Piano piano dolce Carlotta! Riassumiamo, raccontiamo, misuriamoci, ormai da pari a pari (infatti i maggiori artisti cubani sono originali ma nello stesso tempo sinergici ed inseriti nel Sistema dell’arte, dove possono vendere la loro originalità ed la funzione socializing delle loro creazioni).

Si riflette e si racconta – come fa Nelson Herrera Ysla in questa X Habana Biennal (un curatore storico e tra i primi progettisti dell’AB) il veramente glorioso passato.
Dal 1984 (la I Habana Biennal), quando lo Stato sostenne la prima idea, di Lilian Llanes (la fondatrice) di mostrare al mondo l’azione creativa (e convenzionale ancora) delle isole Caraibiche e dell’America Latina, prima e poi via via dal 1986 (la II Habana Biennal), quando la Habana si apre all’Africa, al Medio Oriente e all’Asia: un’arte fino allora invisibile al Sistema dell’arte Dominante dell’Occidente Industriale avanzato ormai Global: il Terzo Mondo svelato al Primo mondo, con mezzi, metodi e conoscenze tutt’altro che accademici, introducendo la pratica curatoriale nella presa di contatto diretta con questi diversi contesti culturali, cui l’Occidente guarda con interesse a partire proprio da questo gesto di scelta dell’Equipe dell’Avana. Sarà contemporanea alla III Habana Biennal nel 1989 la Mostra (discutissima internazionalmente come sappiamo) Magiciens de la terre di Jean Hubert Martin a Parigi, il quale però sarà poi chiamato a Cuba, come tanti altri critici e curatori di punta dei sistemi occidentali c.d. sviluppati: certo “dominanti”.
Certo, la tematizzazione della III Biennale era allora L’arte Caraibica, ma era stato chiamato tra i grandi artisti affermati nel Panorama occidentale Julio le Parc (maestro del trend ambientale/optical/installazioni degli anni ‘70, argentino fondatore del GRAV Group de Recherche Art Visuel) poco più che quarantenne, che viveva Parigi: il suo Paese da 3 anni era sotto il golpe militare, la guerra sporca e i desparecidos.
La tensione tra forme artistiche popolari e pittura avanzata, espresse nel tema Tradizione e Contemporaneità, con una sezione centrale intitolataTres Mundos (Tre Mondi), e anche al tema emergente del Multiculturalismo.
È con la IV Habana Biennal (Coincidente con il V centenario della Scoperta) del 1991 che Colonizzazione e Decolonizzazione appaiono temi connessi ai rispettivi diversi contesti degli artisti: espressioni locali e linguaggi internazionali si misurano mentre si tiene il Comitato Internazionale dei Musei D’Arte Moderna: si aprono, oltre che spazi della città, gli spazi ex-militari coloniali della fortezza della Cabana e Castello del Morro: “I conflitti dell’essere umano che vive la periferia della modernità” – come scrive Nelson Herrera Ysla – sono incarnati nelle locations stesse. Il 1994, con la V Biennale, è il culmine della grande crisi economica cubana seguita alla fine dell’URSS suo partner economico per 30 anni, il Periodo speciale (Pedro Juan Gutierrez lo descrive con gran cinismo ne La Trilogia sporca dell’Avana): ma la Fondazione Ludwig inviterà la Biennale ad esporsi nel Forum di Aachen, al centro della Germania, la nazione europea che 6 anni prima aveva visto la caduta del muro di Berlino. Il carattere internazionalizzato (40 paesi tra cui per la prima volta Turchia, Iran e Corea del Sud) nelle tematiche messe in campo dal team curatoriale (L’ambiente fisico e sociale ed economico; Marginalità e rapporti di potere; Migrazioni e processi trans-culturali; Conflitti dell’uomo che abita la “periferia della postmodernità”; Appropriazioni e intrecci culturali) non rivelano solo un raggiunto appeal dell’evento cubano sul piano internazionale: e quanto sarebbe interessante confrontare il modo del dibattito nel mondo della cultura e dell’arte cubana con i modi del dibattito internazionale su quegli stessi temi, soprattutto là dove si è distaccati dai contesti socioculturali in gioco o quando il punto di vista cresce nei soggetti e nei paesi occidentali non “vittime” ma “carnefici” (almeno nel passato, magari non tanto lontano). Ma si vede come la Biennale – che opera in verità separata ed in apparente autonomia – abbia una specie disintonia schizofrenica col modo di regolarsi dello Stato cubano durante la crisi e sulla questione della memoria.

