix et de la guerre tra cui i Calligrammes e molti testi realizzati con la scrittura automatica.

Il pessimismo e l’ironia grottesca evocano l’uomo automatico, l’uomo sottoposto che Busoni dichiarava essere il ricercato risultato della guerra e della mobilitazione.

Dall’alto:

Pennacchio Argentato, You Will Never Be Safe, installazione, 2013, foto César Meneghetti.

Still dal film J’Accuse, 166’, 25 aprile 1919, Francia, regia, soggetto e sceneggiatura di Abel Gance, assistente alla regia Blaise Cendrars..

Still dal film J’Accuse, 166’, 25 aprile 1919, Francia, regia, soggetto e sceneggiatura di Abel Gance, assistente alla regia Blaise Cendrars,

Umberto Boccioni, Ritratto del maestro Busoni, 1916, olio su tela, cm 176 x 121, GNAM, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma. Boccioni, in crisi, cambia il suo codice d’avanguardia, tornando alla fonte della modernità, Paul Cézanne, combinandola con le dissonanze cromatiche espressioniste.

Blaise Cendrars, La fin du monde filmée par l’Ange N-D. Composition en culeurs par Fernand Léger, Editions de la Sirène, Parigi, ottobre 1919. È la prima apertura di pagina del libro, concepito come il copione di un film suddiviso in 55 capitoli/sequenze. Fernand Léger, pur condividendo con Cendrars il dramma della guerra e della violenza, continua ad usare il linguaggio scompositivo cubista che ancora una volta appare adeguato alla condizione di crisi e di frammentazione dell’uomo dopo il conflitto mondiale e le violenze subite.

Blaise Cendrars, La fin du monde filmée par l’Ange N-D. Composition en culeurs par Fernand Léger, Editions de la Sirène, Parigi, ottobre 1919.

Umberto Boccioni, Sotto la pergola a Napoli, olio e collage su tela, cm 83×83, Milano, Museo del Novecento, 1914. Boccioni è nella avanguardia, appena un anno e mezzo prima della crisi dovuta alla guerra che pure aveva accettato e che rigetta nel 1916, grazie anche ai lunghi colloqui col musicista e suo committente Ferruccio Busoni.