Nato ad Avezzano nel 1966 e formatosi all’Accademia di Belle Arti di Roma, Alberto Di Fabio conduce da sempre una ricerca focalizzata sullo studio e l’interesse per le forme naturali. Le sue composizioni si rifanno a micro e macrocosmo, e hanno sempre un riferimento alla realtà pur nell’astrazione delle forme. Strutture biologiche, catene genetiche, sinapsi neuronali, configurazioni astrali sono solo alcuni degli elementi ritratti dall’artista che, attraverso la componente cromatica, dà vita ad un cosmo primigenio dalle tinte prevalentemente fredde. La tela diviene così il luogo di una tensione costante, agitata da una vitalità organica.
Tra i suoi successi più recenti ricordiamo la mostra personale alla Gagosian Gallery di Atene (2 febbraio – 2 aprile 2011), quella alla Galleria Pack di Milano (Over the Rainbow, 5 maggio – 18 settembre 2010) con pubblicazione del relativo catalogo, quella alla Gagosian Gallery di New York (18 marzo – 24 aprile 2010), la vincita del Premio acquisto Dante Ruffini e Maddalena Pettirosso con l’opera Sinapsi e Galassie nel 2008.
Ha inaugurato invece lo scorso 23 maggio l’installazione Realtà parallele alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, a cura di Angelandreina Rorro e Pier Paolo Pancotto, prima esposizione personale presso una pubblica istituzione che sarà visibile al pubblico fino al 22 luglio 2012.
Ho incontrato Alberto nel suo studio al Pigneto per parlare della sua ricerca ma anche dei suoi rapporti con la storia dell’arte italiana, con il sistema dell’arte, con gli altri artisti.
Ecco come è andata.

Alessandra Troncone: Dopo i tuoi recenti successi in giro per il mondo ci ritroviamo nel tuo studio romano a esaminare insieme quello che è stato il tuo percorso. Figlio di un pittore e di un’insegnante di scienze hai saputo coniugare questi due aspetti per dar vita ad una ricerca che ha trovato grandi consensi di pubblico, specialistico e non. Qual è stato il tuo punto di partenza?
Alberto Di Fabio: In effetti è stato un percorso un po’ particolare. Mio padre era un artista che nel dopoguerra è venuto a Roma a studiare. C’era la scuola di Fazzini, era compagno di Mastroianni, Dorazio, Turcato e vari altri artisti. Mia madre si era laureata in scienze naturali proprio qui a Roma. Quindi sin da piccolo ho vissuto questi due aspetti, coniugandoli in un unico Io. Ho iniziato a lavorare all’età di 6 anni, passavo tutti i pomeriggi a disegnare…
 
A.T.: E i soggetti che sceglievi erano già appartenenti al mondo naturale.
A.D.F.: Sì, io lo dico sempre, mi piaceva molto fare paesaggi. Essendo nato e cresciuto in un paesino dell’Abruzzo, l’immagine della montagna rappresenta per me l’elevazione dal mondo terreno, un’immagine di purezza. Poi ho cominciato a leggere i libri scientifici, quelli di mia madre o anche quelli di mia sorella che studiava medicina; da questi copiavo le cellule, il mondo della biologia, della zoologia, della geologia. Dalle visioni paesaggistiche, del macrocosmo, sono entrato “nel magma”: ho cominciato a studiare le varie fusioni minerarie, la composizione dei silici, dei quarzi, dei gas. È stato un insieme di cose…
 
A.T.: Che tipo di pittura faceva tuo padre?
A.D.F.: Mio padre era un pittore e scultore astratto. Da quando ero piccolo mi parlava sempre di Malevic, di Mondrian, di Fontana… Quindi sono nato con questa impostazione “modernista” che si può dire abbia costruito tutto il secolo scorso.
 