Come si arriva al riconoscimento della città dell’Habana come patrimonio dell’umanità? Il patrimonio della storia architettonica moderna anche contemporanea pre-rivoluzionaria, nonché dell’urbanismo, è al centro di questa proclamazione dell’importanza della Memoria. E diviene – grazie alla legge del Consiglio di Stato cubano n. 143 del 1993 (cioè due anni prima della V B) nel grande progetto di Restauro della città (allora nell’elenco del Patrimonio dell’Umanità Unesco) diretto da Eusebio Leal, una prima tappa ed occasione per una economia nuova.
Eusebio Leal Splenger, proprio nel giugno di quel 1995 sta scrivendo un saggio per la rivista ICOMOS dell’ Unesco – l’ho trovato su una bancarella del mercato dei libri usati in Plaza de Armas durante il mio primo viaggio a Cuba – ripubblicato in una sua raccolta dal titolo La luz sobra lo espero (1996, Ediciones Boloña, pp 79 sgg.). Non credo che allora ci fossero grandi comunicazioni tra i due mondi quello dell’arte contemporanea e quello del restauro urbano e della nuova economia della città: ma come dicevo, leggendo Eusebio Leal e vedendo il suo straordinario lavoro culturale e realizzativo, si vede con quanta lucidità proprio allora stesse perseguendo al vivo e dall’interno di una comunità vittima della storia la finalità di far riappropriare la comunità urbana con tutte le sue debolezze e povertà del presente patrimonio accettando e inglobando le tracce delle passate occupazioni. Posto che egli si dice consapevole del fatto che sempre si verifica una certa apatia e indifferenza dei settori più poveri della società di fronte a progetti monumentali “che appaiono espressioni di elitismo”; posto che in genere i quartieri antichi tendono ad essere abbandonati dai residenti ed occupati da artisti, professionisti o imprenditori, egli afferma il principio che i cittadini devono essere i protagonisti della valorizzazione e restauro della città: vede inoltre che la Habana si presenta “magica” e quasi “didactica” perché racconta – con li suo centro storico circondato dalla corona delle architetture moderniste degli ‘40 e ’50 – per un verso la storia del suo multiculturalismo e ibridazioni e per altro verso mantiene la sua magicità; perché con la rivoluzione del 1959 – scrive Eusebio Leal – fu bruscamente interrotto il processo di distruzione e speculazione del suo straordinario tessuto. La legge n. 143 da lui stesso proposta, egli racconta nel saggio, era chiara: manteneva una continuità con la Oficina del Historiador fondata nel 1938 e con la legge del 1977 Ley de Proteccion del Patrimonio Nacional (grazie alla quale l’UNESCO appoggia la creazione del CENCREM: Centro Nacional de Conservacion, Restauracion Y Museologia). Ma la legge soprattutto, nata nel periodo di grave crisi economica del paese – e quindi apparentemente inapplicabile – si abbina con una combinazione virtuosa alla creazione di imprese turistiche, le prime joint ventures, produttrici di profitto, e con la creazione dei laboratori e la formazione dei tecnici, operai restauratori specializzati, raccolti dalla popolazione stessa del settore urbano da restaurare e valorizzare. 
Tra gli analisti economico-politici a Cuba, il politologo economista Jose Bell Lara ha un ruolo importante. È Docente nel Programma Cuba del FLACSO: Facultad Latinoamericana de Ciencias Sociales (un sistema formativo ad ampio spettro in diverse sedi dell’America del Sud e Caribe, che ad esempio rincontriamo nella formazione degli artisti Juan Esteban Sandoval e Rosa Jijon autori del progetto AequatorLab che il MLAC della Sapienza porta alla Biennale de Habana 2009). 
Proprio nel 1994, Bell Lara è tra l’altro autore del libro La globalizaciòn capitalista y la perspectiva de la Rivolucion Cubana. Ne leggo una sintesi nel libretto edito nel 2004 a La Habana per le edizioni di Ciencias Sociales Cuba: una perspectiva socialista en la globalizaciòn capitalista. Bell Lara, che con i suoi studi sul globalismo e sul legame tra mutamento sociale e rivoluzione cubana aveva partecipato alla creazione della prospettiva dell’economia delle Joint Ventures, che vediamo anche nella prospettiva di azione di Eusebio Leal Splenger. Sarà interessante tornare su questa strategia cubana di dalla crisi determinata dalla caduta del muro di Berlino il 9 novembre 1989 e dall’improvviso esaurirsi della Guerra fredda e della politica dei Blocchi. Quella della ibridazione di economia socialista con economia capitalista: cioè creare delle imprese miste, per la produzione e divisone paritaria dei profitti da investire in imprese di sviluppo e formative, altrimenti impossibili a intraprendersi nella Cuba orfana dei supporti economici sovietici, è un interessante aspetto di una Terza Via, rispetto a quelle due indicate da André Glucksmann, ad esempio, intraprese lentamente da un Occidente impreparato a “una fondamentale rimessa in causa geo-politica del dopo-seconda guerra mondiale” (André Glucksmann, Dopo il Muro la battaglia continua. A Tbilisi, Kiev e Teheran, in “Corriere della Sera”, 13 settembre 2009): cioè una terza, oltre quelle praticate in Europa: da una parte “la Rivoluzione di velluto” in Cecoslovacchia e in Polonia (“con la installazione al potere di dissidenti anti-totalitari”); dall’altra, nell’ex URSS e nella Ex-Jugoslavia, il mantenimento dei vecchi metodi di coercizione, usando esercito e polizia o per le guerre civili e purificazioni etniche che devastano la Jugoslavia proprio in quel decennio (1991-1999) o per denunciare –come fa Putin dalla Russia – le “rivoluzioni permanenti” e i “pericolosi disordini”.
L’Uomo antitotalitario, la dissidenza antidogmatica sono pienamente all’opera, a petto della rivoluzione “mentale” provocata nell’ultimo decennio del Secolo Breve.
E fin da allora Eusebio Leal vede il pericolo della accusa di “lavorare per i turisti”: ma, egli risponde fin da allora: “Poiché nel realizzare questo progetto noi formiamo la consapevolezza e risvegliamo l’animo dei nostri concittadini – come vuole la legge cubana dello sviluppo sociale e comunitario –, allora potremo anche accogliere i turisti non come vampiri, ma come persone che vengono a riposarsi e a conoscere e scoprire questa parte del mondo”. Eusebio Leal e la sua Officina del Historiador non solo accolgono le eccellenze internazionali nel campo del restauro architettonico e della valorizzazione urbana, ma creano dei laboratori di formazione di giovani cubani, ai diversi livelli di apprendimento e messa in atto delle tecniche antiche o attuali e del restauro.
In parallelo dunque a questo grandioso progetto di rinascita economico-architettonico della città, c’è una schiera nuova dell’Arte Contemporanea.

