L’arte di Laura Palmieri è il disegno di una persa centralità – forse sempre illusoriamente attribuita all’artista nell’arco della ormai conclusa epoca modernista. È obliquamente sperimentata e ubiquamente praticata nell’attraversamento di campi (campi disciplinari? campi da tennis?) e nell’esercizio critico della memoria culturale.

Certo l’arte può essere, solo, –ci dice Laura- la preda sfuggita all’uso cosmetico che ne fa il sistema attuale della cultura e della politica.

Che resta? Restano le spoglie di verità sull’uomo ed i frammenti di opere dell’uomo un tempo unitarie, funzionali e/o simboliche, perse anch’esse in noi, in quanto tali, per sempre.

La affermazione di tali perdite non è patetica. Il distacco dall’origine è totale. Ma una nuova origine si presenta: archetipica, nella vita di ogni giorno, nella vita.

La pratica del disegno, la fattura a tratteggio delle immagini, praticata non solo tradizionalmente su carta, ma su tela e su muro, è –ancora una volta da Laura Palmieri– scelta per appuntare e comunicarci le sue immagini mentali o la sua percezione interiore della vita attuale e dei suoi fantasmi. 

Si tratta di idoli della comunicazione condivisi dall’artista e da noi: sono innalzati attraverso il caldo della materia pittorica, china nera o a colori e grafite, alla dignità di arte, di un’arte che non ha più valore e che pur tuttavia anch’essa si ribadisce, fantasmaticamente, come i fantasmi che trasporta: pezzi morti di città, gusci, corpi vivi.

Roma o Morte su cornice marcapiano (Giuseppe Garibaldi), edificio Fiat (ormai abbandonato), Porta Maggiore tomba del fornaio, Stazione Termini, Nuraghe, Posta di Ostia, Posta di Adalberto Libera alla Piramide, Latrina di Ostia Antica. Ed inoltre Giraffe, Elefante, Orsa e Orsetto, Suricato, Animale Marino, Koala, Topo, Pidocchio, Rana, Ippopotamo.

La prima strategia di comunicazione possibile con chiunque le si accosti è fatta di materialità e di presenza. Si intreccia alla seconda: fatta dell’assenza, del vuoto. Il fondo non ha segni, non c’è storia né contesto. La terza e finale, ma in verità la prima sia nella creazione sia nella nostra percezione, è la associazione inconsulta di animali e oggetti architettonici. Avanzano dal fondo vuoto esseri animati, rampanti, dormienti, sonnecchianti, incombenti e fuori scala, attaccati come lumache su pezzi residui di architettura un tempo animata .

Il primo impatto è di un messaggio di alienazione mentale e di interruzione confusa del legame con la realtà: la solitudine dell’oggetto e della sua immagine.

Ma l’artista –se ci avviciniamo– ci rassicura: la grande Orsa madre tira su il suo piccolo sul tetto piano del blocco mazzoniano della Stazione Termini, all’ombra della cilindrica Torre d’acqua immortalata da tanti artisti postmoderni e che ci accompagna distrattamente la vista ogni volta che percorriamo le strade parallele e i sottopassi; l’ippopotamo se la dorme, sul grido che si dice Garibaldi il 18 agosto 1862 lanciò durante il suo soggiorno a Catania, la notte prima di partire per la sua spedizione di libertà e unità d’Italia; l’Orsa abbraccia le bocche di forno marmoree della tomba di Virginio Eurisace, davanti alla quale stridendo girano i tram verso le periferie, entrando e uscendo dalla Porta Maggiore delle mura aureliane; il Pidocchio gratta la cornice del tempio di Vesta; le Zebre gemellate a macchia di Rorschach si vantano del loro manto rigato sovrastando la chiesa romanica della S.Trinità di Saccargia del 1116; il Phascolarctos Cinereus o Koala ci guarda avvinghiato all’albero della bomba; la Giraffa adagiata sul pisciatoio di Ostia Antica armonizza il suo mantello con un pezzo di antico opus reticulatum (“perché possiamo dirci africani” chiosa Palmieri nella scheda d’archivio). Solo un interno di prigione italiana è vuoto di animati: pende al centro la corda di suicidi impiccati, ai lati quattro letti rauschenberghiani stanno appesi alle pareti della cella, che non ha spazio per la normale disposizione.

La persistenza di vita è una forma di drammatizzazione ironica e postmoderna: che non esclude rabbia ed ira.

La scultura Circe (il cui bozzetto recita: Maiali e campo da tennis in terracotta rossa e bianca) e la china del porcino, trasportano una sfilza di energie negative per eccellenza, abbinate al gioco -e quindi a una struttura- borghese per eccellenza: il tennis, intorno al cui campo i porcellini grufolano sbagliando il gioco (stanno pronti a giocare ai quattro cantoni ?). È il primo progetto di questa serie di animati/inanimati senza uomini ed è un rinvio archetipico al Cantus Circaeus di Giordano Bruno (1592). Nel frontespizio del Cantus è rappresentato appunto un porco (o cinghiale) come primo esempio di personalità porcina, una tra le tante attitudini dell’uomo mascherate dietro il corpo umano che Bruno identifica con i diversi animali. Tutte energie immateriali che si incorporano indifferentemente in una materia o in un’altra, e tra gli animati uomo o animale che sia.

