Un incontro con Simon Njami.
Dopo aver passato qualche giorno di spaesamento tra gallerie, musei e spazi temporaneamente dedicati dalla capitale senegalese all’arte contemporanea, incontro Simon Njami nella terrazza dello splendido Hotel Savana, lussuoso rifugio per turisti facoltosi e pezzi grossi locali sulla costa dakarese.
Davanti a un globalissimo succo d’arancia e con il rumore del mare di sottofondo passiamo quasi un’ora a conversare, divisi da un tavolino e da un paio di occhiali da sole neri che Njami indossa e che, mi avvisa, rimarranno proprio lì sul suo naso. La videocamera che ho acceso per registrare l’intervista dovrà accontentarsi così.
E dovrò accontentarmi anche io, perché alla mia domanda su “cosa ne pensi Simon Njami dell’edizione di quest’anno della Biennale di Dakar” non riceverò alcun commento ufficiale, se non una profetica scrollata di spalle.

Lucrezia Cippitelli: Passiamo a te ed alla “Revue Noire”…
Simon Njami: Dopo due dottorati, una “vita precedente” dedicata alla scrittura (ho pubblicato sei romanzi), mi sono avvicinato, casualmente, al tema della cultura africana contemporanea durante un’intervista radiofonica nel 1985, per la pubblicazione di un mio romanzo. L’intervistatrice che mi ospitava mi ha parlato del suo interesse per l’Africa e del suo impegno a fianco degli africani bisognosi, chiedendomi cosa ne pensassi.
Io le ho risposto che il problema in questi termini non mi interessava. Ciò che mi interessava, piuttosto, era far circolare ciò che pensano gli africani oggi.
È nato così un primo progetto chiamato “Etnicoleur”, nel 1987, un festival che ospitava cinema, teatro, mostre, workshop. In questa occasione ho pubblicato un lavoro collettivo che si occupava della creazione africana contemporanea: cinema, arte, musica, architettura… Ero ancora scrittore all’epoca, ed ho discusso con colui che si è occupato dell’architettura in questa pubblicazione su cosa si potesse fare perché l’Africa che ci era mostrata non fosse necessariamente solo quello che ci veniva mostrato. Volevamo mostrare la nostra Africa, quella che noi conoscevamo. In primis abbiamo pensato a una galleria, ma l’idea si è dimostrata troppo difficile. Così abbiamo optato per una rivista, che abbiamo chiamato “Revue Noire”. Un omaggio alla “Revue Blanche”, rivista francese degli anni Cinquanta, e soprattutto un omaggio a Josephine Baker, alla Parigi degli Anni Trenta, dove si parlava di “revues negrès”.
Volevamo una rivista che mostrasse l’Africa che ci assomiglia. 
Eravamo interessati alla creazione africana contemporanea ed alla sua visibilità: non al fatto che la cultura africana tout court potesse essere visibile in Europa: questo di fatto avviene da sempre, ma è un campo specifico di etnologi ed antropologi e non degli storici dell’arte.
Mi interessa piuttosto la sua visibilità qualitativa, al come l’Africa venisse interpretata. Il nodo concettuale della “Revue Noire” era evitare qualsiasi particolarismo logico: il particolarismo fa parte della tradizione filosofica europea e non è una visione “contemporaneista”.
Uno dei principi che abbiamo difeso è che nella tradizione culturale africana non esistono le “Belle Arti”. Un esempio: le maschere africane in mostra al Louvre non erano concepite per essere esposte in una vetrina, ma per essere indossate. Ed erano indossate con dei costumi, e questi costumi servivano per ballare, e dunque prevedevano la presenza della musica, che serviva anche per cantare, e poiché il canto è un testo prevede l’intervento della letteratura…
L’ambizione della “Revue Noire” era dunque evidenziare questa complessità che concorre a definire la creazione africana.
In secondo luogo tenevamo a mostrare che l’Africa non è uno spazio concluso entro un confine: non c’è bisogno, o non è sufficiente, nascere in Africa per essere africani, molte persone che possono essere definite africane possono essere nate altrove.
Esiste un dibattito sull’autenticità che tenta di regolare l’attribuzione dell’identità di africano: partendo da questo dibattito abbiamo voluto decostruire le definizioni comuni, evitando nello stesso tempo di imporre una nostra definizione corretta. 

