Ho sempre pensato che era necessario avere una freddezza verso l’arte, nel senso di una presenza misurata ed attenta. Delle volte bisogna saper spostarsi, uscire e rientrare, giocare il nascondino. Fin dall’inizio mi sentivo sdoppiato fra amare l’arte e non amare il mondo dell’arte. Non è soltanto il realismo socialista ad essere il sinonimo di un sistema, ma anche l’arte occidentale, che vanta un liberalismo, non scherza sull’essere un sistema. Il realismo “liberale” con il suo mercato, ed il centralismo lobbistico della scena artistica, e poi con una serie di caratteristiche repressive e ciniche, non mi risulta diverso dal realismo socialista tranne nella scelta di obiettivi e di maniere. 
Il Situazionismo degli anni ’60 e i movimenti successivi degli anni ’70 nell’arte, incluso il teatro e la musica, cioè l’arte interdisciplinare, hanno evidenziato chiaramente, attraverso una netta critica della cultura borghese, offrendo le alternative, un altro modo di pensare, fare e comportarsi. Si potrebbe dire che la formula era “superare l’arte”, e credo che il processo non si è interrotto. Infatti, il mio assiomaentscheidungsproblem (“procedere per verificare”) è un segno di cui tengono conto i metamatematici, ma anche i logici e gli altri pensatori. Credo che la scena artistica attuale è divisa su due concetti, direi contrapposti duramente, che sono la conquista della società, e, all’opposto, la conquista della metamatematica, non soltanto simbolicamente, ma nel senso di andare oltre, di cercare qualcosa di più, come è sempre stato, particolarmente nell’arte concettuale. 
Abbiamo sempre parlato dell’arte mentale, dell’arte del comportamento, da cui viene la performance, però siamo sempre rimasti sulla ricerca del “sesso degli angeli”.
Tutti sappiamo, per mezzo di una semplice saggezza, senza richiamarci troppo ad un alto rango di sapienza, che la creatività non nasce sotto l’ala dell’elite sociale, ma ben altrove; se, però, la realtà ci conduce al contrario, significa che abbiamo accettato l’imbroglio e quindi abbiamo rotto le regole del bridge, e quindi non giochiamo più a bridge. Gli artisti “importanti” restano sempre quelli della data classe e non mai gli altri, i fuori classe, che sembrano non esistere. Ma davvero è così? 
Durante la guerra civile jugoslava, 1991/1994, ho tenuto a Belgrado, a Novi Sad, in Ungheria (con Otto Tolnai) e all’Accademia dell’Arte a Düsseldorf (con Claus Rinke) diverse performances con la verbalizzazione su questo tema. Inoltre feci varie interviste, per giornali, riviste e T.V., dove alzavo la voce contro la guerra, associando l’arte di appartenenza e i vari “nuovi filosofi” di sinistra occidentale, i cosiddetti “differenzialisti”, impegnati a giustificare la guerra e l’asimmetrismo. 
Ho visto all’opera una classe dell’intellighenzia del sistema mediatico agire da mercenari. Scrissi anche diversi articoli per giornali specializzati dove, fra l’altro, scrissi sul Situazionismo (“la rivoluzione dell’arte moderna e l’arte moderna della rivoluzione”) cercando di ricordare quello che mi sembrava molto importante, spinto nella dimenticanza, cioè la dimenticanza stessa. Fui mal accolto dalla destra nazionalista, generosamente sostenuta dalla sinistra differenzialista e dalla CIA. Che confusione!? Si moriva nel mezzo di una confusione, come delle galline, e, appunto, sono tempi che stiamo percorrendo; tempi di smarrimento e di paura. Insomma, la mia posizione è cercare di sopravvivere. Non sono di quelli che ai tempi di oggi si sono fatti una fortuna, e mi vanto di questo. Il movimento Fluxus sono i miei amici per natura, particolarmente Boris Nieslony e l’ex gruppo Büro Berlin. Pensa: nel 1987 mi trovavo a Dubrovnik, in ritiro artistico, e un giorno vedo arrivare a cercarmi Boris Nieslony, che fu una vera sorpresa. Chi sa come abbia fatto a trovarmi? Il mio indirizzo di Dubrovnik non esisteva, eppure lui m’ha trovato; si è trattenuto solo poche ore, giusto per informarmi della mostra di “Büro Berlin” nella quale voleva che io prendessi parte in una performance abbinata con lui, due performance come una. Abbiamo mangiato qualcosa e poi lui è ripartito, tutto in poche ore. Così sono gli artisti fluxus. Eravamo d’estate ed in autunno arrivai a Berlino, come eravamo d’accordo. C’erano tutti della Fluxus Internazionale. Così si è chiuso un capitolo del gruppo berlinese. Il Fluxus è soprattutto un comportamento, un rapporto comportamentale di contenuti precisi dai quali viene poi anche un’opera d’arte, ma non necessariamente. Credo che l’opera d’arte e l’operazione d’arte, e le cose che si trovano di mezzo, secondo il principio matematico della “inferenza lineare”, vengono successivamente spiegate una con l’altra. Insomma, non si può definire il Fluxus. Si può, proprio se si vuole, dare un’interpretazione libera come faccio io in questo momento, per non essere scortese verso uno che mi fa questa domanda, però aggiungo subito che forse sbaglio… 
Per quanto riguarda il resto della domanda comincio a dire che ci sono degli artisti che subiscono delle ingiustizie assurde perché non sono attenti (parlo sempre dei non-appartenenti) e non vogliono essere attenti alle regole della società artistica e degli interessi del mercato. 
La galleria Gap era, appunto, la galleria che agiva fuori dalle accennate cercando di dare spazio agli artisti “autoemarginati” di cui il lavoro non veniva codificato per natura del loro concetto ideologico, salvo Paik e Vostell, visto che sono nominati nella domanda, che erano presenti in entrambi i campi. Dipende molto dalla strategia del lavoro di un artista, dipende dai metodi, dalla maniera espressiva, dal carattere dell’artista e anche forse dalla simpatia e dal fascino del personaggio dell’artista. La galleria Gap ha lasciato un volume nel quale si trova documentata l’attività dal 1972 fino al 1975, ma piuttosto vorrei dire di Giovanni Fileccia, fondatore e direttore della Gap, qualche parola.
Gianni era un politologo che veniva dalla T.V. e dal cinema, ma poi alla fine degli anni ’60 ha deciso di approfondire alcuni punti della contestazione del ’68, che nel cinema era trattato di striscio, e così ha avuto l’idea di cercare gli artisti, aprendo in Via Monserrato una galleria del tutto diversa dalle gallerie del momento. Con Gianni ci siamo incontrati a Milano nel 1972, e poi ci siamo rivisti a Bologna dove allora abitavo e mi propose di trasferirmi a Roma. Mi diede una sistemazione vicino alla galleria e così entrai nell’attività della Gap nel 1973. C’era un gruppo di artisti (non faccio nomi), attorno all’idea “arte, vita e politica” come raggruppamento di idee, cose e fatti in un dibattito permanente ed aperto, si può dire che era l’unica galleria del Fluxus italiano, e ovviamente anche internazionale, anche se non c’erano delle dichiarazioni in questo senso.
Lo spazio era quasi sempre vuoto con al centro un grande tavolo con la carta da scrivere e così chiunque entrasse dentro aveva questa opportunità. Poteva lasciare un messaggio scritto, disegnato, come si voleva e così nasceva un “materiale” che poi veniva comunicato con il mondo in maniera ciclostilata; oppure, poiché la Gap aveva un cartellone anonimo a Porta Portese dove esponeva le gigantografie, si poteva fotografare il messaggio scelto, fare la grande foto e appenderla sul cartellone. L’ho fatto anch’io. 