C’è un elemento critico autobiografico (sia bruniano: la malvagità e ossessività dei contemporanei contro le sue teorie; sia dell’artista, contro certa invadenza materno/ideologica): la sua apparizione avviene per un automatismo archetipicamente fondato.

Ma in linea più generale l’opera attuale appare in Laura Palmieri come l’ultima, la più recente forma della sua tensione a comprendere lo stato delle cose, essere quotidiana come tutti, accettare l’automatismo dei gesti (umani/animali), intercettare il meccanismo –inceppato o no che sia- del gesto più comune.

Laura Palmieri è sempre una pittrice: l’intercettazione è avvenuta sempre attraverso una fattura dell’arte (pittura, disegno). Ma Laura è una concettuale, tale è il suo modo d’uso della pittura, come quando nelle Variazioni minime usa il getto d’inchiostro come stesura variabile di forme sistemiche e come quando presceglie il segno dell’arte più scarno e non simbolico, il tratteggio: è stato usato nella serie degli “svuotamenti”, dove ha violato il corpo morto dell’immagine riprodotta, ha innestato pezzi di pittura e di tratteggio dipinto su pezzi scelti a caso di immagini di porti, di skyline metropolitani, di istantanee di famiglia o di sequenze sportive di gruppo (Estetica dello sport).

Ha articolato il vuoto e lo ha esteso, fino a rendere organico al vuoto un dipingere e un disegnare non simbolico, astratto ma raffigurante, esaltando il contrasto tra la vita e i suoi gusci comunicativi. Laura Palmieri affermava insomma una via dell’arte esterna alle regole del sistema dell’arte come le si presentava nella sua prima giovinezza, alla fine degli anni ’80: l’era dello svanire di ruolo dell’artista e dell’arte.

Laura Palmieri ha osservato, vissuto e conosciuto tutto il velenoso percorso verso l’estesa superficializzazione che  attualmente si percepisce.

Al di là del lucido pessimismo dei suoi maestri ideali, tra i quali spicca il suo padre putativo Manfredo Tafuri, Laura Palmieri ha ripercorso nei diversi movimenti della sua opera da artista tutte le tappe di una fine annunciata.

Ma la carne, il corpo, l’uomo: che cosa gli è stato fatto,  dove è, che pensa?

https://www.youtube.com/watch?v=vVCo-bGDZbc

https://www.youtube.com/watch?v=CCXVHLux38U

 

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Dall’alto:

Laura Palmieri, Roma o morte, 2011, Indian ink on paper, 200×140 cm, photo by Giorgio Benni

Lapide dedicata a Giuseppe Garibaldi nel 1883 primo anniversario della morte da parte del popolo catanese. Come scrive Arrigo Petacco nel suo libro O Roma o Morte 1861-1870:la tormentata conquista dell’unità d’Italia( Le Scie, Mondadori, Milano, 2010), “Entrato trionfalmente a Catania, Garibaldi rifiutò cortesemente l’ospitalità offertagli da alcuni notabili preferendo pernottare nella sede della  “Società degli Operai”. Il giorno seguente si affacciò da un balcone per parlare alla folla enorme che lo aveva atteso tutta la notte. Il suo grido “O Roma o morte” fu accolto da urla di approvazione”. Nell’opera di Laura Palmieri, la famosa esclamazione di Garibaldi viene assunta come traccia in un universo frammentato della memoria contemporanea, nella mia stessa memoria. Nella mia ricerca, dovendomi rammemorare l’origine storica dell’evento e della frase, ho trovato che oltre a Catania, essa è inscritta in un cartiglio apposto nella base della grande statua a cavallo di Garibaldi sul Gianicolo a Roma, ed inoltre sulla fascia marmorea della cornice marcapiano del Mausoleo ossario garibaldino, sempre sul Gianicolo, inaugurato su progetto dell’architetto Giovanni Jacobucci nel 1941, che accoglie i resti dei caduti nelle battaglie per Roma Capitale dal 1849 al 1870. L’immagine della frase nella grande pittura a inchiostro su carta di Laura Palmieri (foto 2), è tratta da quest’ultimo monumento, ma in quanto traccia emotiva sradicata la artista avrebbe potuto trovarla su qualsiasi altro artefatto monumentale.

Laura Palmieri, Perché possiamo dirci africani, giraffe su latrina Ostia Antica, 2013, Indian ink on canvas, 85×65 cm, photo by Giorgio Benni