Visita al Campo Rom Casilino.
Jusuf incontra e parla con alcuni rom bosniaci.
C’è un incontro allargato e un mercatino fino al tramonto quando tutto resta illuminato solo dai fuochi.*

Simonetta Lux: Hai parlato con molte persone, seduto intorno con loro. Hai acquistato alcune cose…. Gli scarti di Roma, le cose della strada, le cose raccolte dai rom.
Qual è il tuo rapporto con i paesi europei?
Jusuf Hadžifejzović: Per qualcuno che, come me, viene da un paese povero, molto povero (la Bosnia i Herzegovina, Sarajevo), è più facile individuare il valore della materia, ma anche quello delle cose che si trovano per strada… Ho cominciato a pensare al valore quando sono entrato nel campo rom, trovando molte cose lì intorno: questo è stato il mio primo punto di osservazione, il mio primo “film”, primo livello di una archeologia.
È l’archeologia di oggi, di questo momento, ciò che gli zingari trovano e raccolgono, qualcosa che per gli altri non ha alcun valore. Ma questi oggetti erano usati prima.
Questi oggetti sono stati prodotti da mani di uomini, uomini di oggi: sono i prodotti fatti dall’uomo contemporaneo.
Io colleziono questi oggetti in quanto informatori circa i loro possessori originari.

S.L.: Cosa hai pensato?
J.H.: Io penso che sia possibile usare questi oggetti per realizzare installazioni, piccoli altri oggetti, metterli insieme nel contesto di una galleria o di un museo. Questi oggetti hanno la possibilità di cantare quando li poni insieme, e di portare il canto dei precedenti utilizzatori e realizzatori.
Io vorrei metterli insieme combinandoli con altri cose o altri oggetti trovati, nel tentativo di raccontare il passare del tempo e di costruire qualcosa.

S.L.: Costruire cosa?
J.H.: Costruire dei significati che saranno importanti per il nostro futuro.
Talvolta gli oggetti che trovo hanno la stessa forza delle reliquie. E questi oggetti possono diventare di qualcosa: dipende da come li trovo e da dove li colloco.
Le bambole le ho trovate su un banco e le considero come delle reliquie di oggi, del tempo attuale. Erano vendute da bambine e ragazzi che giocavano lì per terra, in mezzo alla strada: le avevano dimenticate. Questo ha avuto un grande impatto su di me.
Questa è la ragione per cui le scelgo e per cui le pongo in relazione ad altri oggetti: per costruire nuovi significati, che si materializzano nello spazio vuoto potenziale di una galleria o di un museo. Ho un grande desiderio di mostrare questi oggetti ad altri, insomma di fare la arte e offrirla agli altri. Ed è importante dire che io non intervengo mai sull’oggetto trovato; intervengo solo ponendolo insieme ad altri, nel contesto del museo o galleria, costruendo un’associazione tra cose.
È questa associazione che dà l’idea del tempo che è passato, di eventi che rinascono, e questo li rende un flusso verso il futuro.
Sono contro l’idea di attendere l’ispirazione, perché il nostro contesto ambientale è ricchissimo di potenzialità, di idee, anche connesse con la nostra realtà attuale, ed è una buona opportunità lavorare in questo campo e in questo modo.
È per questo che cambio sempre “studio” perché questa realtà, questi ambienti, sono il mio “studio”.
Così il mio modo di vivere è iscritto nel mio fare arte.

S.L.: E quello?
J.H.: Guardavo un pullover bianco lentamente bruciare e in quello stesso momento si creò una straordinaria immagine di impatto fortissimo: quell’immagine mi riportò agli oggetti distrutti durante la guerra e nello stesso tempo mi disse qualcosa riguardo alla nostra vita che scorre, riguardo al non senso che ci circonda. Come la nostra realtà, che ci fa venire la pelle d’oca.

S.L.: …?!…
J.H.: In tutta la mia vita ho imparato a produrre arte dalle più normali situazioni che mi si costituivano intorno, o dagli uomini, o dalla natura stessa.
Talvolta io mi chiedo chi mi ha guidato verso queste piccole cose, perché spesso le piccole cosa diventano grandi miracoli, o delle scene uniche, o cose irripetibili.

S.L.: Chi ti ha guidato? Che cosa?
J.H.: Io non lo so, ma è stato il mio leggero modo di vivere, di sentire qualcosa più grande di me che mi ha condotto là.
Per esempio è molto difficile a Roma, a Belgrado, dove ci sono milioni di persone, di eventi, di offerte, e trovare lì in mezzo qualche piccola cosa, qualche irripetibile miracolo.
Talvolta penso che è facile che queste cose mi accadano, perché io non ho grandi ambizioni… Per esempio, quando io sono lì, non c’è nessun altro in concorrenza con me, qualcuno che desideri essere proprio lì.

S.L.: Ma…… un’arte della fuga?
J.H.: Io sono interessato a fare qualcosa che non interessa a nessun altro.
Quando sei rilassato, e senza aspettative, cose e segni ti appaiono inaspettatamente.
Allora io uso queste situazioni come fonte per le mie perfomances, installazioni, creazioni di oggetti e assemblaggi di oggetti.

