Note e riferimenti per Ana Rewakowicz

 

1.Il prototipo II per la “SleepingBagDress (Abito/valigia per la notte) “, creato nell’ambito della ricerca e progetto di design “Dressware” iniziato nel 2003, fu realizzato nel 2004/2005 ed in quegli anni indossato sia in Canada che in Polonia dall’artista. Lo “SleepingBagDress “è un abito che si gonfia trasformandosi in tende. Grazie a pannelli solari e ad un piccolo ventilatore, diviene un abitat autonomo.

Il progetto “Dressware” porta i nostri bisogni individuali alla esperienza originaria della sopravvivenza e consiste di tre prototipi:

“SleepingBagDress”, “ParachuteDress”, e “LifesaverDress”.

Che significa “casa”, si è chiesta Ana Rewakowicz a partire dall’inizio del xxi secolo, in un ‘epoca in cui la società contemporanea inventa una nuova forma di nomadismo? Cioè quando la società contemporanea inventa una nuova forma di nomadismo, come quella scelta dai cyberlinked e dalle loro tecnologie trasportabili (e siamo- oggi nel 2016- ormai tutti noi!)? Cioè – scriveva Ana una quindicina di anni fa- che significa “casa” quando la società contemporanea forza costringe i rifugiati economici, politici, o climatici dentro spazi o territori estremi e negativi della megalopoli, ad esempio?

Ana Rewakowicz, che è una artista/designer e ricercatrice di origine polacca (ora canadese) che vive a Montreal, ha sottolineato più volte che le sue esperienze di vita hanno influenzato la sua pratica artistica, di essere una persona “ che si è mossa da una cultura ad un’altra, ed è vissuta con adattamenti continui culturali e linguistici, che si è interessata alla questione del trasferirsi, degli attraversamenti e passaggi, e al come questo si connetta alle nozioni di identità, di appartenenza e del vivere stesso in una società di sviluppi globali e tecnologici”.

http://rewana.com/prototypes-sleeping-dress.html

“Ana Rewakowicz – Dressware and other inflatables” (monograph), 2007, texts by Craig Buckley, Cynthia Hammond, Meredith Carruthers and Gaetane Verna, Foreman Art Gallery of Bishop’s University, Sherbrooke, Canada

“Inflatable: Art, Architecture and Design”, 2014, a cura di Jacobo Krauel, LinksBooks, Barcelona, ES

 

2. “Ice Dome” (Casa di ghiaccio) è stata presentata nella Edizione del 2009 dell’@rt Outsiders Festival.

3. La prima casa di gomma gonfiabile è del 2001, realizzata in latex, originalmente per l’interno della sua stessa casa a Montreal. Si chiamava “Inside Out” e fu poi presentata al Saidye Bronfman Centre for the Arts, Montréal, QC

http://rewana.com/inflatables-installations-performances-inside-out.html

 

4.” Conversation Bubble”, 2008, PER 5 PERSONE. In ogni momento desiderato 5 persone possono gonfiare la struttura. Mentre i corpi delle 5 persone sono immobilizzati tra 2 pareti del cilindro trasparente di vinyl, le loro teste si possono muovere e chiacchierare all’interno del pallone gonfiato. La durata dell’opera dipende dall’accordo di tutte e 5 le persone di uscirne, in quanto la conversazione non può essere interrotta per decisione di 1 solo.

http://rewana.com/inflatables-installations-performances-conversation-bubble.html

 

5. “Air Cleanser “, opera site-specific realizzata per la Rosenlew Factory a Pori, in Finalndia nel 2008. E’ una cupola geodetica che si gonfia per l’aria fuoriuscente da uno dei camini della fabbrica. L’aria calda (inquinata) determina una temperatura abbastanza calda per impiantare e far crescere delle piante nella geodetica. L’opera è realizzata quasi come una verifica di una ricerca della NASA: assorbendo l’aria inquinata della fabbrica, la piantagione la purifica ed immette anche una certa quantità di aria pulita nell’ambiente

6.L’” Experimental Plant Incubator” è un sistema modulare autonomo- energeticamente autosostenibile- per la coltivazione idroponica di piante. Consisteva in una serie di palloni gonfiabili, nei quali venivano inserite le piante. Un piccolo ventilatore (fan) aerea la piccola piantagione e la infrastruttura di tubi di plastica collegati a una vasca sottostante determina la circolazione alternata dell’acqua (da e verso la vasca)

7. Il prototipo di “SR-Hab (Socially Responsive Habitat)”, 2010, è un abitat/bicicletta energeticamente autosostenibile, che combina esigenza di mobilità con eco-sostenibilità. L’elettricità autogenerata serve per alimentare ogni strumento, come il lap-top, iPod, o gli strumenti o impianto per cucinare.

