(1) H. Flint, Essay: Concept Art (1961), in An Anthology of Chance Operations. Indeterminacy, Improvisation, Concept Art, Anti-Art, Meaningless Work, Natural Disasters, Stories, Diagrams, Music, Dance, Constructions, Compositions, Mathematics, Plans of Action, a cura di La Monte Young e Jackson MacLow, New York, 1963; S. LeWitt, Paragraphs on Conceptual Art, in «Artforum», New York, giugno 1967; L. Lippard, J. Chandler, The Dematerialization of Art, in «Art International», febbraio 1968.
(2) R. Barthes, La mort de l’auteur (1968), tr. it. La morte dell’autore, in Il brusio della lingua, Einaudi, Torino, 1988.
(3) J. Kosuth, L’arte dopo la filosofia, in «Studio International», London, 1969.
(4) L. Lippard, Six Years: The Dematerialization of Art Object, Praeger Publisher, New York, 1973.
(5) A. Boetti cit. in A. Boatto, Alighiero & Boetti, cat. della mostra Loggetta Lombardesca, Ravenna, ed. Essegi, Ravenna, 1984, p. 24.
(6) T. Godfrey, Conceptual Art, Phaidon, London, 1998, p. 134.
(7) H.Foster, R.Krauss, Y. Bois, B. Buchloh, Art Since 1900: Modernism, Antimodernism, Postmodernism (2004), ed. it. Zanichelli, Bologna, 2006, pp. 509-514.
(8) P. Gilardi, Microemotive Art, in «Flash Art», gennaio 1968.
Una prima precisazione va fatta a proposito di tali diciture, che rispecchiano solo in minima parte i lavori e gli artisti raccolti ora sotto l’una, ora sotto l’altra etichetta; parlare infatti di Arte Processuale, Arte Concettuale o Arte Povera non vuol dire far riferimento ad un “movimento” artistico, quanto ad una serie di fenomeni che si è cercato di ricondurre ad un’unica definizione. Tali “etichette”, coniate in occasione di articoli o esposizioni, fanno riferimento per lo più a procedure artistiche e non a movimenti veri e propri.
Una prima descrizione della Conceptual Art ci è fornita dall’artista e musicista Fluxus Henry Flint, in un saggio del 1961 cui segue, nel 1967, la pubblicazione dei Paragraphs on Conceptual Art di Sol LeWitt. Del 1968 è invece l’articolo firmato da Lucy Lippard e John Chandler, che pone l’accento sulla smaterializzazione dell’opera, dunque sul primato dell’idea rispetto alla realizzazione (1). Si consolida l’idea della mort de l’auteur come annunciata da Roland Barthes, già avviata dalla Minimal Art: l’artista è solo uno scriptor e il ruolo di “portatore di passioni, umori, sentimenti” è affidato unicamente al lettore (2).
L’analogia, proposta da Joseph Kosuth nei suoi scritti teorici, tra l’opera d’arte e le proposizioni linguistiche, si inserisce in un contesto di rinnovato interesse per la logica e per la filosofia del linguaggio; l’opera d’arte è dunque una tautologia in quanto “è una presentazione dell’intenzione dell’artista”(3). L’autoreferenzialità kosuthiana attinge pienamente ai principi del Positivismo logico, insistendo sulla coerenza interna del sistema linguistico e dunque sfociando in una posizione
anti-intuizionistica, svincolata dal dato dell’esperienza. È evidente a questo punto come un’indagine così rigorosa sulle strutture a-priori, con l’arte che definisce l’arte, sia lontana da un tipo di arte engagé: è lo stesso LeWitt a parlare di un artista “a-sociale, non pro-sociale né anti-sociale”. Come si può notare, gran parte del dibattito critico inerente la Conceptual Art viene dunque portato avanti proprio dagli artisti sulle grandi riviste di settore (Art International, Studio International, The Fox, Art & Language).
L’esperienza dell’Arte Povera italiana occupa pressappoco lo stesso arco di tempo che la Lippard identifica per l’arte concettuale, ovvero i sei anni dal 1966 al 1972 (4). È dunque particolarmente interessante evidenziare i punti di contatto tra gli artisti concettuali americani e i ‘poveristi’ italiani, alla ricerca di analogie e differenze.
