Note:

1. Il video Letter to a refusing pilot (2013) è esposto, installato, come diciamo più oltre. Il libro è aggiunto, per così dire e rafforza il messaggio politico dell’opera di Zaatari. AKRAM ZAATARI. A Conversation with an Imagined Israeli Filmaker Named AVI MOGRABI è un piccolo libro realizzato nel 2010 durante la residenza dell’artista nei Laboratoires d’Aubervilliers (Aubervilliers, Francia: www.leslaboratoires.org, con il supporto del Centre National des Arts Plastiques e del Conseil Général de Seine Saint-Denis), pubblicato dalla Sternberg Press (Berlino: www.sternberg-press.com) per la Kadist Art Foundation.

L’artista oggi, come ha voluto dire Alfredo Jaar, è transnazionale e può, attraverso una fitta rete di legittimazione costituita dalle Fondazioni, Centri di Residenza finanziati da vari enti pubblici e privati, Centri di Ricerca e Musei di nuova concezione come i Musei-Laboratorio o i Musei-Centri di Ricerca, consentire la crescita libera dell’artista e la promozione della sua libertà d’espressione, aiutandolo a sfuggire alla strumentalizzazione od “uso dell’arte” da parte di poteri politico-finanziari vigenti globalmente. In questo senso si può parlare del Sistema dell’arte come di “zona franca”, nella quale convivono un’arte come intrattenimento (più largamente e finanziariamente sostenuta) ed un’arte come atto critico e di conoscenza innovativa e di interrogazione del reale. Al principio di responsabilità, che l’artista come altri può scegliere, è affidato la possibilità di un’azione trasformatrice dell’arte.

Avviene così in questa altra opera di Akram Zaatari, che sul doppio registro del personaggio immaginario di un regista israeliano e col nome vero di un vero regista israeliano molto noto nel mondo dell’arte e del cinema docu-creativo cioè Avi Mograbi, crea un immaginario colloquio nel quale getta raggi di luce e d’ombra sul conflitto tra Israele e Libano, sulla complessità della recente storia del Libano, e sulle questioni o tags oggi in primo piano, sia per chi le vive sia per chi da lontano le osserva: tracciare confini, elevare muri di separazione, la mobilità dell’uomo tra un paese a l’altro, il nemico. Chi è il nemico e perché anche per me?

2. Rami Khouri, La realtà fa più paura di una mappa, tradotto da“The Daily Star” su “Internazionale”, n. 1022 del 18 ottobre 2013.

La idea di una nuova divisione del Medio Oriente, presentata in un articolo sul New York Times di Robin Wright, ex corrispondente a Beirut ed esperta di relazioni internazionali. La mappa è ripubblicata nell’articolo di Rami Khouri “Daily Star Libano”/ “Internazionale” Italia del 18 ottobre 2013. Se il piano dell’occidente fosse anche quello di ridisegnare una mappa mediorientale con stati più piccoli e deboli, la questione all’ordine del giorno resta quella di ridisegnare la struttura politico-democratica dei paesi ivi rappresentati.

3. Cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Arab_Image_Foundation .

Fouad el Khoury, Construction site in Beirut, Beirut, Lebanon, 1920,  Collection: Fouad El Khoury, Archivio Arab Image Foundation, Copyright © Arab Image Foundation.

4. Cfr. https://www.facebook.com/APEALARTS .

5. Cfr. Federico Florian, Biennale di Venezia, Arte 2013-Diario #06. Libano, “KLAT.Association of ideas”, http://www.klatmagazine.com/art/biennale-arte-2013-diario-06-libano/9472. Insieme al testo di Florian, le perfette foto di Marco Milan restituiscono il senso dell’opera, individuando tutti gli elementi significanti dell’installazione.

Akram Zaatari alla 55° Biennale di Venezia: identità nel confine tra soggettività e geopolitica.

Che cosa ci fa vedere Akram Zaatari del Libano, nazione che rappresenta alla 55 Biennale di Venezia?

Un video Letter to a refusing pilot (2013) ed un piccolo libro (1) realizzato nel 2010, collocato lì sul desk del Padiglione, poi incollato con scotch, aperto, rinviandoci alla libreria della Biennale: AKRAM ZAATARI. A Conversation with an Imagined Israeli Filmaker Named AVI MOGRABI.

Ha realizzato proprio per la Biennale il video Letter to a refusing pilot, nel quale con delicata ambiguità, come non può non essere dell’arte, presenta se stesso mentre realizza l’opera (si fa riprendere e fa delle cose), che è un percorso interiore fatto di memoria, associazioni letterarie, documenti fotografici di guerra e documenti fotografici familiari, oltre a un suo disegnare che ci appare una Confessione creatrice non diversa da quella che ci consegnò Paul Klee circa cento anni fa. Ma è cambiata: siamo nel XXI secolo: oltre all’azione creatrice c’è la assunzione di pezzi/tracce readymade della realtà storica sua propria e nostra.