Torniamo al 1997 alla VI Biennale.
È una schiera di artisti che proviene dall’ISA (Istituto Superior de Arte) eccellente crogiuolo della formazione nelle arti: vengono Tania Bruguera, René Francisco, Los Carpinteros, José A. Figueroa, Antonio Eligio Fernandez (Tonel). 
Da lontano, la artista Tania Bruguera ribadisce: noi non siamo “esotici” (vedi intervista di Lucrezia Cippitelli in Luxflux) ed inoltre realizza nel suo studio: El peso de la culpa, Tejadillo 214, Havana.
Ricordare e svelare ciò che non si vuole ricordare: assimilandosi – con la sua azione – ai nativi, che si suicidarono mangiando terra, nel momento in cui presero coscienza di non potersi salvare rispetto ai colonizzatori. Ha scritto Tania nella intervista a Cippitelli ricordando la creazione della sua rivista “Memorie del postguerra” e la censura subita: “Dopo la censura della rivista ho passato un brutto periodo. Da quel momento ho iniziato a lavorare sul concetto di colpa, sul senso di colpa e sulla sottomissione”.
Non solo Tania: Los Carpinteros (Alexandre Arrechea,Marco Castello e Dagoberto Rodríguez), che avevano invano tentato di aprire un art café nel loro studio, censurati, espongono l’opera Vecchi metodi per nuovi scopi (titolo forse più significativo dell’opera esposta a San Francesco dì Assisi); José Alberto Figueroa che con le sue foto denuda “la essenza” de la Avana come non osavano fare i fotografi “di passo”, e Tonel (Antonio Eligio Fernandez) che con il suo Secondo autoritratto come intellettuale organico – Ulteriore omaggio ad Antonio Gramsci collega la condizione dell’intellettuale a Cuba alla prigionia del teorico dell’intellettuale organico Gramsci sotto la dittatura fascista (installazione nel garage della Ludwig Foundation a La Havana, come “carcere”). Tutte queste azioni dell’arte – le più interessanti del 1997 – ebbero minacce di censura o proibizione vera e propria da parte delle istituzioni di stato: ma ebbero anche l’appoggio della prestigiosa Fondazione Ludwig – seppure per la realizzazione in luoghi non ufficiali della Biennale – oltre al Premio internazionale da essa istituito.
Dunque Arte Bienal e Officina di Restauro della Città vanno parallelamente (anche se separatamente: peccato!) e a fondo sui temi più importanti, che lucidità! Ma che contrasti isterici! C’è un fondamentale punto di confine/contatto tra i due ambiti: è la considerazione della centralità del Soggetto, della Persona, e ciascuno nel suo ambito mira alla costruzione – o francamente alla ricostruzione – della consapevolezza critica di se stessi in quel preciso punto di contemporaneità con la propria storia sociopolitica quindi culturale.
Certo l’Arte è Mascalzona e non si accontenta mai, tanto meno delle utopie: l’Arte – qui come sta avvenendo allora negli altri Mondi – si interessa al Soggetto, che è un soggetto Depresso o Traumatico che fatica a elaborare Memorie e conseguenze di terribili azioni storiche passate e attuali. In Europa, vedi a Londra Sensation (proprio quell’anno). È anche detto chiaramente, nel call della VI Biennale (1997): visto che le strategie geopolitiche del mondo globalizzato non sono più nelle mani della politica, ma dell’economia, viste le difficili condizioni economiche e che il contesto internazionale /transnazionale estremamente delicato per i mutamenti prodotti nell’”extinto campo socialista” (sic), rendono impossibile una conduzione ordinata dell’evento culturale. Visto tutto questo: dunque dentro la crisi etica, politica, interiore del soggetto post-east, i progettisti della Biennale, nella VI del 1997, evitano gli inviti per le grandi personali, mirano al lavoro più o meno collettivo tematizzato: qui in tre nuclei: Recintos interiores (Recinti interiori), Rostros de la Memoria (Volti della memoria) e la Memorias Colectivas (Memorie collettive) sociali storiche e culturali.
Proprio in quell’anno la fondatrice della Biennale Lilian Llanes viene invitata a tenere in Francia delle conferenze sulla prospettiva culturale della Biennale dell’Avana (Parigi e Bordeaux), ora riprodotta parzialmente in catalogo 2009 della X Biennale: ed è interessante il retaggio lasciato da questa studiosa che sottolinea come già nella V Biennale, che aveva visto la nascita del Centro di ricerca Wilfredo Lam (motore delle Biennali successive, con una equipe di giovani critici e curatori), c’è l’uscita dal rischio di divenire un bunker isolazionista e la costruzione di un approccio universalistico alle creazioni artistiche del Terzo Mondo, con la consapevolezza che “i nostri problemi non erano esclusivi di questa parte del pianeta, ma condivisi con altri gruppi umani nel resto del mondo”. Le tematizzazioni da allora in poi hanno così risposto a quell’approccio universalistico: vedi le questioni dell’emigrazione, marginalizzazione etc., condivisi da Sud e Nord, Est ed Ovest del Mondo. 
È allora che si progetta (per la VI) la questione della memoria: per difendere le radici delle identità minacciate da una comunicazione equalizzante propria delle multinazionali o dei poli trans-nazionali della comunicazione e della informazione. Ma anche altre due sottolineature: non voler essere o pretendersi “diversi” ma voler comunicare e comunicarsi col mondo come parte precisa di una creatività energica; far comunque intravedere (più o meno sublimando) la serrata stretta poliziesca del Governo, che mentre cerca di salvare il progetto socialista e di umanizzazione della democrazia dal basso, nega la libertà di comunicazione e di azione. 
Quanta distanza del processo di Tematizzazioni (pur fondato sul sapere del dibattito internazionale interdisciplinare, che va a tutto merito dei curatori del Centro Wilfred Lam) dallo stato Reale delle cose nell’organizzazione della democrazia cubana. 
Quasi una estraneità.
Ma di quale memoria si parla? Sepultados por el olvido è l’opera realizzata dall’altro artista emergente cubano Làzaro Saavedra una installazione che – mentre si aprono i luoghi architettonici del potere antico come la fortezza della Cabana – dice: gli uomini che hanno patito restano sepolti nell’oblio.