Sotto l’etichetta di Arte Povera, coniata nel 1967 dal critico Germano Celant e mutuata dal ‘teatro povero’ di Jerzy Grotowski, ritroviamo autori molto diversi tra loro, caratterizzati tanto da inclinazioni processuali che concettuali. Come sosterrà in seguito Alighiero Boetti: «purtroppo certi momenti dell’arte povera erano proprio cose da droghiere…come in drogheria, dove si trovano tante cose» (5). A sancire il fenomeno poverista sono le mostre realizzate alla Galleria La Bertesca di Genova (settembre-ottobre 1967) e alla Galleria De’ Foscherari di Bologna (febbraio-marzo 1968), seguite dalla manifestazione Arte Povera + Azioni Povere, tenutasi ad Amalfi nell’ottobre del 1968. In quanto teorico del movimento, si deve a Germano Celant la cura critica di questi eventi, cui si accompagna la pubblicazione di testi, articoli e monografie dei singoli artisti.
La prima differenza che possiamo riscontrare con il panorama americano è l’assenza di artisti calati nel ruolo di critici e/o curatori. Fatta eccezione per Piero Gilardi, autore di un testo di notevole interesse (Microemotive Art, 1968), gli artisti italiani non si preoccupano di fornire descrizioni e definizioni della scena culturale in cui sono immersi, lasciando il campo ai critici di professione.
Altro elemento di distacco rispetto alla Conceptual Art americana è l’evidente connotazione politica e sociale che l’Arte Povera assume, caldeggiata essenzialmente dallo stesso Celant (emblematico è il sottotitolo dell’articolo del 1967, Appunti per una guerriglia) e accolta da molti degli artisti coinvolti.
Mentre gli scritti di Kosuth insistono su un approccio aprioristico e dunque autoreferenziale dell’arte, gli artisti italiani, al contrario, integrano il contesto politico e sociale nel loro fare artistico, rifiutando la freddezza logica del concettualismo puro e manifestando interesse per le relazioni che il soggetto istaura con il mondo circostante.
È chiaro quindi come la filosofia del linguaggio e la logica lascino spazio ad una filosofia del vivere quotidiano che fa perno sull’individuo, evidenziando il passaggio da una concezione analitica dell’arte a una concezione sintetica della stessa. Facendo riferimento allo stesso saggio di Roland Barthes del 1968, potremmo dire che gli artisti italiani restano più autori rispetto agli scrittori americani. Tony Godfrey fa notare come in Europa l’artista non finga di essere morto, né punti alla smaterializzazione dell’oggetto artistico (6). Ovviamente tali considerazioni fanno riferimento ad una visione d’insieme del fenomeno dell’Arte Povera; all’interno del movimento vi è chi enfatizza tale apporto autoriale e chi invece, come Alighiero Boetti, ricorrerà alla delega a terzi, emblema di una separazione tra i due concetti di idea ed esecuzione.
Politicizzazione e attenzione all’individualità sono dunque i due elementi che rendono l’Arte Povera un’arte concettuale ‘impura’, come rileva ancora Godfrey. Nell’ambito della critica americana, l’interesse italiano per le forme antropomorfe viene classificato come atteggiamento “anti-modernista e anti-tecnologico”, giustificato come attaccamento ad un’economia rurale e come rifiuto di una cultura di consumo avanzata (7). Se è vero che l’attenzione a forme e materiali naturali può essere considerata una costante all’interno del gruppo, d’altra parte la ‘povertà’ dei materiali non va intesa come recupero assoluto dei valori artigianali, piuttosto come ricerca di un rapporto diretto con l’universo circostante, ovvero come pratica artistica tesa a valorizzare il dato sensibile, l’esperienza hic et nunc, l’immediatezza percettiva. Anche quando gli artisti italiani si addentrano nel campo della linguaggio e della logica, la componente autoriale riveste sempre un ruolo importante. A questo proposito, è interessante proporre due esempi di confronto, cui fa riferimento Tony Godfrey: il primo è tra Giulio Paolini e Joseph Kosuth, entrambi autori della presentazione grafica di una definizione. La serie di Kosuth cui si fa riferimento è Art as Idea as Idea (1966), caratterizzata dalle copie fotostatiche di definizioni estrapolate dal dizionario. L’opera di Paolini porta invece il titolo di The Encyclopaedia Britannica (1971) ed è la definizione inglese della parola ‘infinito’. L’analogia ‘formale’ (presentazione visiva e linguistica di un concetto astratto) non si traduce in analogia procedurale; mentre infatti Kosuth utilizza la fotocopia, Paolini si rivolge alla litografia, tecnica tradizionale che richiede un apporto diretto da parte dell’artista per la prima realizzazione.