Nella dinamica attuale della autopresentazione dell’arte e dell’artista (che in questo caso è la proiezione continua di un video, quello citato, e la collocazione di alcuni elementi nello spazio buio della sala: il videoproiettore lì in mezzo che proietta il video e la collocazione al centro di una poltrona vintale tratta da una dimessa sala cinematografica anni ’50) che ho chiamato entry/exit, l’artista (insieme ai suoi curatori?) si rivolge a un noi individualizzato e indistinto nello stesso tempo.

Per un verso, sembra dirci invitandoci all’entry dell’opera, quando ti metterai a guardare sarai solo come me quando io giovane uomo/artista ho realizzato il video che tu guardi, e lasciati andare ai tuoi ricordi e saperi e associazioni di idee. Per altro verso, fin dalle prime immagini del video, sembra rivolgersi al pubblico come a un noi indistinto (come il bambino che incontra il pilota del romanzo Il piccolo Principe di Saint-Exupéry caduto in un deserto), a un noi portante come quel bambino un’idea dell’arte come illusionistica riproduttrice della realtà e gli anticipa: con la mia “immagine creata” (il video che stiamo vedendo) trasporterò qualcosa che è fuori di me e nello stesso tempo dentro di me.

Il video infatti inizia con Akram Zaatari che sfoglia proprio le pagine nelle quali Saint-Exupéry fa realizzare al pilota non la pecora che il bambino del deserto gli chiedeva di realizzare veridicamente – affinché compisse l’azione reale di farle mangiare cespugli dei baobab che stavano invadendo e distruggendo il territorio bloccandone così la crescita e la azione distruttiva – ma una scatola, un parallelepipedo, dentro il quale, egli dice, c’è la pecora che tu desideri. Il bambino è soddisfatto: è proprio quello che desiderava, avere quella cosa che gli consentirà di cambiare la deriva mortale del suo territorio trovando una via d’uscita diversa dalla accettazione del reale così come appare in immagine. Zaatari poi ricorda e labirinticamente, cioè non linearmente (non secondo sequenze inscritte in una trama pre-tracciata e temporale), scrive/traccia un’altra storia che l’arte/l’artista (egli è ormai dunque figura al limite tra uomo comune, filmaker, narratore, fotografo, docu fictionist) può fare.

Entry: si entra nell’opera d’arte e Zaatary ci racconta appunto un’altra storia, quella sua di giovane/ragazzo che viveva nel distretto di Taamari alla fine anni ‘50 inizi anni ’60, e assiste in famiglia con suo padre, suo fratello e i suoi amici quando inizia l’invasione di Israele nel Libano, ci racconta che ha saputo del rifiuto di un pilota israeliano di bombardare il sito ordinatogli, avendo scoperto che quell’obiettivo era una scuola (di cui suo padre era stato preside), e come abbia gettato le bombe più in là, nel mare – ed ora rivista con mezzi diversi (tutti quelli oramai espansi e a disposizione degli artisti delle ultime generazioni): disegno di un aereo, foto di lui bambino, foto tratte da giornali dell’epoca, still da cinegiornali che ne parlano, immagini della scuola creata da uno dei maggiori architetti libanesi dell’epoca, percezione della guerra e dei bombardamenti durante la guerra, mutamento della scena e della vita delle persone che vivevano in quei luoghi, nuove riprese e foto, riprese video, degli stessi luoghi in immagini di oggi che ne dicono l’irredimibile degrado e perdita di significato e affettività.

Tante le questioni che Zaatari pone in campo con la sua arte (come intrecciare materiali/documento di archivio pubblici e di memoria individuali; come dare a vedere quali e quanto grandi siano sulle persone gli effetti delle distruzioni belliche e politiche di territori e di opere dell’uomo, come ciò che originariamente si è dato come visionario ed energetico – ad esempio la bella architettura di François Ecochard – venga riconsegnato come rovina e trash) e multiple le vie di narrazione e lettura degli eventi che ci apre (rompere i confini elusivi tra un passato elusivo e un tangibile presente; riflettere sull’insensatezza o disumanismo di tracciati di Nazioni – come avvenuto alla dissoluzione dell’Impero Ottomano – e sull’impatto dell’attuale stato delle cose; autolegittimarsi una narrazione diversa della nostra storia diversa da quella unilineare e canonizzata autististicamente dai poteri vigenti; affermare la necessità di combinare testimonialità individuale e collettiva, individuale e pubblico).

La coda di paglia di detentori e di ribelli al solo porre delle questioni del genere è enorme: basti pensare alle violente reazioni determinate dall’averne posta una sola Rami Khoury con il suo articolo sul libanese “The Daily Star” (2).

E per quanto molte di esse costituiscano oggi pungenti atti d’accusa allo stato delle cose politiche e quindi lo stesso porle farebbe di Akram uno da respingere dal sistema globalizzato dell’arte che – come abbiamo visto sopra – non vuole antagonisti, è avvenuto che una alleanza tra artista, commissari e curatori del padiglione del Libano alla 55° Biennale abbia consentito di affrontarle in modo diverso e riorientato.