Fino ad allora ad alimentare scambi e conoscenze (acquisite dall’Equipe del Centro Lam attraverso viaggi e studi internazionali), molti critici sia del sistema occidentale (Catherine David, Pierre Restany, Pierre Gaudibert, Achille Bonito Oliva, Dore Ashton e Lucy Lippard) che del centro sud America (Adolfo Sanchez Vasquez, Alvaro Medina, Rasheed Areen, Santiago Olmo, Graciela Pogolotti, Yolanda Wood, Gerardo Mosquera e molti altri).
Io incontro Cuba, già lungamente miticamente sognata- nel 2000 (VII): mi restano mie foto sullo scontro tra Harald Szeeman ed il pubblico, quando dice: “Io non sono niente non ho parte in questo vostro progetto”.
Gira un report l’italiano Stefano Scialotti che lo trasmetterà al Ministero degli Esteri Italiano. Tra i lavori di Ateliers c’è quello della Galleria/Associazione romana Zerynthia “Finestra su Venus”, con Carla Accardi a dipingere una antica porta di uno sterrato. 
Tra i critici internazionali invitati incontro tra i miei ex-allievi della Sapienza Roberto Pinto, che già su www.Undonet.it aveva lungamente intervistato la stella nascente (anzi ormai nata) Tania Bruguera; Teresa Macrì, che lavora al padiglione su Oiticica. 
La Scuola di Storici del Contemporaneo e Curatori della Sapienza di Roma lavora da allora ad oggi sul grande progetto dell’arte a Cuba, con i dottori di ricerca come Lucrezia Cippitelli e oggi Veronica di Orio, o il curatore senior del MLAC Domenico Scudero.