Secondo confronto è quello tra gli Statements di Jannis Kounellis, pubblicati in catalogo in occasione della mostra alla Galleria dell’Attico di Roma, e gli Statements di Lawrence Weiner pubblicati da Siegelaub nel 1968. Godfrey fa notare come all’impersonalità dell’artista americano corrisponda la forza del pronome personale in Kounellis, il quale si mette in gioco in prima persona.
Evidenziate così le differenze tra la Conceptual Art ‘pura’ americana e l’Arte Povera ‘impura’ italiana, è utile ricordare le reali occasioni di confronto tra le due tendenze, riconducibili essenzialmente alle grandi esposizioni tra il 1968 e il 1972, ‘chiuse’ tra le due Documenta di Kassel (IV e V).
Una delle prime esposizioni a mettere a confronto la realtà americana con quella europea è Nine at Castelli (New York, Galleria Leo Castelli, 1968) che, accanto ai protagonisti statunitensi, vede la presenza di Gilberto Zorio e Giovanni Anselmo. Il ruolo di Castelli in quanto gallerista di riferimento per l’avanguardia newyorkese è incarnato in Italia da Christian Stein, la cui galleria torinese ospiterà molte mostre personali dei protagonisti dell’Arte Povera.
In realtà, prima ancora della mostra da Castelli, la vicinanza ‘critica’ tra l’area americana e quella italiana era stata oggetto dell’articolo di Piero Gilardi apparso in «Flash Art» sul principio del 1968 (8). L’autore-artista parla delle prime manifestazioni di arte microemotiva come di un’esperienza artistica autonoma e diffusa; Gilardi rileva dunque una continuità tra le realizzazioni italiane e quelle d’Oltreoceano, frutto del comune approccio alla sensibilità e sensualità delle forme.
Tale corrispondenza emerge in modo evidente nelle grandi esposizioni del 1969: Op Losse Schroeven. Situaties en cryptostructuren (Amsterdam, Stedelijk Museum; a cura di A. L. Beeren), Live in your head: When Attitudes Become Form (Berna, Kunsthalle; a cura di H. Szeemann) e Konzeption/Conception (Leverkusen, Städtisches Museum; a cura di K. Fischer). Lo stesso Germano Celant si impegna a mettere in comunicazione artisti italiani e americani; nello stesso anno infatti, il critico promuove la realizzazione di un libro, Arte Povera, Earth Works, Impossible Art, Actual Art, Conceptual Art, nel quale trentasei artisti vengono chiamati ad usare liberamente le cinque/sei pagine a loro completa disposizione.
L’anno successivo, ancora Celant si fa promotore di un evento di particolare importanza; si tratta della mostra Conceptual Art, Land Art, Arte Povera, tenutasi a Torino presso la Galleria Civica d’Arte Moderna (1970). Oltre al contatto diretto tra gli artisti, si offre l’occasione di un confronto critico; co-curatore è infatti Lucy Lippard, uno dei critici di riferimento per tutte le espressioni Post-minimal.
Il confronto tra Arte Povera, rigorismo concettuale e gigantismo della Land Art contribuisce a mostrare come la ricerca italiana si muova su un proprio binario, raccogliendo gli stimoli esterni ma traducendoli in un linguaggio assolutamente originale. L’apparato teorico, critico e filosofico che sostiene la Conceptual Art non è qui presente; a questo viene preferita la strada della sensibilità percettiva immediata e di un contatto discreto con la natura.
È però significativo sottolineare che, al di là di differenze e analogie tra il contesto italiano e quello americano, la scena internazionale sul finire degli anni Sessanta si mostra variegata, ma comunque unitaria. Conceptual Art, Process Art, Arte Povera si rivelano forme diverse di un atteggiamento culturale condiviso, caratterizzato da una profonda riflessione sul fare artistico e sulla sperimentazione di tecniche nuove e linguaggi inediti.
La portata rivoluzionaria di tale atteggiamento era destinata a costituire una base comune per le nuove generazioni, cresciute sia nel Vecchio che nel Nuovo Continente, cui si offriva la possibilità di conoscere in toto tutte le più importanti innovazioni in campo artistico avvenute nel corso di un decennio ricco e caratterizzato dalla più febbrile sperimentazione in ogni campo.





Dall’alto:
Alighiero Boetti, Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969, 1969.
Bruce Nauman, The True Artist helps the World by Revealing Mystic Truths, 1967.
Giuseppe Penone, Continuerà a crescere tranne che in quel punto, 1968.
Joseph Kosuth, One and three, 1965.
Mario Merz, Igloo di Giap, 1968.
Joseph Kosuth, Water – Art as Idea as Idea, 1965.