A.T.: Da giovane hai deciso subito di prendere la strada dell’estero. Da cosa è stata dettata questa scelta?
A.D.F.: Dopo l’Accademia, ho avuto le mie prime mostre da Alessandra Bonomo e in quell’occasione ho avuto la fortuna di conoscere Sol LeWitt e Alighiero Boetti, che ha comprato uno dei miei primi quadri. Non ci eravamo mai incontrati, lo comprò perché davvero interessato al lavoro che facevo. Proprio lui mi spinse ad andar fuori dall’Italia dopo l’Accademia. Mi disse: “Qui a Roma è tutto molto difficile, è una città ferma, non succederà niente se non cominci a muoverti. Sarai sempre e solo un artista di Roma”. All’epoca lui stava facendo un concorso per la Cité des Arts a Parigi e mi propose di farlo insieme. Lo vincemmo tutti e due, quindi ho passato i primi due anni a Parigi, poi ho continuato a frequentarlo a Roma. Ancora non era l’Alighiero che oggi tutti conoscono anche se ovviamente era un artista bravissimo, tra i più bravi del mondo. Me lo sono goduto a livello umano, con i suoi consigli e il suo modo di affrontare la vita.
 
A.T.: Dopo Parigi è venuta New York. Quanto ti ha influenzato questa esperienza?
A.D.F.: Sono arrivato nella Grande Mela nel 1991. La mia fortuna è stata una mostra collettiva da Lucio Amelio, a Napoli, in occasione della quale conobbi Donald Baechler, Philip Taaffe, tutti artisti americani legati a Lucio Amelio che mi invitarono ad andare a New York, dicendo che mi avrebbero prestato lo studio. Non me lo sono fatto ripetere due volte e pochi mesi dopo mi sono presentato da Baechler, che in quel momento era al mare, a Long Island. Ho passato i primi mesi in questa sua casa adibita a studio.
Per me è stata un’esperienza bellissima perché proprio lì, a New York, l’arte è considerata un qualcosa di vitale all’interno della città, con musei come il Guggenheim, il MOMA, il Whitney, il New Museum.
Poi devo dire che ero molto impressionato dal modo di lavorare di questi miei coetanei o quasi (alcuni avevano dieci anni più di me), di come erano organizzati nelle ore di lavoro, nell’archivio fotografico delle opere, nella serialità dei lavori, nei trasporti… Per me era un altro mondo.
L’esperienza di New York mi ha cambiato nel modo di lavorare, nel modo di organizzare la giornata. Ero ovviamente interessato anche a tutti gli artisti che erano stati a New York prima di me, all’astrattismo americano in particolare; studiavo questi quadri nei musei ed è chiaro che abbiano esercitato una certa influenza sul mio lavoro.
 
A.T.: Ci siamo conosciuti in occasione di una tua mostra alla galleria Umberto Di Marino di Napoli, ormai cinque anni fa. Il titolo di quella mostra era Sinestesia, che suggerisce appunto la compresenza di diverse attività sensoriali: vista, udito, tatto… Si può dire che il tuo sia un lavoro sulle percezioni umane?
A.D.F.: A volte per spiegarlo parlo della sensibilità che ognuno di noi ha di percepire il battito del cuore del nostro pianeta, il movimento della danza cosmica. In India la chiamano Shiva, in Occidente la chiamiamo fisica quantistica. Noi artisti la avvertiamo in maniera più forte, siamo come delle antenne, percepiamo il soffio del vento divino. Esiste un senso di spiritualità universale che è dentro l’uomo, in ogni elemento della natura e della fisica. Nei miei lavori cerco di racchiudere un tutto quantico, mi appassiona la ricerca, la vibrazione delle note che compongono il cosmo. Tento di decifrarlo, e la pittura è solo un mezzo per farlo.
In alcuni dei miei quadri ci sono delle formule molto vicine ad alcune teorie della fisica e questo non si spiega perché ho letto dei libri di fisica ma solo perché cerco di immaginare e riprodurre le nostre galassie, i neuroni, l’elettromagnetismo, le energie del pianeta. Spesso sono andato molto vicino alla riproduzione di una formula di un fenomeno naturale, senza averla mai studiata, solo per averla “sentita”.
 
