BIBLIOGRAFIA:
E. Princi (a cura di), Il Boschetto. Otto sculture-gioco d’artista, Comune di Grosseto – Assessorato alla Cultura, Grosseto, 1997
I. Alonzo, Parco “Il Boschetto”. Da giardino pubblico abbandonato a parco di sculture-gioco, tesi di diploma, Accademia di Belle Arti, Carrara, 1997

NOTIZIE UTILI:
Ubicazione: Via Einaudi, Grosseto. Ingresso libero.

Il parco, situato in una zona periferica di Grosseto, deve il suo nome agli alberi e alle siepi che vi crescono. Sorto alla fine del 1996, raccoglie il lavoro di diversi autori, coinvolti e coordinati da Irma Alonzo attorno all’idea di opera ludica, rivolta ad un pubblico di bambini. L’intento pedagogico sottoteso è la stimolazione della sensibilità estetica dei più piccoli, attraverso l’esperienza diretta del gioco.

Nella concezione estetica che anima il Boschetto vige il rifiuto sistematico della monumentalità, quale sterile esercizio di vanità stilistiche. Si cerca, piuttosto, di promuovere l’appropriazione, da parte dei cittadini-fruitori, di uno spazio specifico della città, grazie ad opere interattive in grado di avviare dinamiche di familiarizzazione e fenomeni di aggregazione sociale.

In questo senso, il parco ha assolto con successo il compito previsto; almeno fino a quando il venir meno dell’integrità fisica delle sculture-gioco non ha compromesso l’efficacia del complesso. Il parco ha manifestato abbastanza in fretta problemi di conservazione delle opere, in parte dovuti all’usura derivata dalla fruizione e, più spesso, a comportamenti vandalici (ad esempio, il furto dei campanelli del Dolmen). Soprattutto, la costitutiva fragilità della maggior parte delle opere è imputabile alla non idonea esecuzione, condotta forzatamente secondo criteri di rapidità e viziata da imperizia. Inoltre, la superficie dell’area, per la sua stessa configurazione fisica, è facilmente soggetta ad allagamenti in caso di piogge e la mancanza di un’opera preliminare di drenaggio non ha aiutato a preservare le opere dal degrado. Attualmente alcune sculture appaiono mutile, altre sono irriconoscibili o seriamente danneggiate.

I materiali impiegati sono molteplici: gli artisti hanno, infatti, utilizzato legno, cemento, terracotta, tufo, plastica e diversi metalli (bronzo, rame, ferro); la varietà delle tecniche e delle discipline cui hanno fatto ricorso per la lavorazione è altrettanto ampia. In ultimo, la vocazione ludica delle opere implica che esse vengano percorse, scalate, manipolate; quindi, sottoposte a sollecitazioni fisiche di portata rilevante. Il quadro è palesemente articolato. Purtroppo, nella progettazione dei lavori, le esigenze espressive hanno, nella maggior parte dei casi, relegato a margine le considerazioni tecniche di conservazione. Per di più, come ammette con rammarico Irma Alonzo, l’esecuzione di alcune sculture, come il Labirinto, ha avvertito le conseguenze dell’inesperienza degli autori in materia di opere all’aperto. Non è un caso che il manufatto che meno ha risentito della collocazione sia il Nido armonico di Paul Fuchs, autore che ha una maggiore confidenza con la sistemazione delle opere in spazi pubblici all’aperto ed è, quindi, a conoscenza dei rischi che essa comporta.
Probabilmente, però, iscrivere il parco in un più vasto e organico piano di qualificazione del tessuto cittadino, avrebbe arginato il nascere di molti degli inconvenienti riscontrati. E’ stata sottolineata, già dai primi giorni di vita del parco giochi, la necessità di dare continuità al progetto tramite la “programmazione di provvedimenti di cura, manutenzione e di apposite iniziative” atte a preservare l’integrità del complesso. Il problema, infatti, si inserisce nella questione pertinente lo sviluppo di una politica culturale e dell’individuazione dell’identità urbana. La funzione ad un tempo ricreativa e pedagogica dell’arte lavora alla sedimentazione di una memoria collettiva e contribuisce a coagulare un sentimento di appartenenza civica.

Il deterioramento non è, ovviamente, sfuggito agli autori delle sculture, che si sono mossi, pensando una serie di operazioni per la risistemazione dell’area. L’idea comprende il restauro di una parte dei manufatti (Dolmen, Sette porte, Tre torri e Nido armonico), la “conversione” del Muro sonoro in Muro per graffiti, e la sostituzione dei giochi giudicati irrecuperabili, alcuni per ricostruzione ex novo (Labirinto), altri (Cavallo di Troia e Drago) rimpiazzati con nuove sculture.

Ulteriore arricchimento del sito sarebbe l’istituzione di un laboratorio didattico scandito in cicli quinquennali, per le scuole medie ed elementari della città, dedicato alla decorazione della fontana centrale, elemento preesistente il parco giochi, che in questo modo troverebbe un raccordo coerente con le finalità del Boschetto.