L.C.: Trovo molto interessante il fatto che la ricerca che avete proposto abbia in qualche modo anticipato la diffusione dei dibattiti socio/culturali legati ai temi della globalizzazione dell’identità culturale dei Paesi che in Occidente sono definiti come Sud del Mondo (il primo numero della “Revue Noire” è del 1991).
S.N.: Post Colonial Studies…

L.C.: Ricollegandomi al concetto diafricanità mi interessa sapere dove ti sei formato: faccio questa domanda perché spesso in Europa conosciamo solo quegli artisti o intellettuali africani che risiedono o sono legati in maniere diverse all’Europa. 
La redazione centrale della “Revue Noire” è infatti a Parigi.
S.N.: Sono nato a Losanna e negli anni successivi ho studiato in diverse università di Parigi…

L.C.: …una storia personale che quindi coincide proprio con quello che hai appena detto a proposito dell’essere africano. Una formazione europea che non esclude (e forse in qualche modo favorisce?) il senso ad appartenenza.
S.N.: Esatto. Mi diverto molto iniziare le mie conferenze affermando di essere svizzero… 

L.C.: Trovo carica di aperture l’ipotesi di dislocazione geografica – non appartenente al solo continente – dell’identità culturale africana.
S.N.: Il fine della rivista e tutto il lavoro che tento di fare da allora è appunto finalizzato a contestare l’evidenza, e a dimostrare un concetto in realtà semplice: non tutto è come sembra e le cose sono sempre più complesse di quanto appaiano.
Sono convinto che l’Europa sia africana tanto quanto l’Africa sia europea.

L.C.: !
S.N.: Come spiegheresti altrimenti il fatto che in certi stati africani si parla francese ed in altri ancora portoghese o inglese? Di fatto questa realtà crea una nuova africanità, tangibile e reale: è proprio lì nel continente. 
Di fatto non si sa molto dell’Africa: la più parte degli africani sa molto di più dell’Europa di quanto gli europei sappiano dell’Africa. I Paesi europei hanno accolto persone provenienti da tutta l’Africa e ne hanno in qualche modo raccolto e integrato le loro storie, che hanno in qualche modo creato l’Africa.
Ed aggiungo anche una mia posizione, forse troppo intellettuale: chi vive in Africa, e non ne è mai uscito, non può parlare dell’Africa. può parlare del suo villaggio o del suo quartiere forse, ma l’Africa è un’entità difficile da racchiudere a parole, ed è ancora di più difficile da conoscere dall’interno. Io mi muovo verso un qualsiasi stato del continente, dall’Europa, meglio di un abitante del continente. E’ un problema di comunicazioni e di infrastrutture, che mi ha permesso di girare l’Africa e di conoscerla più a fondo di chiunque, da qui, avesse tentato di fare lo stesso.
Molti in Egitto, per esempio, non sapevano dell’esistenza della Biennale di Dakar; questo è un fatto che non denota la povertà del mondo culturale egiziano, ma piuttosto una concreta difficoltà di comunicazione all’interno del continente.

L.C.: A proposito, mi sono molto piaciuti i lavori degli egiziani al CICES.
S.N.: Sono bravissimi… A differenza di molte altre cose che ho trovato qui, rivendico in pieno il loro lavoro…
Comunque, dicevo che anche l’africano stesso è veicolo di un’idea di africanità che non esiste. Uno stereotipo romantico e irreale.

L.C.: Gli africani e non gli europei…
S.N.: Gli europei certamente, ma anche gli stessi africani.
Del resto chi e cosa è autentico in questo continente? Coloro che sono nati qui, ed hanno la pelle bianca, e ci vivono da generazioni, sono molto più africani di me… Ecco ancora uno degli aspetti che rendono complessa la questione.
Per questo mi piace parlare degli artisti africani riferendomi alla loro storia personale, all’individuo, e non al retroterra globale, che portano con sé. Preferisco parlare di un artista “senegalese” piuttosto che di un artista africano. O ancora meglio, “dakarese”, distinguendo magari da quale quartiere proviene…
Vorrei insomma che fosse sottolineata la complessità di questo continente, onde evitare che qualcuno ancora mi chieda: “scusa che parli africano?”.

