NOTE:

(1) Beat Wyss, Jorg Scheller, Il Bazar di Venezia, in La Biennale di Venezia – 54 Esposizione Internazionale d’Arte. Illuminazioni, Marsilio Editori, Venezia, 2011.

(2) Bice Curiger, ILLUMInazioni, in La Biennale di Venezia – 54 Esposizione Internazionale d’Arte. Illuminazioni, Marsilio Editori, Venezia, 2011.

(3) Bice Curiger, ILLUMInazioni, in La Biennale di Venezia – 54 Esposizione Internazionale d’Arte. Illuminazioni, Marsilio Editori, Venezia, 2011.

(4) A present stepped in History – Bice Curiger on Curating the Biennale, Intervista rilasciata da Bice Curiger a Paul Ardenne in “Artpress”, supplemento al No 379, giugno 2011.

(5) Bice Curinger, ILLUMInazioni, in La Biennale di Venezia – 54 Esposizione Internazionale d’Arte. Illuminazioni, Marsilio Editori, Venezia, 2011.

(6) Ibidem

(7) Jacopo Tintoretto (1518-1594): una discussione dalla prospettiva contemporanea. Tavola Rotonda su Tintoretto con Carolin Bohlmann, Diedrich Diederichsen, Corinne Wasmuht, Bice Curiger in La Biennale di Venezia – 54 Esposizione Internazionale d’Arte. Illuminazioni, Marsilio Editori, Venezia, 2011.

(8) Mike Nelson in Host Pavillon / Guest House / Han. An Interview with Mike Nelson, Rachel Withers and Guests in Catalogo del Padiglione Britannico, 54° Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, British Council, Londra, 2011

(9) Ibidem

Sotto il titolo “Biennale di Venezia” si celano oggi diverse realtà autonome e tra loro non interconnesse: la mostra internazionale, i padiglioni nazionali e gli eventi collaterali.

La mostra internazionale è affidata ad un curatore che viene nominato dalla Fondazione Biennale di Venezia esattamente un anno prima dell’inizio dell’edizione. Il curatore dunque ha piena autonomia riguardo la scelta dell’impostazione tematica, degli artisti e dell’allestimento, nonché sulla struttura del catalogo.

I padiglioni nazionali sono gestiti direttamente dai Ministeri della Cultura, dai Ministeri degli Esteri o da organi preposti alla diffusione culturale all’estero (come il British Council e l’Institut Francais) delle diverse nazioni. Questi enti nominano un commissario ed un curatore: entrambi sono informati in anticipo (ad autunno) sul tema della mostra internazionale, ma, godendo di piena autonomia decisionale, questo ha ben poca rilevanza su quelle che saranno le loro scelte finali.

Infine gli eventi collaterali sono presentati da enti non profit di tutto il mondo (associazioni culturali, università, musei): la loro candidatura è sottoposta al giudizio del curatore della mostra internazionale che decide quali ammettere nella programmazione.

Questo breve accenno, forse pedante per gli addetti ai lavori, restituisce con evidenza un dato: la Biennale di Venezia è un’organizzazione complessa, che possiede diverse anime al suo interno.

L’unico elemento unificante per le varie esposizioni è uno: la città di Venezia.

La mappa della Biennale infatti non si limita all’Arsenale e ai Giardini, ma coincide con la cartina di tutto il centro storico, dove è possibile rintracciare molti padiglioni nazionali e tutti gli eventi collaterali. La città dunque introietta questa trama di eventi che divengono nuovi “canali” della laguna in cui scorrono veloci idee, mostre, performance, dibattiti: l’arte contemporanea crea flussi istantanei, rapidi e inaspettate relazioni. Per poter partecipare occorre essere all’interno e, in una certa misura, esserne trasportati. In uno dei saggi del catalogo di questa edizione (la cinquantaquattresima), scritto da Beat Wyss e Jorg Scheller, si avanza l’ipotesi che la Biennale di Venezia, aspirando a rappresentare la cultura globale, sia il nuovo “sublime” kantiano in grado, con la sua potenza e grandezza, di spiazzare l’uomo, esercitando su di lui un’attrazione mista a repulsione, e, successivamente, di portarlo a riflettere su se stesso.