S.L.: Qual è il tuo progetto per Roma?
J.H.: Roma depot.**

S.L.: Da quando lavori così?
J.H.: Dal 1984, quando feci il Zenica depot, in Bosnia Erzegovina. In verità avevo fatto altre installazioni simili con la stessa concezione, ma quella è stata la prima volta che le ho chiamate depot. La realizzai nella Zenica City Gallery. Era curata da Nermina Zildzo, una giovane curatrice.

S.L.: Che Depot? Deposito di che cosa?
J.H.: Andai nella galleria senza niente e trovai delle cose: tavoli con coperte rosse; tubi per diplomi, anch’essi rossi, che nessuno aveva consegnato a coloro che li avevano conseguiti; un libro sulle tasse della Yugoslavia; due pezzi di legno con tacche che erano stati usati per allestire quadri; due basi cubiche per collocarvi sculture/ritratto; una scala a soffietto; un’urna elettorale. Poi portai dalla scuola d’arte di Sarajevo 13 occhi giganti di gesso e la Maschera funebre di Beethoven, e di questi oggetti feci il mio primo “depot”.
Usai anche del carbone, in quanto Zenica era una città industriale specializzata nella produzione di acciaio.
Chiesi al direttore della Galleria: perché tutti questi oggetti, coperte da tavolo, tubi porta diplomi, album e registri vari, sono tutti rossi? E mi spiegarono che questa era una galleria di Stato, e che lì durante il giorno si facevano le mostre e di sera si facevano le riunioni dei dirigenti del partito comunista iugoslavo (come noto, era il solo partito in Jugoslavia).
Alla base del mio lavoro sta la volontà di costruire una specie di “altare” trovando oggetti nella galleria stessa e/o nel suo deposito, ma anche oggetti estranei alla galleria d‘arte o all’arte stessa, per metterli a confronto con quelle sculture di gesso (i grandi occhi) che ho portato lì e che rappresentavano qualcosa che vede tutto, una divinità. Un sentimento che simbolicamente era più forte del senso di potere del partito stesso, come metafora dei testimoni che vedono tutto.
Posi la maschera funebre di Beethoven come segno-memoria di quella che è un’arte per sempre, come la sua musica. La scultura calco del suo volto era collocata dentro la base rovesciata, mezza dentro e mezza fuori là dentro dove il cubo è vuoto: il capo di Beethoven coi suoi tipici capelli poggiava per terra su un cuscino di carbone, quasi come in un sarcofago semiaperto.
L’installazione dei 13 occhi era collocata a triangolo da terra: 6+6 occhi come base, la scala aperta al centro; sull’apice del triangolo il tredicesimo occhio; sotto la scala aperta, appoggiato a parete, il vetro di una finestra che avevo tratto dal deposito e che era lì scartato e sostituito solo perché macchiato di schizzi di ridipintura delle pareti. Avevo voluto indicare uno spreco ed in generale l’attitudine ad un consumo inutile.

S.L.: Quando e perché sei arrivato in Europa?
J.H.: La prima volta andai in Scozia 1973, invitato a partecipare ad una mostra alla Kelvin Hall, Young European artists from Europe.

S.L.: Allora eri conosciuto?
J.H.: Il professore della mia Scuola di arti applicate mi selezionò per quella mostra.

S.L.: C’era circolazione delle idee allora?
J.H.: Il mio lavoro interessò perché era molto accademico (olio su tela su carta).
La gente fu sorpresa per la sua qualità. Ma quando arrivai in Scozia scoprii, di fronte a lavori multimaterici fatti dai miei coetanei, che l’arte si poteva fare con qualsiasi cosa.
Fui poi invitato da Klaus Rinke alla Staatliche Kunstakademie di Düsseldorf.

S.L.: E c’era Beuys.
J.H.: Sì, era molto amico di Rinke e lo incontrai spesso.

S.L.: Eri un artista già conosciuto..
J.H.: Era il periodo della Transavanguardia e dei Neue Wilde.
Io in verità ero disturbato da questa situazione europea, perché in quel periodo facevo in opere minimal, e continuai lì in Accademia, dopo aver rotto con l’Accademia di Belle Arti di Belgrado.
Nel 1980-82 partecipai alla mostra collettiiva di fine anno ed esposi con la classe di Klaus Rinke.
Presentai un’opera per così dire minimal (pittura bianca su plastica) ed era scritto: “When somebody understand nonsense as a reality from that time he start to live with this reality” (Wenn man begreif sinloss wie eine Tatsache den man beginnt zu leben mit dieserTatsache).

S.L.: Poi sei tornato in Jugoslavia.
J.H.: Sono stato un anno al servizio militare. Allora iniziai a lavorare alla Jugoslavian Dokumenta. Cominciammo nel maggio 1984; 120 artisti nel Caffè Club del Collegium Artisticum, che era il più grande spazio per l’arte contemporanea nella Bosnia Erzegovina di allora.

S.L.: Quali sono i tuoi rapporti con l’Europa allo scoppio della guerra, nel 1992?
J.H.: La guerra cominciò in Bosnia Erzegovina nel 1992 ed io andai come rifugiato in Belgio.

