Scrive Bice Curiger, curatrice di quest’ultima Biennale, che il titolo ILLUMInazioni da lei scelto per la mostra è evidentemente “evocativo” e “stringente”: da un lato, la luce, dall’altro, le nazioni, e ci si sarebbe aspettati che i due attributi, anche al di là della mostra, venissero meglio esplicati quanto meno nel testo in catalogo.

Una prima delusione: qualche cenno a Rimbaud e a Benjamin per poi passare a stilare una sorta di comunicato stampa eloquente sostanzialmente di una certa inadeguatezza di fondo. Le nazioni che si dicono aperte, per loro natura poco inclini a configurare gli slittamenti e gli sconfinamenti odierni, restano saldamente chiuse nei loro margini, così come recita il titolo ma anche oltre. Lo stesso richiamo a Tintoretto, del quale sono in mostra tre capolavori, avrebbe potuto rappresentare il vero mainstream del percorso, eppure non si mostra sufficientemente esaustivo a porre la questione del passato che è presente, e finisce per essere un’occasione mancata. In che modo si relaziona con il contemporaneo? Se si guarda alla collocazione delle opere di Tintoretto, nella sala centrale del Padiglione, esse sono poste a fulcro della mostra come ne fossero il dispositivo irradiante (la metafora dell’irraggiamento collima con il tema della luce) e dunque le altre opere si porrebbero come inesorabilmente succedanee non solo cronologicamente ma anche nella sintassi seguita. Il che ingenera una inevitabile aporia che avrebbe imposto una riflessione più ampia. Alcuni artisti si sono cimentati nel gioco di rimandi accogliendo la suggestione di alcuni dettagli della pittura di Tintoretto, come ha fatto Monica Bonvicini in un’ampia installazione che rilegge la prospettiva a volo d’uccello delle scale del Trafugamento del corpo di San Marco. Su un diverso livello di analisi, Shahryar Nashat ha realizzato un’opera specificamente legata all’allestimento del Tintoretto in Biennale concentrandosi in yet to be titled sullo spostamento e la collocazione degli oggetti artistici e sugli apparati museografici che determinano modelli di pensiero e di movimento dello spettatore.

Se il testo di presentazione può dirsi modesto, altrettanto modesto, con qualche punta di “devianza”, appare l’impianto curatoriale nel suo insieme. Qualcuno ha invocato la leggerezza come criterio metodologico che avrebbe sovrinteso le scelte, alcune certamente interessanti ma concluse in loro stesse, nella capacità dei singoli artisti a tessere la rete dei rimandi, e non conseguentemente all’architettura complessiva che appare sfilacciata e per certi versi (a rafforzarne la sensazione è ancora lo stesso testo della curatrice) inerpicata su un’ambigua costruzione di senso. Insomma, un progetto non esattamente riuscito: un para-progetto, si potrebbe dire, e in tale ottica se ne troverebbe una possibilità di riscatto. Coerentemente con il prefisso si verrebbero infatti ad accogliere e ad enfatizzare anche i para-padiglioni affidati ai quattro artisti, Song Dong, Monika Sosnowska, Oscar Tuazon, Franz West. Questi ultimi in rapporto al percorso espositivo complessivo, ne configurerebbero in tale prospettiva una sorta di affinità, un parallelo deviato, alterato, contaminato.