“Le grandi esposizioni internazionali riflettono una condizione assai concreta che si potrebbe definire come ‘sublimità del globale’. (…) La Biennale di Venezia è gemella della globalizzazione così concepita. Attraverso la mimesi, rimanda a ciò che non può essere né contemplato individualmente né compreso concettualmente nella sua interezza. Rappresenta ciò che non può essere rappresentato. Nell’insieme il suo eccesso di visibilità si trasforma paradossalmente in invisibilità, come una luce abbagliante che acceca.” (1)

Molto interessante, soprattutto se pensiamo che il titolo dell’esposizione internazionale curata da Bice Curiger è “ILLUMInazioni”.

Tutto il catalogo, che vorrei precisare è un’opera a se stante rispetto alla mostra, ci riporta in effetti al secolo dei lumi: “Anche se negli ultimi anni sono state rivolte molteplici critiche all’idealizzazione della razionalità illuministica e a pratiche cognitive specificatamente europeo-occidentali, valeva e vale comunque la pena di continuare a celebrarle e a salvaguardarle, non da ultimo anche nel campo di battaglia in cui infuria il dibattito sui diritti umani”. (2)

Da una parte dunque l’illuminismo, con la sua “fede” nella ratio, dall’altra il romanticismo con il ritorno alla religiosità e allo “spirito della nazioni”. Questo è il vero tema prescelto per l’attuale edizione della Biennale di Venezia, tema che è possibile cogliere solo acquistando il catalogo dove compaiono con assiduità le categorie estetiche di classico/romantico; bello/sublime; visibile/non visibile; rappresentabile/non rappresentabile. Bice Curiger ha di fatto unito, esclusivamente a livello concettuale, la sua mostra con gli “anacronistici” padiglioni: il tema della nazione è e rimane molto scomodo per un curatore internazionale, ma si può proporre il termine di “comunità” al posto di quello di nazione, parlare della Biennale come di “una manifestazione che celebra la più recente arte contemporanea, e pertanto l’eterno presente, su uno sfondo storico autoritario”(3), presentare una grande immagine di Hitler che visita i Giardini.

Gli artisti sono nomadi, acquisiscono diverse identità, spesso condividono con il proprio paese solo un passaporto, ma (aggiungerei purtroppo) la struttura della Biennale è divisa per padiglioni nazionali la cui presenza (che non è possibile eliminare) diviene “un monito. Mi permette di non dimenticare il corso della storia e specialmente la storia nazionale” (4). I padiglioni dunque come elementi ingombranti, ma utili a ricordare la storia italiana, o meglio, la sua fase più cupa (sappiamo molto bene, come del resto anche Bice Curiger, che la costruzione dei primi padiglioni nazionali risale al 1907, quando venne edificato quello belga, e non al fascismo).

È in questo punto che si situa l’altro tema della 54 mostra internazionale di Venezia: la luce. Da una parte il buio dei padiglioni nazionali, vittime della loro storia, dall’altra la luce che rischiara la mostra internazionale, dove possiamo “continuare a celebrare” i principi etici dell’illuminismo, e, nello stesso tempo, essere “ispirati” dagli artisti, dando loro la possibilità di erigere i “parapadiglioni”. Oscar Tuazon, Franz West, Song Dong e Monika Sosnowska sono stati invitati dalla curatrice a costruire delle strutture di natura scultorea-architettonica che ospitassero opere di altri artisti. Franz West ha ricreato l’ambiente della sua cucina-studio viennese ponendo opere dei suoi amici artisti all’esterno (tra cui uno specchio di Pistoletto che, in questa edizione, avrà la sorte di rimanere integro): il nome del parapadiglione è infatti Extroversion. Song Dong ha ricostruito l’antica casa dei suoi genitori a Pechino, aggiungendo due piani in alto: apprendiamo che in Cina non è concesso ampliare l’altezza delle abitazioni se non per costruire spazi dedicati ai piccioni viaggiatori, che, infatti, vengono acquistati appositamente per lo scopo.

Il mio senso del grottesco prevale sul fascino melanconico dell’opera, facendomi riflettere su quanto sarebbe conveniente avere piccioni e non condoni in Italia.

Il parapadiglione di Monika Sosnowska (Antechamber) si presenta come una stella rivestita di comune carta da parati: al suo interno compare la serie Ex-offenders di David Goldblatt in cui l’artista, di origine sudafricana, ha fotografato ex-detenuti nella scena dove hanno commesso i propri crimini. Un breve testo si pone come didascalia o meglio come un racconto in prima persona.