Della vecchia amicizia tra Italia e Cuba restano poche tracce: i DS italiani, con l’Europa, hanno toccato il tasto dei diritti civili e della comunicazione politica, tagliando i ponti (solo il 23 ottobre 2008 si sono riaperti i cordoni della borsa di Europa e si è rinnovata l’ansia di collaborazione all’incerto esito della Rivoluzione socialista da mezzo secolo difesa da Fidel).
Ma ciò che sta avvenendo, nel rapporto tra città e memoria e tra arti contemporanee e contesto internazionale procede speditamente attraverso progetti bilaterali, soprattutto con Spagna e Germania.
Certo, Tania Bruguera, che sin dalla sua performance del 1997 alla Facultad de Artes Y Letras (un anticipo de El peso de la culpa, che realizza nel suo studio nel 1997) lavora duramente sul corpo psichico traumatizzato dalla storia e dall’esercizio del potere di controllo da parte delle strutture militari e poliziesche; soprattutto su quel senso dell’Autostima, perno come abbiamo visto anche del lavoro di Eusebio Leal che lo indica come un necessità radicale per una condivisione collettiva dello Sviluppo; e del dibattito sui processi partecipativi nella nuova impresa ibrida socialista-capitalista, come fa Bell Lara con i suoi studi sul globalismo e sul legame tra mutamento sociale e rivoluzione cubana: una specie di idea di rivoluzione permanente, come rivolta emancipatrice di lunga (lunghissima, dice André Glucksmann) durata.
La passione di Tania Bruguera della sfida all’autorità politica e l’amore per l’azione dell’arte dialogante con la politica e l’attenzione al soggetto senza compatimenti, è in un certo senso – attraverso l’azione artistica – un unicum in quel contesto: costretta a mutare il titolo della sua opera da Ingeniero de almas (ingegnere dell’anima) in Senza titolo(successivamente citata come: “dalla serie Ingenero de almas“). Dopo atti di censura, si volge alla idea di creare come insegnante una nuova cattedra al Istituto Superior de Artes (ISA), luogo di libero scambio di idee e di azione artistica (vedi sempre Lucrezia Cippitelli in Luxflux).
Si chiamerà Arte de Conducta, l’idea di una performance o di creazione dell’arte di carattere etico e critico, acutamente attento alle questioni della libertà personale del soggetto, intravedendo fin da ora l’autoritarismo (con la negazione dei diritti fondamentali dell’uomo tra cui la libertà di parola e di critica), che si stava diffondendo nelle regole dell’economia globalizzata e che come un virus avrebbe colpito fino a noi, qui in Italia. La Cina è il caso più eclatante di soppressione della soggettività in nome di uno sviluppo economico che – diremmo oggi –- non-sostenibile (vedi tutti gli scritti del maggior testimone del fenomeno cinese: Federico Rampini).
Certo un nuovo spartiacque si ha a partire dalla VII Biennale del 2000: il suo Tema Uno mas cerca de otro (Uno più vicino all’altro), accentuazione della questione della funzione socializzante dell’arte per un verso (questa volta vengono invitati oltre a 170 artisti individuali, ben 9 gruppi di creazione, per un totale di 205 artisti), per altro verso quella dei nuovi processi di comunicazione via Internet – strano e ambiguo modo della condivisione dei saperi (chi condivide? E quanto?) – cui è dedicata una importante sezione del Forum.
C’è un altro elemento nuovo, che certo non è estraneo all’azione in corso di accettazione e valorizzazione della architettura alla quale sono dedicati “de manera destacada” (così è detto nel call, indicando la autonomia dal progetto dell’Arte) tutto un complesso di incontri: a partire dal progetto Eusebio Leal, fino alla immagine anche pre-rivoluzione, della città.
Vi rientra il riuso del Pavillon Cuba, da venti anni disusato, lì nella zona della “corona modernista” (come la chiama Leal nel saggio citato) della città.
Il Padiglione Cuba, creato per fiere, mostre e grandi eventi espositivi è collocato nel settore urbano di Vedado a lato della 23esima. Che viene chiamata la Rampa, perché sale dal lungo mare, il Malecon, sulla più alta parte della città, come appunto una rampa.
Luogo a mezzo tra la Kunsthalle e il grande Magazzino, che aveva avuto fin dal 1967 grandi eventi dell’arte, grazie a una idea di Wilfredo Lam (che allora viveva a Parigi) che vi aveva portato nel 1967 la presentazione del Salon de Mai di Parigi (vedi scheda in Universes in Universe.de). 
E successivamente grandi maestri dell’Avanguardia storica internazionale – amici della Rivoluzione e della Libertà – come Picasso, Magritte, Lam stesso, Vasarely, Asger Jorn, Mirò, Hundertwasser, etc.
Nella Biennale del 2000 fui colpita dalle proposte di due gruppi: I DUPP(acronimo di Desde Una Pragmatica Pedagocica) coordinati da Rene Francisco Rodriguez (di cui leggiamo un’intervista in Universes in Universe.de), e cioè James Bonachea, Iván Capote, Yoan Capote, Duvier del Dago, Alexánder Guerra, Inti Hernández, Glenda León, Mayimbe, Beverly Mojena, Omar Moreno, Wilfredo Prieto, Juan Rivero, David Sardiñas, Ruslán Torres. E da Los Carpinteros progettisti di una portable City (1999-2000), che ebbero il premio Unnesco per l’arte, insieme a Jean Pierre Raynaud, Cattedra de arte de conducta, vero workshop dell’intelligenza critica. 
Nel 2003, la VII Biennale, tematizzando Arte con la Vida (Arte con la Vita), esce dal Centro Allargato dell’arte del terzo Mondo cui dall’origine si era dedicata: d’altronde non più “marginale” rispetto al Sistema globale dell’arte, si va al reale: effettività dell’azione dell’arte sulle realtà di cui interrelazioni e comunicazioni appaiono come temi sovrastanti ed eccentrici rispetto al chiuso dominante Sistema dell’arte. 
Rivedere i concetti stessi di arte e vita e le fratture determinatasi nell’uno e nell’altro. 
Interessante dicevo l’uscita dalla città storica: si va ad Alamar, un quartiere sul mare, difficile da raggiungere fino ad ora (sono arrivati i bus cinesi), stile parallelepipedi a tre piano con scale autonome a zig zag e colorabili come un’opera di arte programmata: è qui che nasce il Gruppo OMNI_Zona Franca, che come molti altri Gruppi o laboratori lavorano per lo scambio dell’artista con l’altro, con la vita quotidiana, ma anche volta a un uso libero dei nuovi media come delle vecchie tecniche. Il gruppo Omni sarà invitato nel 2006 (quando lo farà ripescare Lucrezia Cippitelli, una ricercatrice del MLAC della Sapienza di Roma, avevano fatto in passato un performance trasgressiva anti-autoritaria: esclusi quindi dalla gestione centralizzante e politica).
Nel 2006, la IX Biennale de la Avana ha il tema generale di Dinàmicas de la Cultura Urbana (Dinamiche della cultura urbana).
C’è l’apertura più ampia al Non-Terzo-Mondo: Canada, Stati Uniti, Francia, Germania. 
Tania Bruguera lavora come sempre al Centro dei Margini del Campo, ma l’attenzione è su di lei: anzi, trascina l’attenzione sulla sua scuola, sui giovani artisti con cui pratica la ricerca dell’arte, attraverso la cattedra di Arte de Conducta, da lei ideata.
Jeanette Chavez è, per esempio, tra gli artisti allievi che vengono presentati nella sua casa studio al Tegadjillo come avvenuto alcuni anni prima con la sua opera più famosa: El Peso de la Culpa. Autocensura (2006) è un video di 2:52 minuti, nel quale viene esplorato il tema della censura. Con evidente dolore Jeannette Chavez si lega stretta la lingua e si chiude le labbra, cosicché il silenzio autoinflittosi diventa “invisibile”: se lo “ingoia”.
Diciamo anche che, con la proiezione, una notte, durante la Biennale del 2006, nello sterrato del più povero quartiere dell’Havana, il Romarillo, della Trilogia delle Case che René Francisco vi ha realizzato negli ultimi anni, l’arte diventa da “opera aperta” un “opera Infinita”, un processo relazionale i cui segni sono anche gli uomini stessi del contesto, che entrano e operano nella scena dell’arte. Un processo creativo che, nel suo caso, René Francisco chiama “Archeologia del Desiderio”: ha restaurato le case curandole insieme alle tre vecchie, fino allora sole, con l’aiuto di tutti gli abitanti – volontari – del quartiere; e ora rirovescia su di loro, con una proiezione video nella notte, all’aperto, le diverse tappe del lavoro (interviste, domande, segreti, difficoltà, malattie, memorie, desideri, costruzioni, riparazioni, cure); e insegna ricordando, come guardandosi in uno specchio: il progetto caribeano più profondo si presenta come possibile: Kunst-aktion, efficacia e nello stesso tempo linguaggio (vedi l’intervista a René Francisco in Luxflux).