A.T.: Quindi si tratta di un lavoro più sulle tue percezioni che non su quelle dello spettatore.
A.D.F.: Beh, è una percezione mia, però cerco di propagarla anche allo spettatore. Infatti ci sono vari livelli di lettura che suggeriscono ad ogni persona qualcosa di diverso. Il mio obiettivo è produrre una sorta di elettromagnetismo, delle onde, come può fare un quadro optical o un’installazione sonora. Con questa pittura bidimensionale cerco di innescare in chi la vede delle emozioni cinetiche, extrasensoriali.
 
A.T.: Una piccola curiosità: poco dopo la mostra da Di Marino, vidi le tue opere nella pubblicità di Alice-Telecom; comparivano sullo sfondo come arredamento del salotto nel quale si svolgeva la scena. Chi ti ha contattato per esporre i tuoi lavori in questa circostanza “insolita”?
A.D.F.: È stata una coincidenza incredibile che mi ha dato anche tanta notorietà in Italia. C’era uno scenografo a cui piacevano molto i miei lavori, stavano cercando opere che parlassero di arte e scienza, tecnologia e comunicazione. Le mie “sinapsi” funzionarono molto, ebbero successo al punto che molti telespettatori mandarono email, telefonarono per sapere di chi fossero i lavori.
 
A.T.: Uno degli elementi più interessanti della tua ricerca è questa complementarietà tra astrattismo e realismo: le tue forme evocano un linguaggio astratto ma in realtà si tratta di elementi reali, i cui lineamenti sono visibili al microscopio ma non ad occhio nudo. Definiresti la tua pittura astratta oppure no?
A.D.F.: Sì, è astratta, ma ci sono dei riferimenti ben precisi. Mi piace definirlo un astratto-organico, che esiste dentro ognuno di noi. È un ingrandimento e una trasformazione del microcosmo, delle microcellule, dei microrganismi. Guardo ai grandi astrattisti come Motherwell, Franz Kline, Pollock, De Kooning ma tutto il mio lavoro proviene da una visione della natura reale, che esiste. Vorrei che tutti, anche i non addetti ai lavori, possano sognare davanti a un mio quadro.
 
A.T.: La tua è una vera e propria attività di ricerca, per identificare le forme che poi rappresenti nei tuoi quadri. Come ti documenti?
A.D.F.: Con i libri e le riviste scientifiche, attraverso i siti della NASA… ma soprattutto guardando ai maestri: Giotto, Tiziano, De Chirico, Mondrian, Ernst, ma anche scrittori come Shakespeare, musicisti come Bach… sarebbe bello ricreare quel tipo di armonia in immagini contemporanee e con la velocità del tempo di oggi. Mi chiedo sempre quanto ci vorrebbe oggi per fare uno dei loro quadri, o quanto ci vorrebbe per comporre quel tipo di musica e mi fermo a pensare ai ritmi quotidiani di vita che sono sempre più veloci, concentrarsi è sempre più difficile. I neuroni si sono allontanati dal loro tempo biologico, sono sottoposti ad un’ansia continua. Uno dei più grandi neurologi americani afferma, in una sua teoria, che i neuroni sono avanti di cinque secondi sul ritmo di vita dell’uomo. Siamo carichi di ansie, di ambizioni e di sogni e non siamo mai contenti. È un vortice che si ferma solo quando respiriamo in maniera orizzontale, come un respiro yoga, tra la mente e lo stomaco, e ci accontentiamo di quello che abbiamo fatto durante il giorno.
 