Torniamo al catalogo: le pagine dedicate ai parapadiglioni sono stampate su una carta diversa, di colore verde e, ovviamente, sono collocate tra la fine della sezione dedicata alla mostra internazionale e l’inizio di quella dedicata ai padiglioni nazionali. Nella pagina dedicata a Monika Sosnowska è scritto, in caratteri direi ben visibili “gli artisti usano questi contesti per negoziare nuove forme di comunità e indicano che esistono voci diverse da quella del curatore”.

“Para-padiglioni”: al di là, oltre i padiglioni. Mentre i padiglioni nazionali scontano la memoria di una storia “autoritaria” e le scelte di “grigi” ministeri vengono imposte agli artisti, in ILLUMInazioni essi sono liberi di costruire strutture “private”, di “dimensione familiare” e, nello stesso tempo, di costituire le “comunità”, instaurando dialoghi privilegiati solo con altri artisti.

Tra questi compare, a sorpresa, Tintoretto, scelto per la sua “energia pittorica assolutamente anticlassica” (5) o, meglio, per il suo essere un emarginato: “gli emarginati ispiratori acquisiscono rilievo mettendo in discussione le certezze del discorso mainstream orientato al consenso.” (6) La lunga e tediosa tavola rotonda sul nostro artista veneziano del Cinquecento si conclude con un intervento di Corinne Wasmuth: “Tintoretto rispose forse alle esigenze del mercato, ma in confronto ai suoi colleghi non divenne molto ricco”. (7)

Bene, ora la presenza di Tintoretto è più che giustificata: emarginato, moderato nell’arricchirsi con le proprie opere e infine, non dimentichiamolo, pittore della luce.

Esiste davvero un dialogo tra gli artisti presenti in mostra e questo grande artista del passato? Certo, afferma Bice Curiger, basti osservare l’opera di James Turrell (Ganzfeld APANI): dopo aver tolto le scarpe e indossato degli appositi “copri-piedi” (tralascio i commenti sulle file, del resto siamo al vernissage) sono entrata in una stanza completamente vuota, inondata da fasci di luce colorata cangianti che si oscurano gradualmente. Confesso di non aver provato “un’esperienza estetica o spirituale” (come viene definita in catalogo), ma, al contrario, un dubbio: quale rimando così sottile mi è sfuggito tra questa stanza e Tintoretto?

Stessa impressione anche per l’opera di Nicholas Hlobo, artista che ho ritrovato (senza stupore) anche nella mostra presso Palazzo Grassi Il mondo vi appartiene (curata da Caroline Bourgeois), dove sembra di essere tornati di colpo alla storica esposizione del 1989 Magiciens de La Terre: una stanza è dedicata, allora come oggi, al confronto tra Alighiero Boetti e Frederic Bruly Bouabré.

Del resto il nome di questa mostra sembra riecheggiare in questa Biennale e non solo perché il suo curatore (Jean Hubert Martin) ha curato il padiglione francese, ma soprattutto nell’impostazione del catalogo: sia in quello di Magiciens de La Terre che in questo della Biennale vengono poste a tutti gli artisti presenti in mostra le stesse domande. Nel nostro caso abbiamo due novità importanti: gli artisti degli eventi collaterali sono considerati “silenti” e le domande non sono generiche sull’arte, ma insistono sull’ormai divenuto odioso concetto di nazione. La prima “la comunità artistica è una nazione?” è un utilizzo evidente del “repetita iuvant”: non solo tutti i saggi insistono sul concetto di comunità, ma ora anche gli artisti devono rendere conto di questa particolare visione. Visione che ha il merito di essere davvero democratica e, finalmente, di elargire un po’ di libertà (almeno di parola) agli artisti dei padiglioni nazionali.

Ahmed Basiouny, artista del padiglione egiziano, non ha potuto rispondere: è morto durante gli scontri di Piazza Tahrir, il 28 gennaio del 2011 per ottenere “libertà, uguaglianza e fratellanza.” Nel padiglione infatti sono proiettati i video della sua ultima performance e quelli, girati personalmente dall’artista, che riprendono gli scontri della rivoluzione egiziana.

I due artisti del padiglione americano, Jennifer Allora & Guillermo Calzadilla, non hanno risposto: forse il suono dell’organo che funziona solo con un bancomat inserito (Algorithm) e il frastuono del carro armato ribaltato che funziona come un tapis roulant (Track and Field) gli hanno impedito di sentire le domande.

