Lucrezia Cippitelli: Vorrei innanzitutto che ci parlassi di Autobiografia, il lavoro che hai presentato alla biennale e che è esposto al Palacio de Bellas Artes.
Tania Bruguera: Autobiografia, come anche i lavori che ho realizzato negli anni precedenti, è fortemente caratterizzata da un interesse politico: analizza il potere e le sue modalità di manifestarsi all’interno della società. Dimostro che la strategia del potere si è inserita nell’ambito sensoriale, sensuale ed emotivo della nostra vita quotidiana. Metto in evidenza come la strategia politica si è mano a mano impadronita delle modalità comunicative che sono proprie della pubblicità: cosa che, devo dire, succede ormai in tutto il mondo, non solo a Cuba.
Il titolo che ho scelto è volutamente ironico e cinico perché ci si potrebbe immaginare un lavoro incentrato su questioni emozionali personali. Invece non c’è nulla che ricorda la sfera del personale: quando l’osservatore entra nella sala dell’installazione si trova davanti a una parete bianca e vuota ed è immerso nel suono di due enormi altoparlanti che diffondono a ritmo battente gli slogan della rivoluzione. Per me la biografia personale di ciascun cubano è strettamente connessa con la biografia culturale e storica di questo Paese. Non esiste niente di puramente personale: tutto si mescola.
Proseguendo il suo percorso, lo spettatore vede un palco vuoto ed un microfono nel suo centro: salito, sarebbe tentato di parlare in questo microfono, ma non appena poggia un piede sul palco si accorge che le pulsazioni degli slogan diffusi dagli altoparlanti si impadroniscono del suo corpo perché pulsano attraverso le tavole di legno del pavimento. L’osservatore si trova fisicamente coinvolto da questo fiume di parole, ne sente le vibrazioni, si accorge che diventano parte di lui. Vorrei far capire quanto la situazione che stiamo vivendo in questi anni Cuba sia complessa: non è tutto bianco o nero, non si può affermare con certezza cosa sia il bene e cosa sia il male. Viviamo un periodo di forti sentimenti contrastanti e di emotività legati alla rivoluzione ed alla vita politica del Paese.

L.C.: Intendi dire che volenti o nolenti voi cubani vi sentite comunque coinvolti?
T.B.: Si, ma anche che qui le cose non coincidono con la loro apparenza. Nell’installazione, se lo spettatore decide di parlare nel microfono, si accorge che la sua voce non è amplificata da nessuna parte, ma continua a sentire solo quegli slogan che rimbombano.
Superficialmente tutti in questo Paese sono coinvolti dalla vita politica; si crede nella possibilità di partecipazione. Di fatto nessuno ha voce in capitolo all’interno di questa struttura sociale.

L.C.: È un lavoro molto complesso quindi. Fatto che stride con l’apparenza assolutamente “pop” dell’installazione. Gli slogan che sono diffusi dai due amplificatori sono accompagnati da una base techno battente, sono ripetuti e remixati.
T.B.: Si, è frutto di una collaborazione con un gruppo di giovani artisti che lavorano con le nuove tecnologie e che mi hanno aiutata. Insieme ci chiamiamo Las Chancletas vanguardistas (“Le ciabbattine avanguardiste”, n.d.r.)…

L.C.: L’installazione potrebbe essere percepita come un momento ludico. Mi ha fatto pensare anche a una presa in giro del sistema di appropriazione culturale operato sistematicamente dai media commerciali, che riescono a inglobare tutto, anche i fenomeni culturali periferici o “di margine”, e una volta digeriti e normalizzati li rimettono in circolazione patinati e ormai inoffensivi…                                                                                                                                                                                                        T.B.: In effetti ho progettato tre versioni per questo lavoro. Quella per la biennale, una per il PS1 di New York, maggiormente incentrata sulla visione che i Paesi stranieri hanno di Cuba, esageratamente romantica o esageratamente drammatica, ed una techno, pensata proprio per ballare. Se la storia si presenta la prima volta come un dramma, le volte successive prende l’aspetto di una farsa, di un evento scherzoso. Se la politica si presenta come qualcosa di ostile, bisogna imparare a prenderla come una presa in giro, vederne il lato surreale, accettarla come una pachanga (letteralmente “festicciola”, è un termine propriamente cubano derivato dal nome di una danza tipica di origine africana n.d.r.).

L.C. Direi che quest’attitudine fa pienamente parte del vostro spirito.                                                                                                           T.B.: E nello stesso tempo fa capire come le giovani generazioni percepiscono queste cose: meno drammaticamente, con uno spirito intenso ma più leggero.