Zaatari, che si è sempre mosso tra campi e media diversi della creazione e comunicazione artistica (è detto nella sua biografia on line che è “a filmmaker, photographer, archival artist and curator”, ha iniziato creando in Libano nel 1997 la Arab Image Foundation insieme ai suoi amici fotografi Fouad Elkoury and Samer Moadad (oltre 600.000 immagini di verso statuto sulla vita e storia in particolare del Libano, ma anche di altri paesi arabi:Siria, Palestina, Giordania, Egitto, Marocco, Iraq, Iran, Messico, Argentina e Senegal, detti, con lo scopo di “to track down, collect, preserve and study photographs from the Middle East, North Africa and the Arab diaspora”) (3) e di qui nasce la sua opera come arte: mettere in opera una storia più complessa della verità storica canonizzata dai poteri attuali. Ha riconosciuto come arte questo nuovo racconto storico non lineare la APEAL –Associazione per la Promozione ed Esibizione delle Arti In Libano, associazione non-profit dedicata a mostrare ed incoraggiare gli artisti libanesi, soprattutto se svolgono il loro lavoro dentro la loro nazione, proiettandone il lavoro al di fuori dei confini tradizionali e su un più largo schermi internazionali (come avvenuto nel caso di Zaatari, del cui Padiglione la APEAL è commissario) (4). L’intenzione dei commissari è inoltre dichiaratamente quella fare guerra all’immagine persistente del Libano come paese in guerra: tags stabilità e rilancio, bene intesi. E la hanno intelligentemente curata e presentata il duo di curatori Sam Bardaouil e Till Fellrath, storici dell’arte, curatori e fondatori della piattaforma multidisciplinare Art Reoriented, con base a Monaco e New York.

Che cosa ha unito artista, commissario e curatori, nell’efficace compito di essere accolti nel mondo dell’arte o Sistema globalizzato dell’arte, parlandone la stessa lingua (stabilità, non antagonismo, creazione di fuga acritica dalla realtà)? Mostrare di articolare un processo creativo non antagonista (che è lo scopo del loro apparentemente integrato ruolo di documentatori ed espositori: che più tranquillo di un archivio di fotografie del mondo arabo?), volto alla non messa in discussione dello stato delle cose: ma poi farlo. E farlo come: con l’arte, che inscena o mette in opera tracce o frammenti di immagini di statuto diverso (docu, grafico, video, cronaca, autobiografico) pertinenti alla ambigua e plurima verità del reale, scelte dall’uomo/artista che così si mette in gioco invitandoci a metterci in gioco.

L’opera ormai non rappresenta più il visibile, ma neppure rende visibile: l’arte intesa come oggetto/immagine è finita, e se persiste, lo fa solo nel mettere in gioco lui, l’artista, e per mettere in gioco noi altri, trasformando la nostra visione del mondo in un passibile atto critico.

Questo il Sistema – anche dell’arte – l’accetta: l’arte fa qualcosa di noi, anche se non cambia il mondo.

L’installazione di Akram Zaatari nel Padiglione del Libano, foto Marco Milan (da klatmagazine: http://www.klatmagazine.com/art/biennale-arte-2013-diario-06-libano/9472, Diario 6 di Federico Florian)

Akram Zaatari, Letter to a Refusing Pilot (still), 2013,  dal film e video installation. Courtesy of the artist and Sfeir-Semler Gallery Beirut.

Akram Zaatari, Letter to a Refusing Pilot (still), 2013,  still dal film and video installation, foto Marco Milan

Akram Zaatari, Conversation with an Imagined Israeli Filmmaker Named Avi Mograbi,  cover del libro,  Sternberg Press,2012.  Libro realizzato dall’artista nel 2012, durante la residenza nei Laboratoires d’Aubervilliers.

Interessante l’intervista a Zaatari, pubblicata da Le Journal des Laboratoires Jan-April 2011, a cura di Nataša Petrešin-Bachelez:“Ways of Seeing, Telling and Sharing. On Akram Zaatari’s Conversation With An Imagined Israeli Filmmaker Named Avi Mograbi” (http://www.leslaboratoires.org/en/article/ways-seeing/conversation-avec-un-cineaste-israelien-imagine-avi-mograbi).

L’artista fin dal 2006 aveva una idea precisa di ciò che voleva fare con l’arte, ci  dice l’intervistatrice, citandone una dichiarazione scritta prima della Guerra del 2006:
“I see my motivation for research not as that of a historian but an artist interested in history; not a social scientist or urbanist but rather an artist interested in socio-urban issues.” ( da A. Zaatari: “Photographic Documents/Excavation as Art”, in Charles Merewether (ed.), The Archive, London: Whitechapel Gallery / Cambridge, Massachusetts: The MIT Press, 2006, p.183).