Ma veniamo ad alcune opere dei ben 83 artisti invitati: nel padiglione centrale a farla da padrone è l’installazione di Maurizio Cattelan che con i suoi piccioni tassidermizzati fagocita sia pure discretamente tutto il resto. I suoi piccioni Others, benché silenti, scrutano dall’alto ed entrano nel percorso quasi ovunque. Pochi gli spazi esenti dall’intrusione e tra questi necessariamente le installazioni concluse in sé stesse che a volte insistono negli stessi spazi riservati ai parapadiglioni ufficiali, com’è il caso dell’installazione polisensoriale The National Apavilion of Then & Now di Haroon Mirza, cui è andato il Leone d’argento come miglior artista “promettente”. A proposito di premi, il Leone d’oro è stato meritatamente assegnato a Christian Marclay per The Clock del 2010 un video della durata di 24 ore nel quale sono stati assemblati spezzoni di film che narrano di un racconto sul tempo e nella cui scansione il tempo che trascorre corrisponde di fatto a quello reale per cui lo spettatore mantiene la percezione di continuare ad abitare il presente pur nel richiamo al passato. Un efficace refrain sull’assunzione della memoria filmica scandita dal tema e dal dispositivo del tempo. La memoria è anche il tema dell’installazione di Elisabetta Benassi The Innocents Abroad che svelando con i suoi lettori di microfiche il retro di centinaia di fotografie di cronaca occulta il “fronte” dell’immagine in uno straniante processo di traslitterazione. Torna con il lavoro di Karl Holnquist Untitled (Memorial) la messa a nudo delle ambiguità della memoria nel presente con un modello in scala del Palazzo della Civiltà del Lavoro all’EUR per interrogarci sulle contraddizioni di oggi e su quelle della politica celebrativa. Inoltre, con la reinstallazione di un lavoro del 1967 di Gianni Colombo Spazio elastico, presentato alla Biennale del 1968, l’istituzione guarda anche alla propria memoria in un processo certamente autoreferenziale ma anche capace di “ridare vita”, in un efficace richiamo, al suo passato.

Ancora il passato dell’arte o per meglio dire l’arte del passato si materializza nelle statue-candele di Urs Fisher, tutte a grandezza naturale, tutte illuminate dallo stoppino acceso che le consumerà per l’intera durata dell’esposizione; al centro, una candela replicante il gruppo scultoreo del Ratto delle Sabine del Giambologna, su un lato, una candela riproducente le fattezze del suo amico artista Rudolf Stingel, e sul lato opposto, un’altra scultura che è un calco della sedia del suo studio. Nel loro progressivo disfacimento celebrano la transitorietà dell’opera, il suo destino ineluttabile: non ne rimarrà che un amalgama informe. Il consumo simultaneo del passato e del presente.

Se il filo della memoria, presente anche esternamente alla mostra ILLUMInazioni in molte opere – valga per tutte la complessa macchina video filmica allestita nel padiglione francese dal “maestro” della memoria per eccellenza Christian Boltanski – sembra raccordare diverse opere quasi come luce sempiterna, rappresentando un significativo rimando al tema di fondo, molte sono le opere per così dire “isolate” che non tessono reti e consonanze, quanto meno con il filo rosso evidenziato.

A sollecitare la rete, quella però di una comunicazione allargata, è Estman Radio Drama del 2011 di Marinella Senatore, un lavoro tutto giocato sulla ricerca di una estetica partecipativa e su un altro piano, ma con premesse analoghe, deve essere letto some like it hot, il progetto performativo del collettivo Gelitin che nel corso della prima settimana dell’esposizione ha dato vita ad una performance tesa a porre in termini di criticismo la questione del territorio dell’arte e della sua definizione.

Sul terreno di una comunicazione sociale, e tuttavia intima, quasi confidenziale, si muove fuori dalla mostra ILLUMInazioni il progetto Lo inadecuado di Dora Garcia al Padiglione spagnolo. L’inadeguato consiste in un’unica “performance estesa” con un fitto programma di incontri che si svolgeranno per tutta la durata dell’esposizione e che alienano il senso di appartenenza comunitaria massificato per una comunicazione esclusiva sulla quale poggia il concetto stesso di “inadeguatezza” e nel quale andranno via via convergendo esponenti di diverse discipline accomunati da un pensiero di radicalità, esclusione, emarginazione, devianza, censura, alterità.