L.C.: Qual’è il tuo rapporto con Cuba? Come vivi il tuo operare all’interno di questa società?
T.B.: Cuba è il mio Paese, dove sono nata, cresciuta e mi sono formata. Ho tutti gli elementi per capirne a fondo la realtà sociale e per coinvolgerla nel mio lavoro. Non mi succede la stessa cosa negli altri Paesi, dove pure ho lavorato, e mi e’ piaciuto, e dove però ho realizzato dei lavori molto meno complessi. Lavoro bene qui e fino ad ora non è mai successo nulla che me lo abbia impedito. Quello che temo è il mio rapporto con l’esterno. Ora che sono entrata nel giro internazionale dell’arte e che ho superato quella che molti potrebbero definire una tappa importante, ho il terrore di essere osservata dall’esterno come un fenomeno esotico. Il pericolo di essere considerata parte di una realtà locale e per questo diversa ed interessante solo in virtù della mia esoticità è sempre presente…
Credo che per sfuggire a questo meccanismo l’artista dovrebbe cercare di fare la sua ricerca focalizzandosi sul punto di vista umano. In questo modo è più difficile diventare un fenomeno esotico.

L.C.: Mi puoi parlare dell’ingerenza della censura, se esiste, nel lavoro degli artisti cubani?
T.B.: Certamente qui esiste la censura. E le sue pratiche sono diventate sempre più sofisticate e sottili. Un aspetto costitutivo della cultura cubana è la metaforizzazione della realtà, la volontà di trasporre eventi e cose in un momento esemplare. Nel bene e nel male. Qui le vecchie prigioni vengono trasformate in ospedali pubblici per il popolo, o in scuole pubbliche per educare i bambini. Sono gesti compiuti proprio perché siamo perfettamente padroni dei meccanismi di trascendenza politica della metafora. Noi artisti siamo coscienti ed abituati a questo meccanismo, sin dagli anni Ottanta. Per questo il mio lavoro, come quello di molti altri della mia generazione, è perennemente incentrato sulla pratica della metafora e sul suo rapporto con la censura: io lavoro con la metafora ed affronto temi politici ma cerco di confondere le acque cosi’ come la censura cerca di cambiare i miei contenuti. Fino ad alcuni anni fa, non ti permettevano di fare le cose. Ora la situazione cambiata: si può fare tutto ma i tuoi contenuti vengono riletti e raccontati in modo diverso: la carica politica dell’opera è trasfigurata. La metafora rilegge e trasforma il significato delle tue azioni. È un metodo intelligente, ma anche un’arma a doppio taglio. In questo modo il significato del tuo lavoro può essere capito, ma solo fino a un certo punto.

L.C.: È una linea molto sottile in effetti. E spiega anche perfettamente come mai l’attitudine dei giovani artisti dell’Avana è interamente orientata alle performance, alle azioni, alla mescolanza ed allo sconfinamento di modalità espressive e linguaggi.
T.B.: È un modo per aggirare il controllo. Credo poi che gli artisti debbano essere naturalmente sovversivi. Sempre. Nella forma e nei contenuti.

L.C.: Qual è il panorama artistico cubano di oggi?
T.B.: Credo che stiamo vivendo un periodo molto vivo e interessante. La mia generazione, che è cresciuta e si è formata negli anni Novanta (il periodo especial, un periodo di crisi economica e sociale devastante per il Paese, immediatamente successivo al declino dell’Unione Sovietica e di conseguenza alla fine del suo sostegno economico all’isola, e contemporaneo all’inizio del bloqueo che ha costretto Cuba a una chiusura forzata, politica ed economica. n.d.r.) è uscita ora da un periodo di crisi e sta assistendo alla vivacità di molti gruppi di giovani che lavorano con modalità assolutamente differenti. Ad esempio il gruppo Omni, che lavora nelle strade e porta avanti un progetto basato sull’aggregazione comunitaria, sulla comunicazione e sulla trasgressione delle imposizioni e del senso comune.