Espongono al Boschetto: Irma Alonzo (Labirinto), Stefano Corti (Dolmen), Martin Emschermann (Cavallo di troia), Paul Fuchs (Nido armonico), Frédéric Guerin (Muro sonoro), Monica Mariniello (Sette porte), Manuela Riccardi (Drago), Tony Spizzirri (Tre torri).

Il Boschetto, parco giochi d’artista
di Paolo Martore

Paolo Martore: Come nasce il Boschetto?
Irma Alonzo: Ho avuto una intuizione nel 1991, durante la guerra del Golfo, quando mi chiedevo cosa era possibile fare per contrastare il fenomeno della guerra. Sapendo di non potermi armare e andare a combattere, sentivo il bisogno, come artista, di dare una risposta forte. Da questo ha avuto inizio una riflessione che si è protratta per diversi anni. Poi, nel 1995, venne a Grosseto il Dalai Lama; in occasione della sua visita fu presentata una scultura che il sindaco indicò come la prima di un discorso a venire di ampio respiro. Io presi attentamente nota di questa dichiarazione d’intenti e, l’anno successivo, ho ottenuto un appuntamento con lui per proporgli l’idea del Boschetto. L’idea era di mettere i bambini subito a contatto con l’arte, di modo che la loro sensibilità si sviluppasse a tal punto, che da grandi non avessero idiote smanie bellicose. La cosa era quindi priva di cappelli politici, era una risposta viscerale ad un fatto che mi toccava profondamente.

La mia proposta fu, inaspettatamente, subito bene accolta dal sindaco; che mi ricevette a fine luglio e già a metà agosto mi disse che il cantiere per il parco si sarebbe aperto a settembre. Avevo passato cinque anni a metabolizzare l’idea e d’un tratto improvvisamente mi viene detto di realizzarla. Da una parte il fatto mi riempiva di gioia. Solo dopo ho capito che tutta questa velocità era dovuta a preoccupazioni elettorali. In realtà, la gestione della cosa, condotta senza preoccuparsi di passare sopra ad altri programmi, determinò uno scollamento generale tra tutti i suoi assessori e tecnici. Mi sono ritrovata in mezzo ad una questione di faide intestine allo stesso partito. Comunque, malgrado loro, sono riuscita a realizzare il lavoro coinvolgendo diversi artisti e tutto il comune.

P.M.: Di che natura erano gli ostacoli?
I.A.: Per la brevità di tempo, non ho avuto modo di riflettere bene e fare una selezione accurata dei lavori. Io stessa avrei voluto rifinire meglio il mio lavoro.

P.M.: Quindi al momento della presentazione del progetto non avevi una idea chiara su quali dovevano essere gli autori?
I.A.: No, non l’avevo. Avevo già adocchiato alcuni artisti. Nel frattempo, stavo finendo l’Accademia di Belle Arti, così ho pensato di fare del progetto la mia tesi di diploma e ciò mi ha spinto a fare delle ricerche approfondite. Dacché avevo il cantiere del parco aperto e man mano che procedevo nel lavoro, studiavo. Studiando mi rendevo conto delle difficoltà che stavamo affrontando e che avrei dovuto avere una maggiore preparazione a monte, piuttosto che durante lo svolgimento delle cose.

Da quando avevo iniziato l’Accademia mi ero dedicata ad una ricerca sull’arte ambientale, in particolare avevo studiato Francesco Somaini il quale insieme ad Enrico Crispolti nei primi anni Settanta aveva fatto uno studio teorico-pratico sull’impatto della scultura nella città. I due avevano teorizzato l’importanza della rivalutazione delle periferie, proprio perché nei centri storici c’è già tanta roba. Quando andai dal sindaco per chiedere un’area, l’unica cosa che avevo chiara era che volevo intervenire sulla periferia. Scoprii solo dopo l’assegnazione che il posto concessomi dal comune si allagava ad ogni pioggia. Da lì capii da sola che in questi casi o si fa un drenaggio del posto, prima di qualsiasi altra cosa, o altrimenti le sculture vanno rialzate; nessun tecnico mi aveva avvertito della cosa.

Poi, una volta finito il parco, abbiamo chiesto le panchine e non sono state fatte; abbiamo chiesto l’acqua per i bambini e invece l’hanno messa in un parchetto poco distante; si parlava di una recinzione che non è mai stata fatta. Il bar che c’è ora, doveva essere un piccolo chiosco con dei tavoli ad altezza di bambino. Una volta cambiata l’amministrazione, mi sono rivolta ai nuovi responsabili, che mi hanno ricevuto ed ascoltato. Recentemente in collaborazione con Anna Mazzanti abbiamo fatto un progetto di recupero per il parco; progetto che è anche un miglioramento, oltre che un recupero. Vorrei aggiungere dei nuovi artisti. Ma sappiamo già ufficiosamente che l’amministrazione non ha interesse nella cosa; non capisco bene quali siano le loro priorità.

