La 55a Biennale di Venezia 2013 respira appieno il senso di dissoluzione proprio della postmodernità a partire dal mondo di immagini senza gerarchie né cronologie proposto da Massimiliano Gioni per il suo Palazzo Enciclopedico. Una mostra che ha la sua testa nel Padiglione Centrale ai Giardini e si snoda in quelle che erano le meravigliose cinquecentesche Corderie dell’Arsenale ora radicalmente e improvvidamente trasformate in una sequenza di asettici spazi espositivi, sempre più simili al white cube museale. Così quello che una volta era il cuore pulsante della Biennale, grazie anche a quegli spazi, straordinario esempio di archeologia industriale, ora appunto ridotti a insignificanti ambienti, è divenuto un contenitore che raccoglie opere spesso non ancorate a ricerche vitali. Quello che avrebbe voluto somigliare ad una immaginaria sequenza di moderne wunderkammer, è piuttosto il risultato di un processo di raffreddamento volto a dimostrare la bontà di una linea di ricerca che fa perno sui Visual studies. Insomma il “lifting intellettuale” di Gioni, come lo ha recentemente definito Celant su “L’Espresso”, non fa presa, tenta, senza riuscirvi, a dare una ricucitura verginale ad un’esposizione in cui nel suo complesso convergono sempre più interessi extrartistici, di natura economico-finanziaria e turistico-speculativa, in una inesorabile deriva di mondanizzazione dell’arte.

In questo contesto emergono ricerche più autentiche presentate in alcuni padiglioni nazionali, da quello israeliano, dove Gilad Ratman riflette proprio sul modello utopico della Biennale in contrasto con la crudezza del mondo reale, a quello spagnolo dove Lara Almarcegui ha voluto volgere lo sguardo del pubblico sulle viscere del territorio veneziano con un’articolata installazione e con il progetto sul caso dell’isola abbandonata di Murano, Sacca San Mattia.

Almarcegui, nata a Saragozza ma di stanza a Rotterdam, è una sorta di archeologa del presente che realizza progetti per rendere visibile ciò che sfugge al nostro sguardo e alla nostra consapevolezza. Lavorando tra rigenerazione e decadimento urbano, esplora luoghi dimenticati attraverso guide, cartine, brochure rintracciando storie, memorie, legami e analizza processi di pianificazione urbana dettati da interessi sociali, politici, economici. L’artista stimola processi di comprensione e consapevolezza decostruendo edifici, costruzioni e altri luoghi storici: Almacergui, scrive il curatore del Padiglione Octavio Zaya, “chiarisce la nostra comprensione del vivere lo spazio, mostrando i materiali inarticolati e spogli di cui sono fatti gli edifici, o scoprendo i prodotti riciclati che essi riutilizzano e che, a loro volta, finiranno per diventare, avvicinandoci così alla natura intrinsecamente entropica della civiltà”.

Così se a Roma, all’ex Pastificio Cerere di San Lorenzo, l’avevamo vista nel 2012 presentare una mappatura delle aree abbandonate della città e un’installazione composta da cumuli di macerie di materiali da costruzione, come quelli utilizzati in passato per fabbricare proprio il vecchio edificio industriale, ora a Venezia riempie gli ambienti del Padiglione Spagnolo con vari materiali simili, per qualità e quantità, a quelli utilizzati proprio per costruirlo all’inizio degli anni ’20 e presenta uno studio su un’area dimenticata della laguna. Così il salone centrale è occupato da un’enorme montagna di detriti che invadono lo spazio impedendone l’entrata, mentre nelle sale laterali è possibile girare attorno a cumuli più piccoli formati da pezzi di cemento, mattoni, piastrelle, segatura, vetro, scorie di ferro, presenze inquietanti, affascinanti, emozionanti nella loro svelata, nuda, semplice fisicità. Il lavoro di Almacergui si completa con un focus su un caso attuale, scelto dopo essersi confrontata con urbanisti e architetti veneziani: il futuro dell’isoletta Sacca San Mattia, costruita artificialmente all’inizio con gli scarti dell’industria del vetro della vicina Murano e poi divenuta enorme discarica di prodotti di scarto da costruzione e di materiali dragati nella laguna. Si tratta di ben 26 ettari di suolo spoglio e desolato, lontano dal ritmo della città, il più grande spazio vuoto presente a Venezia e per questo appetibile preda di iniziative speculative. Il progetto, spiegato in modo dettagliato in una piccola guida cartacea in b/n disponibile per il pubblico, è una guida nella quale si analizza la formazione e la consistenza di questa curiosa area, che oggi sembra non avere una funzione precisa all’interno di Venezia, ed esamina alcune ipotesi per una sua possibile nuova destinazione.

Insomma in un processo di sottrazione dall’oblio, del recupero della memoria di luoghi, identità, storie, Almacergui non si abbandona alla nostalgia o al fascino del passato: con uno sguardo interrogante formula progetti radicati nel presente, ma alla “ricerca del nuovo”, e coinvolge lo spettatore innescando suggestioni, stimolando riflessioni critiche e consapevolezze, promuovendo processi di trasformazione e partecipazione creativa.

Dall’alto:

1 – Lara Almarcegui  nel Padiglione Spagnolo

2-5 – Installazione Materiali da costruzione del Padigione Spagnolo

6 – Guida si Sacca San Mattia, l’isola abbandonata di Murano, Venezia

Photo: Elisabetta Cristallini