Marco Trulli: Come mai ha scelto proprio la Tuscia come ambito di lavoro, di vita? Lei aveva già lavorato in Italia?
Paul Wiedmer: Si, ero stato a Roma un anno per una borsa di studio dell’Istituto Svizzero, successivamente ho conosciuto questa zona che mi è piaciuta per la sua caratterizzazione naturale, diversa da quella della zona a sud di Roma, perché possiede una morfologia territoriale molto variegata, c’è la pianura, i calanchi, il Rio Chiaro. Roma mi piace molto ma non mi concedeva lo spazio necessario per lavorare, uno scultore ha bisogno di molto spazio.

M. T.: Quali sono le peculiarità di questa zona?
P. W.: Beh, qui c’è un pò di tutto, c’è il fosso, il Rio Chiaro che costituisce una linea di confine: il travertino, con il quale è stata costruita tutta Roma, ed il tufo materiale di costruzione di città quali Orvieto, Civita di Bagnoregio. Siamo proprio ad una frontiera, ad un crocevia di due culture. In particolare mi piace perché abbiamo di fronte questa cornice naturale montuosa che ci ripara dai venti. Il sole si alza ad est e cala ad ovest, sempre qui, questo è ottimo per la luce, per le piante, per le sculture. C’è un clima abbastanza mite, abbiamo delle piante non adatte al clima viterbese, come le palme, il bambù.

M. T.: Il gesto di piantare qui degli alberi, delle piante provenienti da paesi lontani, è motivato dalla volontà di ricordare un’esperienza di vita nel suo parco, oppure le coltiva perché le piacciono per le loro proprietà intrinseche, come nel caso del bambù?
P. W.: In verità tutti gli artisti sono anche collezionisti; io colleziono piante che riporto dai miei viaggi all’estero, ma non mi piace solo coltivarle, quando ho una pianta voglio conoscerla fin nei dettagli, come per le sculture che sono in questo parco. Per quanto riguarda il bambù, c’è un detto cinese che dice: “Un contadino che non ha un bambù davanti alla porta, è un contadino povero”. Perciò io ho inteso la valenza sociale di questa pianta, che possiede una molteplicità infinita di usi; viene utilizzata come materiale da costruzione, come combustibile ed è inoltre anche commestibile. In particolare a me piace per la sua forma modulare e affusolata, quasi monumentale. Per il giardino è importante perché è sempre verde, anche d’inverno.

M. T.: Nel complesso mi sembra che tutte le opere presenti in questo parco siano legate indissolubilmente ad esso e concepite in base ad un rapporto arte-ambiente incentrato sulla dimensione umana dello spazio.
P. W.: Si, sono concepite per questo posto. Noi invitiamo gli artisti per un mese, lavorano qui da noi ed è altra cosa dal portare le opere già fatte. Nasce tutto qui, come le piante, noi compriamo le piante piccole, aspettiamo che diventino grandi, le cresciamo, tutto con il tempo. Per me è molto importante la concezione del tempo. Esistono diversi tempi, uno ciclico: quello delle lancette, delle ore, dei giorni; un’altro lineare: quello della vita. Una volta ho fatto una serie di sculture incentrata su questa tematica, ed anche sugli ottocento anni di sviluppo dell’orologio meccanico. Le sculture incarnano entrambi i tempi, da una parte quello ciclico, con il ripetersi di elementi geometrici modulari, dall’altra il tempo lineare, una volta capito che anche il tempo della vita è lineare, non torna più, allora si matura la consapevolezza che bisogna crescere lentamente. E questa è anche la filosofia secondo la quale questo giardino è stato concepito.

M. T.: Come nasce l’idea del Parco?
P. W.: Io ho viaggiato molto, una delle mie più grandi passioni è proprio la natura ed ovviamente l’arte, perciò ho visitato molti giardini, antichi e contemporanei, come il Parco Güell di Gaudì in Spagna, il Parco dei Mostri di Bomarzo, il Parco del Postino Cheval, oppure i giardini di sculture contemporanea. Poi è nata questa idea di creare un’opera d’arte insolita, complessa, perché io guardo questo giardino come un’opera unica, come un quadro, da modificare e sviluppare secondo l’aspirazione alla perfezione dell’artista. Ogni volta che vado in una grande città vado a visitare l’orto botanico, per esempio a Berlino, a Londra. Comunque anche le collaborazioni con Niki de Saint Phalle, Jean Tinguely, in Francia, a Milly la Foret, quando in un grande ambito naturale abbiamo realizzato un enorme Cyclop, mi hanno portato a lavorare con la natura, anche se ho sviluppato un’idea di rapporto tra arte e natura diversa tra quella delle sculture abitabili. Alla Serpara ho voluto instaurare un rapporto armonioso tra piante e sculture, senza prevaricazioni delle une sulle altre. Anche perché nella forma dell’albero c’è armonia spaziale, volume ben calibrato, insomma la natura è il mio modello ideale

M. T.: In genere si tende ad associare il caso del parco d’artista con quello di Vicino Orsini ed il Parco dei Mostri, anche per lei è stata importante questa esperienza?
P. W.: Sono stato una sera in un ristorante di Parigi con Salvador Dalì che mi ha detto che il Parco dei Mostri lo aveva impressionato particolarmente, allora sono andato per la prima volta a visitarlo. In particolare mi ha stupito il carattere onirico, la sua ironia e l’intenzione di divertire, che era insita nella progettazione di Vicino Orsini. Così anche nel mio parco ho riproposto draghi e rospi giganti che sputano fuoco, per stupire e coinvolgere lo spettatore, i bambini in particolare.