L.C.: Imbarazzante…
S.N.: Anche stupido direi. Ma tant’è esiste gente che crede nell’esistenza di una lingua africana. O che parlando di Africa non pensa al Nord Africa, che è totalmente diverso dal resto del continente, eppure è Africa…
Mi sento parte di ogni Paese di questo continente, quando ci vengo, eppure me ne sento totalmente distante. Lo stesso mi succede in Europa: per questo mi sento in grado di parlare di Africa e di essere super partes.
Credo che la questione della creazione africana contemporanea sia interamente incentrata sul problema del mercato e della visibilità. nel mondo globale visibilità e mercato non passano per l’Africa: la Biennale di Dakar, come la Biennale della fotografia di Bamako che dirigo, non sono altro che degli strumenti per essere visibili nel contesto internazionale. E’ evidente che se un artista ha una mostra al Centre Pompidou, o al Guiggenheim o al MoMa avrà seguito e successo nel mercato internazionale; l’Africa è invece incapace di pesare sul mercato dell’arte. Ogni artista africano si batte per arrivare alla Biennale di Venezia o alla Documenta: la porta verso il successo che passa attraverso l’imbuto del giudizio totalmente soggettivo occidentale. 
Non si può parlare di creazione senza prendere in considerazione il contesto sociale ed economico in cui questa avviene: gli artisti africani non hanno coscienza di questa drammatica complessità che pesa su di loro.
Io mi sento un po’ il fratello straniero che può aiutarli perché vive in un terreno neutro i cui può osservare, senza essere coinvolto direttamente, certi meccanismi.
Per questo credo che il progetto della “Revue Noire” non potesse che essere ospitato da una città come Parigi. 
Non ho mai indossato un Boubou, non ho mai fumato una lunga pipa o fatto, a piedi, decine di chilometri ogni giorno per procurarmi l’acqua: queste sono certo verità africane, ma dare questa sola immagine dell’Africa significa escludere tutti quelli che invece vivono per esempio con l’elettricità. Ho fatto un esempio materiale ma potrei farne di immateriali: odio quell’educazione molto elegante che porta gli europei a dire “hanno una forma mentale diversa dalla nostra”…

L.C.: Oppure dire “sono meno complessi”…
S.N.: Significa, in realtà “sono stupidi”. E’ una vera arroganza. Bisogna convincersi che non bisogna indossare certi abiti per comprendersi: basta solo comunicare. Lo choc culturale provocato dal dialogo, o dal conflitto anche, tra due individualità diverse è il vero momento magico.
Anche due fratelli possono non vedere le cose nello stesso modo: il loro incontro genera discussioni, approfondimenti, idee.
Tutto ciò che ho fatto o scritto in questi anni era finalizzato a produrre senso, costruire dei mezzi che distruggessero il pensiero unico, che impedissero che solo qualcuno abbia i mezzi per raccontare l’altro.
Ho insegnato per un periodo negli Stati Uniti e mi sono molto divertito a decostruire il pensiero monolitico dei miei colleghi, carico di a priori su ogni argomento. Mi sono poco a poco abituato a credere di più a ciò che vedo piuttosto che a ciò che credo di sapere in anticipo. Credo che con queste basi il dialogo, l’incontro o lo scontro su uno stesso terreno di discussione sia un valido mezzo di conoscenza.
Ricordavo spesso ai miei studenti la Conferenza di Hegel, 1830, per l’Introduzione alla Storia della Fisolosia, in cui diceva ai suoi allievi che l’Africa è un continente astorico che deve essere considerato alla soglia della civilizzazione. Amo far notare quanto il concetto di civilizzazione sia una nozione soggettiva e chiusa: per l’Africa basterebbe ricordare i Mandingo o gli Zulu. Ed al contrario basterebbe ricordare quanto il concetto di “Universalismo illuminista” fosse relativo a quattro paesi europei, e di come sia poi stato usato come giustificazione intellettuale per il Colonialismo.
Comunque ricordando Hegel ai miei studenti, raccontavo la storia di un filosofo, africano, che un giorno, nel 1830, in occasione della sua Introduzione alla Filosofia della Storia, raccontava ai suoi allievi che l’Europa è un continente astorico che può essere considerato alla soglia della civilizzazione. Ricordavo poi che, in quanto filosofo puro, il nostro filosofo africano non scriveva, ma lasciava che il suo pensiero fosse tramandato oralmente o pensato: dunque tutto ciò che ci è rimasto è il pensiero del Signor Hegel.
Lo stesso discorso varrebbe per la così detta “Scoperta dell’America”: mi piacerebbe tanto avere la versione indigena della storia. Purtroppo sappiamo che questa non esiste.
Viviamo in una civiltà globale che vive sui pensieri “taglia e incolla”, senza interrogarsi sul loro vero significato, e che si veste nella stessa maniera.
La cultura è in realtà la traduzione delle emozioni umane: vorrei che l’interpretazione della creazione artistica fosse ricondotta a questi elementi primari, individuali ed umani di un artista,