Il padiglione danese ha deciso di ospitare una mostra internazionale dedicata proprio alla libertà di parola e così è stato: Robert Crumb ha affermato di non “gradire” la tipologia di domande che gli vengono presentate.

Mike Nelson, artista del padiglione inglese, ha risposto dal buio del suo ambiente, o meglio, dalla luce rossa di una camera oscura. Nelson ha trasformato l’intero padiglione britannico in una serie di stanze, di corridoi, di oggetti da lavoro disseminati a terra, di tappeti consunti: sono le stanze del Büyük Valide Han, un caravanserraglio di Istanbul del XVII secolo che è oggi occupato da laboratori di artigiani tessili. È proprio in queste stanze che Nelson, per la Biennale di Istanbul del 2003, aveva realizzato l’opera Magazin: Büyük Valide Han: una camera oscura abbandonata, con delle foto della città di Istanbul e dell’edificio stesso.

L’artista ha ricostruito questo suo precedente intervento (utilizzando, come materiale di quell’installazione, solo le fotografie) e, nello stesso tempo, ha creato anche l’ambiente in cui era posto (il Büyük Valide Han) all’interno del padiglione britannico.

La Biennale di Istanbul è giunta, per la prima volta, nella Biennale di Venezia. “Ad un livello il lavoro evidenzia la diffusione delle biennali d’arte come istituzioni. L’esportazione ad est di questo modello culturale è sottolineato da una biennale dell’Est che ritorna ad Ovest, al punto di origine dell’istituzione”. (8)

Ad un altro livello è la storia personale di Mike Nelson che è profondamente legato ad Istanbul, città che ha visitato più volte, sperando di ritrovare ogni luogo già percorso; “La città è divenuta un indicatore della mia stessa vita: io ritorno, lei è cambiata e lo sono anch’io. Ci incontriamo di nuovo ogni volta”. (9)

Infine, come non cogliere la storia stessa della città di Venezia in rapporto all’Oriente, le sue conquiste, le rotte, i commerci, le dogane (tra cui Punta della Dogana che ora ospita il Museo di Pinault) in cui arrivavano le merci dall’est?

Questi padiglioni nazionali, che ritengo i più interessanti, non sono affatto “anacronistici”: in loro il rapporto con la storia si incarna nel presente e diviene esperienza traumatica di rivoluzioni, riflessione cinica sulla “democrazia” da esportare, difficile espressione della non libertà di espressione e infine svelamento dello statuto stesso delle Biennali, unito ad una rielaborazione personale dell’anima di due città.

La ratio illuminista si è trasformata in Fede di poter indurre associazioni: la luce, il sublime, il “domestico”, e infine Tintoretto, un passato imposto agli artisti e pietrificato in un catalogo.

Lo “sfondo autoritario” di questa Biennale non è dato dai padiglioni nazionali (dai fantasmi del fascismo e dal concetto di nazione, di razza, di confine), ma si colloca in un dispotismo illuminato che concede il formarsi di comunità ristrette tra artisti, ma non il libero confronto con la cultura, con la storia e con le realtà contemporanee.

Dall’alto:

Hitler visita La Biennale di Venezia, 1934
© La Biennale di Venezia – Archivio Storico delle Arti contemporanee.

Parapadiglione di Song Dong– Disegno dello spazio centrale, 2011 © Song Dong, Courtesy of The Pace Gallery, Beijing

Monika Sosnowska, Modello di Antechamber, 2011, Foto di Monika Sosnowska ©Courtesy the artist, Foksal Gallery Foundation, The Modern Institute, Galerie Gisela Capitain, Kurimanzutto, Hauser & Wirth.

Veduta generale del Padiglione Egiziano con i video di Ahmed Basiony. Foto di Veronica Gaia di Orio

Still dal video di Ahmed Basiony girato durante le rivolte in piazza Tahir il 25 gennaio 2011. Foto di Veronica Gaia di Orio

Jennifer Allora & Guillermo Calzadilla, Algorithm, 2011. Foto di Veronica Gaia di Orio

Jennifer Allora & Guillermo Calzadilla, Track and Field, 2011. Foto di Veronica Gaia di Orio.

Vedute dell’installazione di Mike Nelson, I, Impostor, Padiglione della Gran Bretagna. Foto di Veronica Gaia di Orio