S.L.: Perché?
J.H.: Perché era cominciata la guerra, perché non volevo essere ucciso e non volevo uccidere nessuno. Mio figlio, mia moglie… Andammo in Belgio come rifugiati, lì ero già stato invitato un anno prima della guerra. Rimasi fino al 1997. Quell’anno rientrai nella collettiva Meeting point organizzata dal Soros Center for Contemporary Art in Sarajevo e feci una performance, Big Sarajevo Depot.

S.L.: È stato un periodo importante, non è vero?
J.H.: Sarebbe molto lungo parlarne: allora ho come ricominciato da zero. Non avevo nulla del mio lavoro passato, nulla. Ma ne parleremo un’altra volta.

S.L.: Quando hai iniziato i tuoi progetti per Sarajevo, data la situazione che si determinò dopo la fine della guerra?
J.H.: In primo luogo, voglio ricordare che prima della Guerra avevamo Jugoslavian Dokumenta, un progetto di tre anni nel Collegium Artisticum.
Dopo, nel 1987, facemmo la Jugoslavia Dokumenta Biennale, e continuammo nel 1989. C’era il progetto di fare la terza Biennale, che avrebbe dovuto essere internazionale: ma la guerra ci bloccò il progetto e le attività.
Nel settembre 2007 ho aperto il Charlama Depot Gallery e ho cominciato ad esporre artisti della Bosnia Erzegovina e della Regione Balcanica. Abbiamo creato un’organizzazione chiamata Kult Zona per presentare l’arte contemporanea. Il gruppo era costituito da artisti, pittori, filosofi, scrittori, docenti e critici o storici dell’arte. Charlama con la sua attività ora è parte di Kult Zona.

S.L.: La tua proposta è un’idea intercodice, un lavoro che si muove tra diversi campi dell’arte e del pensiero…
J.H.: L’idea è di continuare la DoKumenta là dove si era interrotta, con il suo progetto internazionale. Per poter gestire con continuità degli spazi, quando si presenta l’arte contemporanea. Pensiamo che sia molto importante per Sarajevo e la Bosnia Erzegovina avere tale progetto realizzato con una struttura permanente. Devo anche dire che l’intenzione è di realizzare questa biennale internazionale nel prossimo 2009***.

S.L.: Con quanto, come e con chi?
J.H.: Ora cominciamo con un piccolo ma importante supporto del Ministero della Cultura del Kanton Sarajevo e con il promesso aiuto del Ministero della Cultura della Bosnia Erzegovina. Abbiamo degli spazi, ma in verità contiamo di avere un luogo veramente straordinario di cui parleremo spero presto.

S.L.: Grazie.

Roma, 23 novembre 2008

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* Il Campo Rom Casilino, lì da più di vent’anni, senza luce e acqua, tanto che i bambini nati a Roma andavano regolarmente a scuola e si consideravano Rom Italiani, è stato smantellato dal Comune di Roma nell’autunno 2009 e le famiglie sparpagliate in diverse locazioni. Al tempo dell’intervista era in corso nel Campo Casilino un bel progetto di integrazione e sviluppo futuro, da parte del gruppo di artisti-architetti Stalker: insieme alla Facoltà di architettura di Valle Giulia, dove alcuni di loro insegnano, era stato proposto al Comune di realizzare, su un terreno che il Sindaco di Roma avrebbe potuto concedere, un insediamento a misura della loro cultura, realizzabile attraverso una sintesi delle abilità artigianali dei Rom con le più avanzate tecniche di progettazione. Il progetto Stalker è poi stato invitato ed esposto nella ultima Biennale Internazionale di Architettura di Venezia. Nel periodo dell’intervista Jusuf era ospite di un membro degli Stalker.

** La mostra, installazione e assemblages, attualmente in corso a Roma nel MLAC Museo Laboratorio di Arte Contemporanea della Sapienza, inaugurata il 4 dicembre 2009, l’artista ha voluto chiamarla Depotgraphia Roma, per indicare una specie di scrittura che attraverso scarti, rifiuti, oggetti senza valore o anche opere d’arte accantonate, mette in opera una ulteriore realtà, trasformandoli attraverso processi associativi incongrui ed inediti in un linguaggio ulteriormente significante.

*** In verità la Biennale si aprirà nel 2010 e si chiamerà BIENNALE OF CONTEMPORARY ART, D-O ARK UNDERGROUND, KONJIC, BiH. È stata presentata il 14-15 dicembre con l’annuncio di un programma biennale di forum, incontri, conferenze nazionali e internazionali. La prima mostra si terrà nel Bunker antiatomico di Tito che si trova a Konjic (Sarajevo) e che Jusuf è riuscito ad ottenere per il nuovo scopo dell’arte.

**** Jusuf Hadžifejzović alla data dell’intervista aveva già individuato e scelto questo luogo straordinario, il Bunker di Konjic, ma non aveva ancora ottenuto il permesso del Ministero dell’Interno della federazione di Bosnia Herzegovina. Il Bunker è stato aperto il 14 dicembre 2009. Vedi in Luxflux/Regiones lo Speciale report.