M. T.: Il fatto che gli artisti vengano qui a lavorare mi sembra molto interessante perché instaura uno spirito partecipativo, di collaborazione che poi è una delle peculiarità proprio di questo parco. Che tipo di artisti espongono alla Serpara?
P. W.: Gli artisti che espongono qui sono prima amici che artisti, non cerco l’artista alla moda, in qualche modo sono tutti artisti con i quali ho condiviso una intensa esperienza di vita in qualche parte del mondo, in Corea o in Svizzera. Così nasce un microcosmo familiare.

M. T.: In alcune opere c’è una integrazione totale con la natura.
P. W.: Con il rospo di fuoco ho concretizzato l’intenzione di lavorare con la natura, ho realizzato lo scheletro in ferro e poi ho lasciato che la natura lo colorasse piantandovi una pianta rampicante, così l’opera è in continua evoluzione.

M. T.: La maggior parte delle sue opere mettono in evidenza una interazione continua tra il fuoco e il ferro. Come nasce questo rapporto?
P. W.: Il fuoco è un elemento importante, è un elemento vitale, ed il ferro è nato con il fuoco. Il ferro mi piace molto, lo uso spesso, mentre il fuoco è un pò come la firma. Le sculture possiedono una identità propria anche senza il fuoco, che è un elemento in più, di sorpresa…

M. T.: L’uso del ferro, materiale apparentemente estraneo al rapporto con la natura, come si lega, anche a livello cromatico-visivo, con il verde del suo parco?
P. W.: Io faccio uso di patine artificiali, realizzate artigianalmente attraverso un lungo lavoro di ricerca del valore cromatico giusto. La patina è adatta anche a proteggere le sculture dagli agenti atmosferici. Si tratta di un lavoro, di una professione che ora non esiste più. Il ferro delle mie sculture non arrugginisce, una volta trovata la soluzione giusta basta mantenere lontane dall’umidità le basi delle sculture, impermeabilizzarle. Poi però occorre apportare una manutenzione annuale ripassando la superficie dell’opera con la cera d’api, magari d’estate quando il ferro si riscalda. La cera è una protezione ottima usata già da romani ed dagli etruschi.

M. T.: Il suo modo di lavorare il ferro comunque è molto diverso da quello di Tinguely e Luginbuhl ad esempio, vero?
P. W.: Già, io faccio uso sporadicamente del ready-made, piuttosto tendo a rifondere, a rigenerare il ferro attraverso la fusione, a conferirgli nuova vita, a redimerlo dalla sua condizione di scarto della società.

M. T.: Nella sua produzione artistica degli ultimi anni e soprattutto nelle opere più recenti ho riscontrato una forte influenza dell’Oriente, come nei Cuscini, ovviamente dovuta ai suoi viaggi in Cina e Giappone. Cosa l’ha impressionata di più?
P. W.: In Oriente ho incontrato una altro mondo. Ho riscontrato un approccio diverso con la natura. I giardini orientali possiedono un forte valore simbolico, sono intrisi di armonia e poesia. I giardini cinesi sono diversi da quelli giapponesi, perché qui c’è uno spazio infinito, dominato dalla Muraglia Cinese o dai Palazzi Imperiali. L’influsso dell’arte antica, della tradizione millenaria di quei paesi. Sicuramente ho imparato molto dalla cultura orientale.

M. T.: Il percorso realizzativo della sua opera è molto legato alla dimensione umana, al fare artigiano, distante perciò dalla tecnologia ed anzi basato tutto sulla forza dell’uomo.
P. W.: Per realizzare una scultura parto dal presupposto che sarò io stesso, con qualche aiutante, a realizzare l’opera, senza usufruire di grandi macchinari. Non ho mai pensato all’utilizzo di materiali che richiedessero passaggi non realizzabili dalle capacità di una persona, come la ghisa, il bronzo o altro. Non voglio infestare il parco di macchinari troppo ingombranti e tantomeno realizzare le opere per il parco, lontano da qui.
La Serpara non è come il giardino di Niki. È più vicino ad un museo di scultura contemporanea, anche se quel parco mi piace molto, il mio non aspira al gigantismo, è più legato al tempo, io intendo raccogliere in questo microcosmo le diverse idee di artisti di tutto il mondo. Le mie operesono realizzate tutte grazie alla mia forza.

M. T.: Nel periodo della Pentecoste nel suo parco si tiene una festa, perché proprio in quel periodo?
P. W.: La Pentecoste rappresenta un periodo ideale per la natura, siamo nel pieno della stagione primaverile. A questa festa in genere partecipano diversi artisti, amici e poi si inaugurano delle nuove opere installate nel parco, poi ci sono concerti, spettacoli teatrali.

 

Civetella d’Agliano, giugno 2004