** Selezione dall’intervista di Vania Granata, novembre 2003. 

Schede delle opere riprodotte a lato: Ilija Soskic, Latte-Seta. Energia massima tempo minimo, performance-azione in 4 atti (sparo nel muro), 1975, Galleria L’attico, Roma, nell’ambito della mostra 24 ore su 24, Foto Lionello Fabbri 

Scheda: Galleria L’Attico 1975, impegnata nel progetto “24×24”, con la partecipazione degli artisti Kounellis, De Dominicis, Patella, Mattiacci, Festa, Boetti, Ontani, Germanà, Pisani, Prini, Chia, Clemente e Soskic. Il progetto conteneva un’azione collettiva impostata sul tempo di sette giorni in continuità, giorno e notte, dove si alternavano all’orario-proposizione, ogni due ore, un artista – un lavoro. La mia performance era composta di quattro tempi: il tempo del cuscino di seta rosa messo per terra; sopra ci stava seduto l’artista che coinvolgeva il pubblico in una conversazione contraddittoria: tutti gli argomenti venivano sostenuti e negati nello stesso tempo, compresi l’ambiguità e il qualunquismo. Il secondo tempo conteneva l’uso di un coltello a serramanico infilato al centro del muro, senza storie, senza “drammaturgia”, che coinvolgeva il pubblico sul fatto tautologico (la cosa si spiega in se stessa). Il terzo tempo presentava un tavolo di colore nero dove l’artista coinvolgeva un altro artista per fare il “braccio di ferro” (la cosa si spiega in se stessa). Il quarto tempo, il tempo conclusivo, l’artista sceglie la stanza senza finestre dove piazza per terra davanti al muro un fiasco di latte ed una rivoltella carica. Dopo un’ora, alla metà del tempo previsto, l’artista entra nella stanza e con la mano sinistra prende il fiasco di latte e con la mano destra prende la rivoltella. Punta l’arma contro il muro di fronte e spara. Rimette poi tutto alla posizione precedente e lascia la stanza. Lascia anche la galleria concludendo la performance. L’idea nasce sulla memoria del suicidio del poeta futurista russo Majakovskij; sparandosi in testa, lascia un biglietto scritto: “non lo raccomando a nessuno”. “Massima Energia –Tempo Minimo, “Gli anni di piombo”, il sogno rivoluzionario, l’utopia, la realtà, e tante altre cose; lo sparo al muro era l’assioma del tempo e dell’arte che fa il segno…


Ilija Soskic, Hohenzollern, performance per video super 8,12’, 1976, Video e performance realizzati presso il Palazzo Reale Hohenzollern, Tübingen per la Galleria Dacic. Foto a col. di Zivojin Dacic.

Ilija Soskic, Latte-Seta. Energia massima tempo minimo, performance-azione in 4 atti (sparo nel muro), 1975, Galleria L’attico, Roma, nell’ambito della mostra 24 ore su 24, Foto Lionello Fabbri.