Mantenendoci sul piano politico ma spostandoci a quello della celebrazione dell’identità della nazione, in un’accezione criticista, attraverso militarismo, tecnologia, atletismo, moneta, questa stessa identità è glorificata nello straordinario padiglione statunitense affidato al duo Allora e Calzadilla. La questione dell’identità nazionale, dei confini, e delle idiosincrasie sottese è, su un piano diverso, al centro anche dell’installazione One Man’s Floor is Another Man’s Feelings di Sigalit Landau ospitata nel padiglione israeliano, grande metafora dell’impossibilità ma anche della necessità della speranza. Un monumento al fragile ma inconvertibile desiderio di non arrendersi.

Una tensione verso il monumentalismo aleggia, a onor del vero, in molti padiglioni ed è di grande efficacia in tal senso il lavoro Ahora estaré con mi hijo di Adrián Villar Rojas nel padiglione argentino che nel rovesciamento, nella trasfigurazione e nella coesistenza di molteplici creature e cose nelle sue grandi opere di argilla evoca quasi “una grandezza perduta” o forse “recuperata all’umanità” come lascia intendere lui stesso quando afferma: “Erigo monumenti perché non sono disposto a perdere niente”.

La liturgia della messa in un’installazione teatrale, anch’essa per certi versi monumentale, che contiene tracce biografiche esistenziali in un percorso fluxus estremamente stratificato, è la grande architettura allestita per il padiglione tedesco, cui è andato il premio come miglior padiglione, a memoria dello stesso artista Christoph Schlingensief scomparso qualche mese prima l’apertura della biennale. E ad un artista morto tragicamente è andato l’omaggio del padiglione egiziano: Ahmed Basiouny, scomparso il 28 gennaio 2011 a Il Cairo, nel “venerdì della collera” in piazza Tahir nel corso della rivoluzione egiziana che in presa diretta filmava. Un anno prima della rivolta Basiouny aveva lavorato al progetto 30 Days of Running in the Place consistente nel correre all’interno di una struttura quadrata indossando un abito di plastica dotato di sensori capaci di rilevare i suoi stessi consumi energetici che poi venivano tradotti in colori su un grande schermo. L’installazione nel padiglione affianca alla proiezione di questa performance dei filmati relativi alla rivolta egiziana nei giorni immediatamente precedenti la morte di Basiouny scompaginando i confini tra arte, vita e morte. Qui, sì davvero la cronaca stringente dei fatti ci confronta direttamente con la realtà, scansandone i para, i prefissi tutti, in un corpo a corpo con il coraggio e il rischio dell’impegno, nell’audace convergenza della pratica documentaristica con l’arte.

Dall’alto:

Maurizio Cattelan, Turisti, 1997. Taxidermized pigions, Environmental dimension. Courtesy of Maurizio Cattelan Archive

Christian Marclay, The Clock, 2010. Edition of 6 Single-channel video. Duration 24 hours. Installation view: ILLUMInazioni, 54. Esposizione Internazionale d’arte- La Biennale di Venezia Photo: Francesco Galli. Courtesy: la Biennale di Venezia.

Elisabetta Benassi, The Innocents Abroad, 2011. 9 motorized microfiche players, microfiches, tables, electrical lamps, electronic unit, electrical wires. Each unit:140 x 100 x 100 cm ca. Microfiche sheet (single frame), detail from the installation. Courtesy the artist and Magazzino, Rome.

Haaron Mirza, The national apavilion of then and now, 2011. Installation view: ILLUMInazioni,  54. Esposizione Internazionale d’Arte – la Biennale di Venezia. Photo: Francesco Galli. Courtesy: la Biennale di Venezia

Gianni Colombo, Spazio elastico, 1967-68. Fluorescent elastic bands, electrical engines, Wood’s lamp 400x400x400 cm. Courtesy of Archivio Gianni Colombo, Milano

Dora Garcia, Lo inadequado, 2011. 2 giugno 2011, Una conversazione tra Nanni Balestrini, Marco Baravalle, Dora García. Padiglione Spagnolo. 54. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia

Allora & Calzadilla, Gloria. Performance all’ingresso del Padiglione statunitense. U.S.Pavilion, 54. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia