Diversi atteggiamenti accompagnano il problema dei diritti di immagine, problema che comunque è sul tavolo in tutte le società del globo. L’immagine, come la musica, ha vissuto con l’epoca digitale una fioritura di repliche e clonazioni, spesso illegali. La logica occulta di questa illegalità è economica e non coincide con il recupero e la citazione di per sé.
Per la prima parte: cfr. Luxflux.net #5
Non è meno educativo osservare cosa succede con i font: i caratteri tipografici. I font un tempo si compravano in costosissimi fogli trasparenti e, se la dimensione era sbagliata o non ti piaceva come veniva il lavoro, dovevi tornare nel negozio di grafica e venderti l’altro rene per acquistare una diversa dimensione o un diverso typeface di trasferibili Letraset – i migliori. Oggi, se proprio non ci dovessero bastare le decine di font presenti già nello stesso computer che abbiamo comprato, migliaia di altri tipi di font si possono scaricare gratis in vari siti dove gli stessi autori del carattere li pongono alla pubblica attenzione. Qual è il trucco? A volte quelli che puoi scaricare non sono tanto completi quanto le versioni poste in vendita (mancano alcune lettere accentate o i caratteri speciali); altre volte l’autore si premura di dire: “se il mio carattere lo usi per i fatti tuoi va bene, ma se lo usi commercialmente, mi dovresti pagare i diritti che, dai, non sono poi così esosi”.
E qui sta, daccapo, il problema: se lo usi commercialmente. Alla faccia della proprietà intellettuale.
Certo: se il tuo lavoro trova forma in un testo copiabile all’infinito, da una parte hai il vantaggio di accedere a una platea virtualmente globale, ma dall’altra hai il diritto di proteggere il tuo lavoro da chi non si fa solo spettatore e, come tale: apprezza, approfondisce, divulga e sostiene. L’autore ha diritto a tutelare il suo lavoro da vari tipi di cattivo riutilizzo. Qualche esempio:
A) quando qualcun altro lo usa per accorciare e semplificare la propria strada verso l’ideazione, quale che ne sia l’esito economico (plagio).
B) quando qualcun altro lo usa per riempire gratuitamente di contenuti una propria “vetrina” commercialmente redditizia ma vuota (clonazione).
C) quando qualcun altro lo utilizza per recare danno o frodare altri non in proprio nome, e così anche recar danno all’autore dell’opera (falso ideologico). Eccetera eccetera.
Alcuni, pochi, lavori nascono tecnicamente predisposti contro alcuni di questi rischi (cd e dvd con codici anticopia e antiinvasione, ecc) ma gli altri oggetti, in fondo, sono solo veicoli di diffusione per lo sforzo creativo di un gruppo di persone non esclusi i tecnici, i produttori, i grafici e così via.
Posso io/legge vietare che si cloni un cellulare o una carta di credito che veicolano dunque informazioni e denaro privati ad uso privato? Sì: devi, si dirà. Posso io/legge ostacolare la comunicazione della conoscenza ivi inclusi i testi stessi di cui è composta questa conoscenza? Pertanto informazioni e valori del tutto pubblici, anzi democratici? No: si dirà, non devi; né posso, aggiungo io. Ma, diamine, c’è un limite a tutto. Peccato che questo limite oscilli a seconda del target, dal periodo economico, del luogo di produzione e diffusione. Mi spiegava un editore che, sotto una certa soglia di prezzo, i libri “se li comprano”, sopra tale soglia “se li fotocopiano”. Ma vorrei far notare che la questione è ancora un’altra.
Finché diffondere equivale ad evangelizzare, nessuno mai chiederà un tallero per ogni citazione dalla Bibbia. Non appena, però, il Verbo Unico viene meno, non appena il pluralismo e la democrazia si inverano – chissà perché – nella logica dell’economia di mercato, ogni informazione diviene una forma di follow up della vendita, optional del bene o servizio acquistato, branch del customer care. E scambiarsi queste informazioni sembra divenire illegale come forare un acquedotto e irrigare nascostamente il proprio orto. Come scaricare sul proprio conto in banca gli interessi passivi di una somma gigantesca sottratta e poi resa mezz’ora dopo, da un hacker old style alla multinazionale prescelta. E no. Questa circolazione non è interesse privato o, se lo è, non lo è solamente. Come il rito protestante: officiato dai fedeli stessi. Ci sarà una via di mezzo fra l’ecumenismo del pensiero unico e l’isteria da cortiletto recintato?
Prendiamo il web. Cosa sono i blog? Che sono le chat e i forum? Finestre, gigantesche finestre nelle quali alcune informazioni passano ed altre no. Passa ciò che sta a cuore ai più: dunque tutto e il contrario di tutto. Ma questo ammasso virtualmente amorfo nasconde un pregio: la virtuale estensione degli oggetti d’attenzione al di là degli interessi delle nicchie di mercato. Posso far conosce un aerografo a un fabbro e un mandala ad un ingegnere. Quel che la gente si scambia è conoscenza: tradotta in termini effusivi, affettivi, si dirà. Allora? Quando è strapieno e saturo il mercatone dell’offerta commerciale e nominalmente anche di quella culturale, quando gli idoli si moltiplicano fino a non starci più nel tempio, il culto torna a farsi domestico. E la comunicazione, intasata nei media lineari (le pagine del giornale, le fasce orarie della tv) tracima nella rete delle reti: nella multidimensionalità le cui gerarchie sono, per ora, poco visibili e si chiamano “terze parti”.
Certo: la vita è altrove rispetto al web, forse, ma ciò che anima la vita vera può certamente venire da lì. Se nel mio tempo libero, o mentre lavoro, sento solo gli mp3 che scarico dalla rete è segno che il mio rapporto col web non è solo virtuale. Se infatti è stato messo il tassametro ai siti come Napster e se non si trova quasi più un mp3 gratuito sarà anche perché si è capito che la finestra poteva essere trasformata, appunto, in vetrina. Ma questo è sempre il pensiero dirigistico del “comprate il mio prodotto”. Se la prestazione d’opera intellettuale fosse correttamente inscritta nella società in cui viviamo non si cercherebbe di spingerne artificialmente il flusso nel tentativo di monetizzarlo: si sarebbe perfettamente a posto a seguito del riconoscimento di tale prestazione d’opera.
Quando ci passiamo di mano in mano un suono o un’immagine, quando ci passiamo di bocca in bocca una nozione, oltre a renderla più incerta e quindi personalizzata e vibrante dell’urgenza di una verifica, la riportiamo in vita come cultura viva, proprietaria di chi l’assume e l’accetta o la rifiuta e nel farlo l’approfondisce. Non come le collane di libri acquistati e non letti che, per quanto detenuti, non sono mai del tutto posseduti.
Tornando a noi, gli esecutori possono allora ben costruire il proprio edificio (sonoro se rientriamo nell’esempio della musica) con lo spoglio delle costruzioni altrui, esattamente come gli architetti dell’antichità (a Roma le basiliche cristiane sono costruite con tonnellate di materiali marmorei di recupero: lavoro manuale e lavoro intellettuale imperiali): basta dare a Cesare quel ch’è di Cesare: cioè informando l’utente (lettore, ascoltatore, spettatore) di ciò che lui/lei potrebbe essere interessato ad approfondire. Il testo trova altrove la proprio redditività e nel suo trascorrere attraverso la società si fa contesto, prende valore di reference, si ipertestualizza, si apre volontariamente e rinvia esplicitamente ad altro da sé. Ogni testo lo fa, più o meno, anche senza volerlo: tuttavia il testo visivo contemporaneo prende coscienza del suo statuto reticolato e se ne appropria sfruttandone le potenzialità strutturali e comunicative.