L.C.: Hai parlato di gruppi. Ti è mai capitato di lavorare in maniera collettiva?                                                                                     T.B.: Sì, mi è successo all’estero e anche qui a Cuba. I progetti collettivi fanno parte del Dna di noi cubani: a partire dalla rivoluzione stessa, che è nata come progetto collettivo (Con todos y para el bien de todos con tutti e per il bene di tutti). Siamo abituati a sentirci un noi piuttosto che un io.
Ultimamente, dal gennaio 2003, ho realizzato un progetto con l’Instituto Superior de Arte (Isa, una scuola di alti studi successiva all’Accademia di Belle arti, nata nel 1961, subito dopo la rivoluzione, per formare artisti e critici di tutti i campi espressivi). È stato creato uno spazio aperto ed orizzontale in cui artisti di tutte le discipline si sono incontrati ed hanno lavorato insieme. Abbiamo lavorato con il suono, il nostro corpo, il cinema, la poesia. Questi laboratori sono stati ospitati anche negli studi e nelle case di diversi artisti dell’Avana. È stata un’esperienza assolutamente anti accademica e realmente formativa per tutti i partecipanti.
Noi cubani, che viviamo in un’isola, sentiamo in maniera molto forte la necessità di aprirci, anche al mondo esterno. Voi europei siete abituati all’idea di potervi spostare, persino a piedi, di Paese in Paese. La condizione di insularità ci pone dei limiti che sono accresciuti dalla difficoltà di comunicare e di ricevere informazioni dall’esterno; per questo abbiamo questa enorme necessità uscire da noi stessi (anche dalla condizione individuale) per aprirci al mondo. Da sempre siamo un Paese del Terzo mondo che ragiona come un Paese del Primo mondo. Da sempre siamo un Paese di transito, la porta dell’America Latina verso l’Europa o l’America settentrionale e viceversa. Un filtro attraverso cui veicolano tra il nord ed il sud e informazioni e novità di tutti i tipi. Noi stiamo qui intenti a sapere, conoscere ed assorbire tutti gli imput che provengono dall’esterno.

L.C.: Ed è forse per questo che fate tanta paura agli Stati Uniti?
T.B.: Credo soprattutto che la paura degli abitanti dell’America del Nord (sic) sia dovuta a questo: si sono accorti che non vogliamo far parte del loro mondo e del loro modello culturale. Tutti nel mondo vogliono possedere una t-shirt prodotta negli Usa o bere la Coca Cola. Come entità collettiva noi cubani preferiamo seguire un altro modello culturale che è diverso, e si basa su un altro progetto di vita politica, sociale ed individuale.

 

Tania Bruguera
di Lucrezia Cippitelli

Tania Bruguera, classe 1968, è una giovane artista cubana molto nota all’estero, attiva anche negli Stati Uniti e presente nel circuito dell’arte contemporanea internazionale già da qualche anno grazie anche consenso suscitato con Ingegnere dell’anima, l’installazione esposta alla VII Biennale internazionale d’arte contemporanea dell’Avana nel 2000 (si veda a questo proposito la descrizione di Simonetta Lux in Tania Bruguera in Italia: corpo e poterewww.luxflux.net/n5/recensioni4.htm.
A quasi dieci anni dall’inizio della sua attività artistica, che mette in relazione disinvoltamente tradizione, nuovi linguaggi, scultura, performance, il corpo stesso dell’artista come mezzo di indagine sociale, Tania ha già alle spalle la partecipazione alla Documenta XI (Kassel, Germania), le Biennali di Venezia, Johannesburg, San Paolo, Istanbul e L’Avana. Ha esposto nei maggiori musei di arte contemporanea del mondo e nel 2000 ha ricevuto il premio della Fondazione Prince Claus di Amsterdam.
Fino al gennaio 2004, la galleria Franco Soffiantini di Torino ha ospitato Esercizi di Resistenza: la personale (quasi antologica) di Tania Bruguera che rappresenta un bilancio della sua attività decennale, curata da Roberto Pinto che ne ha curato anche una monografia.
La sua seconda personale sarà inaugurata il 6 febbraio alla Rhona Hoffman Gallery di Chicago.
http://www.taniabruguera.com 

 

Autobiografia
di Lucrezia Cippitelli

Autobiografia è presentata in occasione dell’VIII Biennale dell’Avana al Palacio de Bellas Artes in una sala speciale interamente dedicata a quest’installazione performativa di Tania Bruguera.

Due casse mandano a loop una musica techno cadenzata dagli slogan della rivoluzione cubana. In mezzo alla sala un palco vuoto con un microfono. Chi sale sul palco per avvicinarsi al microfono con l’idea di dire la sua viene però travolto da un fatto inaspettato: il palco stesso diventa la cassa di risonanza degli slogan rivoluzionari, che pulsando attraverso le tavole di legno si amplifica in tutto il corpo, scuotono le membra dell’ignaro spettatore. Impossibile quindi parlare in questo spazio risonante di slogan politici, voci provenienti dalla storia del Paese passata e presente, che in quest’ottica vengono svuotati del loro significato vero per raccontarci come nella Cuba di oggi la politica sia un meccanismo non partecipativo ma nello stesso tempo presente a livello viscerale nella biografia personale di qualsiasi cubano.