A.T.: Parliamo della scelta del supporto: c’è la carta cinese, sottile e delicata, e poi le tele di grandi dimensioni. Anche qui un rapporto tra micro e macro. In relazione a cosa scegli il supporto da utilizzare?
A.D.F.: Ho lavorato tanti anni su carta perché lo scorrere del pennello su questo supporto, con un colore liquido, crea increspature, velature, strati che mi ricordano la stratificazione del nostro magma, le mappe dei fiumi, le sinapsi neuronali… sono forme immaginate ma a queste si lega anche la fisica, il modo in cui la carta si asciuga
Sono sempre stato attratto dalla bellezza della gouache su carta, ma mi sono poi voluto confrontare con le tele giganti, un po’ anche spinto da galleristi, amici e collezionisti.
 
A.T.: Nelle tue opere indaghi le forme della natura, trascrivendone l’energia e raffigurando quella che tu stesso hai definito una “danza cosmica”. Gran parte di questo lavoro si gioca anche sul bilanciamento tra ordine e caos, che è in qualche modo una delle regole sottese allo stesso universo naturale. Come ti relazioni a questo tema?
A.D.F.: Potremmo dire che tutte le più importanti teorie della fisica si sono confrontate con il principio di indeterminazione. I materiali con cui oggi costruiamo orologi, computer, erano una volta gas in viaggio per lo spazio, poi sono divenuti silici, quarzi, etc. Tutto sembra partire da un caos iniziale, da un qualcosa di imperfetto che si concretizza poi in materia perfetta. Sono molto attratto da questi argomenti e, anche se non posso comprenderli fino in fondo, cerco di affrontarli seguendo la mia sensibilità.
 
A.T.: Proprio questa idea di ordine e caos mi fa pensare ad Alighiero Boetti, di cui abbiamo parlato prima. Quanto ti ha influenzato l’averlo conosciuto?
A.D.F.: Si può dire che abbiamo condiviso la geografia dei quanti. Alighiero aveva una libertà incredibile nel pensare un’opera d’arte, “le infinite possibilità di esistere” titolo di una sua opera, suscitava in me l’emozione di un’altra vita, di un altro pensare e fare. Entrare nelle sue geografie cosmiche, attraverso i cento e più fiumi dell’universo intero… quante cose abbiamo sognato di fare insieme? Quante vite avremo voluto vivere? Sogni, emozioni, ambizioni che ci trasportavano nella vita e nell’arte.
Quando lavoro ad un’opera comincio dal supporto, da come è la tela, dalla proporzione degli elementi, dall’impasto dei colori… invece Alighiero aveva una fantasia, una irrazionalità, che lo portava a fare cose incredibili.
 
A.T.: Nel comunicato stampa della mostra che hai tenuto alla galleria Gagosian di New York nel 2010 vengono citati, come tuoi riferimenti, Giacomo Balla e Lucio Fontana. Ti rispecchi in questo elenco?
A.D.F.: Sono d’accordo solo su alcune cose; in genere faccio lavori più organici, curvilinei, “biologici”, invece per l’ultima mostra di New York ho ripreso alcuni temi dell’astrattismo, della pittura di mio padre, utilizzando linee minimaliste e intitolando i lavori Velocità della luce, Mondi paralleli… in questo caso specifico si può dire che abbia tirato fuori una radice “futurista” che invece non appare negli altri lavori. Il riferimento a Balla e Fontana in particolare si sposava bene con quello che era il senso di questi lavori in mostra, ovvero mostrare spazialità diverse da quelle che vediamo, velocità e materie diverse da quelle che percepiamo.
 