D’altra parte il discorso della manutenzione e della gestione delle opere d’arte nelle aree urbane o all’aperto è un problema annoso. Nel Boschetto ho fatto degli errori di valutazione nei materiali e soprattutto, cosa che però ho capito in corso d’opera, avrei avuto bisogno dell’ausilio di due figure fondamentali: un ingegnere, in grado di leggere le caratteristiche del terreno, e un architetto del paesaggio. La mia è una visione artistica delle cose: seppure sia stata io a decidere la distribuzione delle opere nell’area, l’ho fatto semplicemente per un discorso di volumi, di bilanciamento di spazi pieni e vuoti, di distanza tra le cose. Credo che al Boschetto siano stati fatti degli errori gravi; per esempio nel Labirinto penso che la posa dei mattoncini non sia stata fatta in modo adeguato. Certo, io ho le mie responsabilità, ma la presenza di un ingegnere e di un architetto avrebbero ovviato ad una serie di inconvenienti che molti artisti giovani, come ero io al tempo, possono facilmente commettere.

Forse ho commesso l’ingenuità di voler fare un lavoro dai costi contenuti, senza bisogno di spendere troppi soldi (non volevo nemmeno pubblicare il catalogo); forse, se il progetto fosse stato più oneroso, sarebbe stato più seguito da parte delle istituzioni.

P.M.: Presumo che la tua preoccupazione principale fosse quella di dare forma il più prontamente possibile alla tua idea e che questo ti portasse a tralasciare gli aspetti tecnici inerenti la conservazione?
I.A.: In Accademia ci facevano studiare Tuoro sul Trasimeno come esempio di inserimento artistico in un contesto ambientale. Sono andata a veder queste sculture, opere dei grandi della scultura italiana contemporanea, e che siano dei maestri è evidente dal fatto che queste sculture sono durevoli. Bisogna imparare da loro; non è un caso che nel Boschetto la scultura che ha retto meglio sia il Nido armonico di Paul Fuchs, il quale, di gran lunga il più anziano di noi, dimostra quanto conti l’esperienza in questo campo. Per me questa esperienza è stata illuminante. Credo che solo l’acciaio inox sia in grado di reggere il confronto con il tempo, altrimenti per le sculture all’aperto bisogna necessariamente rivolgersi ai materiali tradizionali come le pietre o il bronzo. Oggi l’artista cerca di velocizzare il lavoro, di economizzare la fatica e abbattere i costi; tutto porta al risparmio mentale che è veramente deleterio.

P.M.: Quale è l’idea di recupero del parco?
I.A.: Per il Labirinto, ad esempio, ricostruire con forme e materiali resistenti. Tre torri sarebbe da sostituire con un’altra opera, giacché qui c’è poco da recuperare. Lo scivolo andrebbe lasciato: anche se il Drago è il lavoro meno scultoreo di tutti, ha comunque un forte valore pedagogico; si può ridiscutere nella forma ma penso che una scultura-scivolo sia opportuna. Il bozzetto di Tre torri aveva un’altra importanza rispetto alla realizzazione; le proporzioni erano completamente diverse e l’impatto era migliore; trovo che abbia perso la giusta relazione con l’ambiente.

Frèdèric Guerin al momento della realizzazione del Muro sonoro, anche questa troppo concitata, non era in Italia, così il meccanismo interno è stato fatto realizzare ad un altro ragazzo a Grosseto. Secondo l’idea originale, l’opera doveva suonare al minimo tocco, invece il meccanismo è durissimo. Quindi ho proposto a Frèdèric di riformulare un progetto in cui il muro suoni, ma lui asserisce che l’opera ha svolto la sua funzione e ora può essere convertita in un muro di graffiti, dove chiunque può disegnare e cancellare ciò che vuole.

P.M.: Quel che trovo interessante nel boschetto è il desiderio di rapportarsi ai bambini, costruendo un percorso aperto e attivo.
I.A.: Il mio pensiero di base è di creare dei luoghi con opere fruibili, dove la scultura non sia sul piedistallo. E’ ancora improprio il modo in cui mettono le sculture nelle città, senza un vero motivo, come fossero dei soprammobili. Questa esperienza per me non è esaurita e credo che abbia una grossa valenza sociale. Il parco è fatto da artisti, ma per i bambini.

Questa, in Italia, è ancora una esperienza pilota; perché al momento c’è solo Collodi, che è però un parco a tema. Nel Boschetto, invece, ho invitato gli artisti ad interpretare l’idea del gioco, ad andare a ripescare qualcosa della loro infanzia.

Dall’alto:

M. Eschermann, Cavallo di troia, Boschetto, Grosseto

M. Mariniello, Sette Porte, Boschetto, Grosseto

I. Alonzo, Labirinto, Boschetto, Grosseto