Non avrei mai immaginato, nel 2000, quando registrai l’anomalia censoria e tuttavia il coraggio della Bruguera e quella sublimata – ma chiara – di René Francisco quando operava coi DUPP collettivo di allievi della ISA (che mi avevano catturato per la rottura dei confini tra disagio della vita e linguaggio) quanto tutto ciò fosse penetrato a fondo nella mia prospettiva etica e critica dell’arte.
Come storica avevo esplorato già a fondo i rapporti tra arte e potere sotto le dittature e oltre: ma, nel 2006 (IX Habana Biennal), intravedo riaffermarsi il principio perduto di “responsabilità” che potrò inserire come linea portante di un’arte oggi necessaria e di una possibile azione critica dell’arte.
Riscontrandola operante anche in alcuni altri artisti quasi sempre “nomadi” (transfughi da situazioni politiche invivibili) sotto l’idea di “un certo loro sguardo”: soggetti che ho chiamato “ipercontemporanei”, proprio in nome del loro attraversare continuamente, tramite l’arte, le linee sottili di confine tra Campi minati di Realtà e Sistema autoreferenziale dell’arte. 
Sul vampirismo e sulla rigenerazione acquisita dalla cultura degli stati ex-coloniali, e da parte naturalmente anche del sistema occidentale egemonico dell’arte, già nel 2005 scriveva Jean Loup Amselle in L’art de l’A-friche. 
È stato di sicuro impatto, tuttavia, l’incontro col critico e storico cubano José Manuel Noceda Fernandez, con la sua idea (nella presentazione in catalogo della Biennale del 2006) della fine della utopia e dei linguaggio modernisti, come esplosione schizofrenica nelle nuove realtà urbane postmoderne delle città globalizzate.
Alle città è accaduto qualcosa di simile a ciò che è accaduto con le identità” – scrive Noceda.
Molto si è discusso – egli continua citando Gerardo Mosquera – della “prigione senza pareti” cioè di una idea di mutamento di sensibilità e quindi di una azione assimilante dell’interculturalità, cui – osservando l’azione di certi artisti – si contrapponeva l’idea di “trans-azione”. Ovvero di una pratica di de-istituzionalizzazione – con l’arte – ma in contesti vitali altri da quelli dell’arte stessa, col fine di comunicare e far crescere e far condividere memorie individuali e collettive di carattere storico, sociale, politico.

E tutto ciò filtra in ambiti internazionali. Con un processo di integrazione e resistenza, appunto. I rapporti con Londra, con Berlino, con Venezia e Chicago sono attraverso diverse modalità i luoghi attraversati da quella specie di punto mobile che è l’azione consapevole degli artisti di operare appunto sul crinale della integrazione /o resistenza: ora è una questione di linguaggio, quella che consente di praticare il crinale, direbbe Giulio Carlo Argan, tra “salvezza” e “caduta”.
Ritroviamo Jeannette Chavez un anno dopo nella mostra States of Exchange che Londra dedica nel 2008 ad “artisti da Cuba”, all’INIVA (Institut of International Visual Arts) per la cura del critico sostenitore da sempre degli emergenti dal “margine” cubano, Gerardo Mosquera. Presentando Iván Capote, Yoan Capote, Wilfredo Prieto – già del gruppo dei DUPP guidato da René Francisco – Jeanette Chávez, appunto, Diana Fonseca, Lázaro Saavedra, Mosquera ricorda come essi, padroneggiando il potere semantico dell’arte, siano in grado nel portare nella loro opera contraddizioni, ambiguità, negoziazioni: l’eterna trattativa dell’arte coll’autoritarismo del potere, dunque una questione di fondo dello statuto dell’Arte, della libertà del linguaggio e del soggetto, non solo “locale” ma internazionale.
Diciamo che mentre parla delle opere e del Soggetto del Terzo mondo ai due primi Mondi, cioè ai due Occidenti avanzati postindustriali, Cuba mette in trasparenza se stessa: fabulae narrantur….
Il gioco che lo stesso Fidel ha messo in moto con l’Arte sembra essergli sfuggito di mano: ma il suo inconscio culturale ha lavorato per lui, da quando ha dedicato fin dai primi anni Sessanta, alla creazione artistica (in generale all’arte, al cinema, alla musica, alla danza) uno spazio di libertà e formativo in verità “eccezionale”, mentre non eccezionale è lo spazio “formativo” che ha dispiegato non solo nel campo delle arti, ma in tutti i livelli della “scuola”, come dal suo progetto originario (L’histoire m’acquittera, autodifesa, 1953) per questa parte pienamente realizzato. 
E l’artista che, mentre dice che non lo può dire – e tuttavia lo dice –, e freme, e se sublima (Chavez) si autocensura. Altrimenti – e questo è l’appello di Tania Bruguera alla Biennale di Venezia del 2009 nel Pabellon de la Urgencia/Fear Society – mentre lo dice, si suicida (Autosabotaggio, vedi http://www.youtube.com/watch?v=oQyOsbGXvH8).
Ma prima della Biennale di Venezia (giugno) c’è la Biennale dell’Havana, la biennale del decennale di se stessa e coincidente con i Cinquanta anni della Rivoluzione Cubana.
I nodi sono venuti al pettine? 
No, impossibile in questo momento fluttuante globale, dove le carte sul tavolo sono quasi le stesse, riproponendosi spostate sulla scacchiera del pianeta, là dove il rapporto tra mezzi e fini (lo sviluppo accelerato) è sempre a credito per i diritti fondamentali della persona.