A.T.: Restiamo su Gagosian: come hai cominciato a lavorare con lui?
A.D.F.: Quando sono andato a New York per la prima volta sono rimasto subito colpito dal modo di lavorare degli americani.
Quando ero lì, a 21 anni, sognavo di lavorare con una delle gallerie più importanti di New York. Ho avuto un’ambizione molto forte perché tanti dei miei colleghi che ora hanno la mia età mi chiedono come sia riuscito a fare una mostra personale con Gagosian nella sua sede di Madison Avenue, non a Chelsea dove espongono anche artisti più giovani. Non so rispondere a questa domanda, se non dicendo che era un sogno, un progetto che ho portato a termine.
Nei primi mesi a New York frequentavo la sua galleria agli opening e incontravo personaggi straordinari, Roy Lichtenstein, Leo Castelli, Ileana Sonnabend… quando incontravo Larry lo invitavo a visitare il mio studio e lui mi rispondeva: “Alberto non vado dai giovani artisti, dovrei stare tutto il giorno in giro. Quando avrai la tua prima personale a New York verrò a vederla”.
E così andò. Dopo 7 anni – perché tanto ci ho messo!– ho esposto da Alexandre de Folin, nel 1998. Larry venne due ore prima dell’opening e comprò quattro quadri. Mi disse che il lavoro gli piaceva, che aveva già sentito parlare della mia tecnica e dei miei soggetti da altri artisti. Con quei quattro lavori ci arredò una stanza nella sua casa negli Hampton.
Piano piano, anche con l’aiuto di una mia amica che intanto era diventata la direttrice della galleria di Londra, ho cominciato a fare delle mostre in galleria. Hanno sempre apprezzato non solo la mia pittura ma anche il mio modo di lavorare, la mia passione e serietà. La mostra ad Atene dello scorso anno è stata la mia quinta personale con Gagosian.
 
A.T.: Cosa hai presentato in quella occasione?
A.D.F.: Una parte della mostra era dedicata ad Anassimandro che già nell’Antica Grecia percepiva l’esistenza dell’infinito, dei pianeti, del sole, delle galassie… Altre opere erano dedicate a Democrito, padre della fisica moderna, che già a quei tempi sosteneva che il tutto è composto da atomi, e al tempo stesso percepiva l’esistenza dell’antimateria.
 
A.T.: L’aver cominciato a lavorare con una galleria così importante, una “compagnia” come tu la definisci, ha influenzato il tuo modo di relazionarti al sistema dell’arte? Quale ritieni debba essere l’atteggiamento giusto di un artista nei confronti di galleristi e collezionisti?
A.D.F.: In realtà sono sempre rimasto con i piedi per terra. Credo che sarà il tempo a decidere se il lavoro vale o meno, non è il nome a darti la fama ma è l’opera d’arte che superate due, tre generazioni si capisce se è davvero valida. Quindi tutte le mie energie sono dedicate alla matematica dell’opera, al contenuto di quello che dovrei fare, di quello che dovrei tramandare a chi ci sarà dopo di me.
Le relazioni vengono dopo; siamo tutti bravi a prendere un aereo e andare a Londra, Amsterdam, New York, poi però bisogna dedicarsi anche al lavoro in studio. Certo, bisogna avere un’attenzione anche per le pubbliche relazioni, per l’antropologia del sistema, ma la base sta tutta nel lavoro.
 
A.T.: Parliamo dell’installazione Realtà parallele che hai inaugurato da pochissimo alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (23 maggio 2012). Come ti sei relazionato allo spazio che ti hanno messo a disposizione? Mi sembra che tu abbia voluto in qualche modo far riferimento alle grandi vetrate istoriate delle cattedrali gotiche…
A.D.F.: La fisica e lo spirito, lo spazio e il tempo sono elementi che ci circondano dalla notte dei tempi e sono la chiave di ricerca ed elevazione nei miei lavori. Dato lo spazio concessomi alla GNAM, ho subito pensato alle vetrate di un qualsiasi tempio, alla croce greca, ai mosaici ravennati del Mausoleo di Galla Placidia, ma anche alla bellezza di posizionare un quadro davanti una finestra in controluce per dialogare con gli stessi fotoni, con il cielo, con le piante del cortile… L’impatto è molto scenografico e il pubblico davanti all’installazione può percepire facilmente – tramite l’insieme di 60 quadri e di tutte le trasparenze presenti – le varie realtà parallele nella creazione di un tutto quantico. Il dogma del tutto non si è ancora svelato, la ricerca dell’antimateria o della particella di Dio è attuale e primordiale: con questo lavoro ho cercato di creare una porta d’ingresso per comprendere l’orogenesi degli elementi e sognare a occhi aperti o chiusi.
 