L.C.: Credi che l’arte contemporanea possa essere considerata una sorta di koiné linguistica in grado di dare voce a queste esperienze individuali dislocate nel mondo?
S.N.: Non voglio che il mezzo venga confuso con il messaggio. Il linguaggio dell’Arte Contemporanea è uno dei linguaggi possibili dell’espressione artistica. Ma contemporaneo significa anche ciò che vive parallelamente, e cioè contemporaneamente, a noi anche in un altro spazio geografico e quindi culturale. E quindi non implica l’uso esclusivo di un medium.
Sto preparando una mostra itinerante, “Africa Remix”, in cui presento 88 artisti provenienti da tutta l’Africa, in cui dimostro proprio che non esiste un’unicità di linguaggi contemporanei africani, ma che nel continente convivono pittura tradizionale, scultura, video fotografia ecc.

Simon Njami è uno dei più autorevoli studiosi della creazione africana contemporanea (termine da lui stesso usato). Camerunense di origine, svizzero di nascita e parigino d’adozione, vive e lavora tra Parigi, New York e Losanna.

Dopo un dottorato in legge, uno in lettere e una “vita precedente” dedicata alla scrittura (sei romanzi all’attivo), è ora curatore, critico, professore universitario e scrittore.
Simon è stato per 12 anni caporedattore della “Revue Noire” ed ora dirige la Biennale di Fotografia di Bamako, Mali, la cui prossima edizione è fissata per novembre 2005.

Oltre ai Rencontres de la Photografie Africainedi Bamako, Njami curerà nei prossimi mesi Africa remix, enorme esposizione dedicata all’arte nel continente africano che sarà ospitata a Dusseldorf, Londra, Parigi e Tokyo tra luglio 2004 e ottobre 2005. Tra gli altri progetti, sempre dedicati alla cultura africana contemporanea, si ricordano la cura di una mostra di fotografia africana contemporanea alla Biennale di tel Aviv/Israele (settembre 2004) ed alla Biennale di San Paolo/Brasile nel novembre-dicembre dello stesso anno. E’ inoltre in progettazione una nuova biennale di arte africana, che Njami sta proponendo e dirigerà nell’autunno del 2005.

Revue Noire

“Et si les AUTRES CULTURES que l’on croyait ailleurs et exotiques étaient, là-bas comme ici, tout aussi modernes et urbaines ?”
Il primo numero della rivista è datato primavera 1991, con un’uscita monografica su Londra Africana. Da allora i numeri della rivista sono stati pubblicati regolarmente fino al 1999, dedicando ogni uscita a un tema, una città o un artista.
Il sito della Revue (www.revuenoire.com), che contiene l’archivio dei numeri passati, è ora la vetrina delle pubblicazioni delle Edizioni Revue Noire.

Africa Remix

Si terrà fino all’11 novembre 2004 la mostra organizzata da Simon Njami ( e curata da un team internazionale di curatori tra cui Jean-Hubert Martin) al Museum Kunst Palast di Düsseldorf, che si sposterà poialla Hayward Gallery di Londra (10 febbraio-17 aprile 2005), al Centre Pompidou di Parigi (25 maggio – 8 agosto 2005) ed al Mori Art Museum di Tokyo(febbraio-maggio 2006).