Il dialogo con la politica è un dialogo tra sordi 
(vedi www.taniabruguera.com/info_statement.html)

Diciamo che senza che si veda veramente, in questa biennale X, che fa il punto della sua storia in modo eccellente ma sostanzialmente “accademico” (vedi il saggio di Nelson Herrera Ysla in catalogo 10B, Dossier Decimo Anniversario, L’Avana, 2009), dicevo senza che si veda veramente, in verità gli scopi al nascere della biennale nell’ ‘84 sono raggiunti. Ma da chi e dove e come?
In una specie di punto mobile di incontro tra i Mondi.
E in alcuni artisti, o grazie ad alcuni di loro, che oggi operano sulla scena internazionale, ma che nel fare questo ribadiscono e restano per così dire accentrati nel proprio paese di origine (i migliori restano per esempio alla Avana, ma poi sono invitati in tutti i centri internazionali dell’arte).
Nei dibattiti, poi, e nella teorizzazione su che cosa è oggi l’arte: estetica della resistenza (Gianni Vattimo, tra l’altro in Alfredo Jaar, The Aesthetics of Resistance, FAR, 2006), estetica della responsabilità (soggetto Ipercontemporaneo di Lux, Arte Ipercontemporanea. Un certo loro sguardo, Roma, 2006), estetica della reinvenzione dei codici del modernismo (Altermodern di Bourriaud, Tate Triennal, 2009, vedi www.tate.org.uk/britain/exhibitions/altermodern) sembrano il naturale esito di un ventennale dibattito transnazionale voluto e praticato come metodo ineccepibile dal team della Habana Biennal.
Certo, i contenuti e i risultati e le immagini di quella storia dell’arte contemporanea in Cuba appaiono tortuosamente e talvolta con discrepanti livelli di qualità comunicativa
Ma, nelle varie edizioni, col confronto e col dibattito teorico, aver chiamato a testimoni del progetto autori e teorici di volta in volta emergenti nel Sistema dell’arte degli Altri Mondi, ha significato svelare una linea specifica e nello stesso condivisa di azione culturale per quanto concerne questioni cruciali del soggetto contemporaneo. Lo riconosce anche Bourriaud in catalogo: ”Non è assolutamente una coincidenza se la Biennale dell’Avana è sempre stata per, fin dal mio primo viaggio, uno sconvolgimento mentale, un altro Polo. Per me rappresenta un reale posto contro-progettazione, e particolarmente un punto di vista unico sulla evoluzione delle forme dell’arte”. 
Certo tutto ciò non sarebbe potuto avvenire senza la presa di posizione degli artisti, anche se portata in condizioni di difficoltà di libertà politica.
Insomma una simultaneità di riflessione, invenzione di linguaggio e una nuova forma di impegno soggettivo.

Dall’alto:

1-2 Architetture moderniste verso La Rampa, La Habana, Cuba

La Habana città, bus cinesi

La Habana, Plaza Vieja Restaurata

5-6 Natura e razionalismo, La Facultad de Artes Y Letras

La Habana città

La città antica, mura della fondazione nel primo decennio del 1500

El Morro

Casa ad Alamar, 2006

Gruppo OMNI, studio ad Alamar, 2006

Casa OMNI, 2006

Kcho, con i suoi assistenti, lavora all’installazione nella Plaza Vieja, Havana Vieja, Biennale dell’Havana 2006

Jeannette Chávez, Autocensura, 2006, Video, 2:52 min