A.T.: Qual è stata la tua esperienza nel relazionarti con una istituzione pubblica, dopo aver lavorato tanto con le gallerie private?
A.D.F: Come primo impatto è stata dura, mi sono trovato in una realtà completamente diversa, ma come in tutte le cose della vita ho preso il buono e il risultato mi sembra ottimo. Sia i curatori che la redattrice della bibliografia sono stati molto bravi e molto tecnici, cosa che spesso in galleria passa in secondo piano (ma non sempre). La mia libertà espositiva e progettuale è stata un minimo ridotta da tutta una serie di regole presenti in un museo, ma la mia felicità per aver realizzato questa mostra va al di là di tutto.
 
A.T.: Tornando alla tua ricerca, vorrei chiederti se è come è cambiato il tuo lavoro nel corso degli anni.
A.D.F.: In realtà ho provato a cambiarlo, a fare scultura, installazioni, ma alla fine torno sempre a fare i miei quadri. Per fortuna lavorare con una grande galleria come Gagosian mi ha concesso un po’ di serenità; noi artisti soffriamo, ci stiamo sempre a lamentare, ci sentiamo soli, i soldi non bastano mai. Io cerco di lavorare psicologicamente sull’essere felice, in modo che anche le mie opere risentano di questa serenità. Non è sempre facile…
 
A.T.: Credi che la pittura sia una scelta anacronistica o lo sia stata in qualche momento particolare della tua carriera?
A.D.F.: Mi è stato detto spesso “Alberto ancora dipingi?”. Devo dire però che per fortuna adesso con tanti articoli, tante mostre, sta venendo di nuovo fuori questa pittura, o forse c’è sempre stata. Ho fatto due mostre a Bruxelles alla galleria di Marie-Puck Broodthaers, la figlia di Marcel Broodthaers, e lei mi ha inserito in alcune collettive con Blinky Palermo, Marcel Broodthaers, Manzoni… Mi diceva: “Alberto i tuoi quadri sono più concettuali di quelli di mio padre. Ad una prima impressione possono essere esteticamente piacevoli, ma hanno tanti livelli di lettura”.
 
A.T.: Chi sono i tuoi colleghi artisti che al momento stimi di più, di cui segui la ricerca in modo costante?
A.D.F.: Sono molto amico di Jenny Saville, Cecily Brown, Donald Baechler, Philip Taaffe. Mi piacciono tanto James Turrell, Anselm Kiefer, Thomas Hirschorn, Tom Friedman, Richard Wright… anche se alcuni sono più grandi di me, li sento vicini alla mia poetica. E poi molti degli artisti che lavorano nelle gallerie dove espongo: Marie Puck Broodthaers a Bruxelles, la Galleria Pack a Milano, Umberto di Marino a Napoli, Gagosian.
 
A.T.: Ho letto di un tuo progetto a Ponza, dove stai lavorando per ricostruire un ambiente incontaminato, nel quale sia possibile ristabilire un rapporto con la natura ma allo stesso tempo le persone invitate possano dar vita a dibattiti e scambi culturali. Puoi raccontarci di cosa si tratta?
A.D.F: Il mio sogno segreto è ricreare una sorta di Scuola d’Atene: anche se in tutta una vita non ce la farò mai, voglio provare a piantare il primo seme.
Con i soldi risparmiati per dieci anni in America ho comprato tutta una valle con una casa-grotta che poi ho ristrutturato. Volevo ricreare l’idea di un orto botanico sull’isola di Ponza, come era migliaia di anni fa. Ho piantato circa 400 piante intorno ad una valle bellissima che era usata dagli abitanti dell’isola come discarica e ho contattato il ministro dei trasporti per far istituire un servizio via mare che portasse a Latina i rifiuti per il riciclo. Tutto questo è successo otto anni fa, prima che scoppiasse il caso Napoli con l’immondizia per strada e il problema delle discariche.
 
A.T.: L’idea di piantare, lungo il perimetro della discarica, tante piante di vario genere, mi sembra un progetto molto “beuysiano”, che in qualche modo attribuisce anche un valore sociale alla tua opera.
A.D.F.: È infatti un progetto che mi ha ispirato Beuys, che da giovane ho visto da Lucio Amelio. Ho pensato che la forza di un’azione del genere potesse non rimanere solo un’opera d’arte concettuale, quindi ho comprato un sacco di piante nei vivai di Formia e le ho portate sull’isola. Con il gallerista Umberto Di Marino abbiamo fatto a Napoli nel 2004 una mostra dal titolo Ri-impianto, poi ho proiettato queste diapositive nelle scuole, in varie mostre, concerti ed eventi, cercando di sensibilizzare tutti nei confronti della questione ambientale. È un modo per rendere la mia opera ‘sociale’ attraverso un’azione reale.
 
A.T.: In che modo questo progetto si relaziona con le tue tele?
A.D.F.: Il legame è l’amore per il nostro pianeta, la botanica, l’adorazione di tutto il mondo naturale, la volontà di salvaguardare quello che abbiamo non con la solita retorica dell’ecologia.
 
A.T.: Un’ultima domanda: qual è il consiglio che daresti ai giovani artisti?
A.D.F.: Ai giovani cerco di dire che la vita d’artista è molto difficile, devi avere diverse qualità. Nessuno ti aiuta mai e devi stare sempre attento. Poi li invito ad essere eruditi sul campo, a conoscere le cose che hanno a che fare con il mondo dell’arte. A volte i ragazzi non sanno neanche cos’è un comunicato stampa, non conoscono le gallerie attive sul territorio… bisogna avere prima una conoscenza generale, per potersi specializzare in qualcosa. Quindi conoscenza, impegno e costanza. E attenzione alle “gomitate”: possono arrivare alla prima mostra personale e impedirti di andare avanti. Non bisogna lasciarsi condizionare e concentrarsi sempre sul lavoro che si sta facendo.

 

Lo studio di Alberto Di Fabio, Roma, 2010. Photo: Mirai Pulvirenti

Alberto Di Fabio nel suo studio, Roma, 2010. Photo: Mirai Pulvirenti

Alberto Di Fabio, Vortices, veduta dell’installazione, Gagosian Gallery, Londra, 2007. Courtesy Gagosian Gallery

Alberto Di Fabio, Minerali blu, 2000, installazione di 20 pannelli, acrilico su carta intelata

Alberto Di Fabio, Tensioni n.3, 2006, acrilico su carta, cm 40,7 x 27.

Alberto Di Fabio, Neurone rosa n. 3, 2009, acrilico su tela, cm 200 x180

Alberto Di Fabio, Respiro dell’universo, 2009, acrilico su tela, cm 119 x198. Courtesy Gagosian Gallery. Photo: Giorgio Benni

Alberto Di Fabio, Paesaggi della mente, 2011, acrilico su tela, cm 200×350. Courtesy Gagosian Gallery. Photo: Fabrizio Cicero

Alberto Di Fabio, Coscienza eterea, 2010, acrilico su tela, cm 200×350. Courtesy galleria Pack, Milano. Photo: Fabrizio Cicero

Alberto Di Fabio, Sinapsi nere, 2009, acrilico su tela, cm 60 x 50

Alberto Di Fabio, Un mare di atomi, 2007, acrilico su carta intelata, 24 tele ognuna cm 100×70. Installazione galleria Pack, Milano. Photo: Davide Carlesso

Alberto Di Fabio, Realtà parallele, installazione alla GNAM – Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, maggio 2012. Photo Sebastiano Luciano