 

 

‘you never know WEAR? dove sono? che indosso oggi?

Nomad Mondo di Ana Rewakowicz

Simonetta Lux

La artista Ana Rewakowicz (Polonia 1969), scultrice e pseudo-designer, realizza, con materiali biodegradabili e riciclabili (vedi il progetto Green Line del 2006 in Finlandia) delle strutture ibride, cioè pseudo-abitazioni o abiti gonfiabili che diventano” case”1. In questi progetti e in queste realizzazioni tipiche Ana incorpora la sua condizione di nomadismo, prima coatto e poi divenuto una scelta di vita. Nata in Polonia di origine ucraina, l’artista ha scelto di vivere a Montreal in Canada. Ma l’artista è continuamente in movimento in giro per il mondo, specialmente in Europa, anche in territori estremi (2009 edition dell’@rt Outsiders Festival) 2, nei quali la questione dell’abitare si fa ecologica diretta, per così dire. Ana cioè in questi casi utilizza la materia stessa dominante naturale, come ad esempio il ghiaccio , nell’ICE dome (2005)3 realizzato nel nord del Canada.

Agli inizi realizza una vera e propria casa di gomma.3

Poi l’uso del gonfiabile diviene dominante, si annuncia fin dal 2003 dalla matrice culturale inglese degli Archigram, il gruppo che negli anni ’60 in Inghilterra esplorava il rapporto tra città e nuove tecnologie, cercando tuttavia in modo anti-accademico- come è stato tipico di quel magnifico decennio- pensando al divertimento, al gioco e al piacere della persona. Lo vediamo nella proposta di Ana che chiamerei “relazionale”, implicando incontro, scambio, amicizia: la Conversation Bubble realizzata in Norvegia nel 2008. 4

Ana mantiene il senso vero e proprio, non profit diremmo oggi, degli Archigram, e ne espande l’essenza con la sua idea di una Architettura portatile, in situazioni, come scrive lei stessa, di “you never know WEAR?”, cioè situazioni di emergenza sia locali sia globali. Scrive ancora Ana: “Considering how our lives have become multi-dimensional and multi-demanding, this work attempts to comment on global uncertainties and the relation between technology and everyday life. Dressware brings our individual needs to the basic experience of survival and consists of three prototypes: SleepingBagDress, ParachuteDress and LifesaverDress.”

Un sottile senso di incertezza e di malessere attraversa quasi tutte le sue opere, come anticipando quella tensione tra desiderio, necessità e ossessione della sopravvivenza, così globalmente estesa oggi. La azione e la proposta della artista non è tuttavia bloccata dal pessimismo o dalla disperazione. Lo vediamo per il suo modo di affrontare la questione dell’inquinamento e della emergenza di sopravvivenza naturale, mostrando il possibile processo reversibile inquinamento/purificazione collegando abitacoli vegetali gonfiabili alla produzione di aria inquinata nella Rosenlew Factory a Pori, in Finalndia nel 2008 (sulla base di una ricerca della Nasa sul ruolo delle piante domestiche per la purificazione dell’aria). 5

Oppure nell’Experimental Plant Incubator un sistema modulare auto-alimentato di coltivazione idroponica di piante.6

Le immagini del 2010 del prototipo della sua autosostenibile casa-bicicletta SR-Hab (Socially Responsive Habitat), con l’artista in viaggio tra Finlandia e Polonia, ci restituiscono benessere, malinconia e gioia dell’artista. 7

 E’ lo sviluppo dell’idea della SleepingBagDress, ma prende forza interiore durante il suo viaggio in Mongolia nel 2008 dove è colpita dal vivere delle popolazioni nomadi con risorse limitate ma perfettamente efficienti. La realizzazione vera e propria, cioè il trasferimento di una condizione primitiva in una tecnologicamente avanzata avviene attraverso la collaborazione con gli studenti del Department of Mechanical Engineering nella McGill University di Montreal.

Circolarità del tempo, delle culture, delle abilità dell’uomo.

  

La materia come linguaggio interdisciplinare: intervista ad Ana Rewakowicz di Luisa Galdo.

Lidia Pribisova, una mia cara amica, editor della rivista Flash art in Slovacchia, in un pomeriggio primaverile del 2012 mi invita a fare un aperitivo con un artista venuta da lontano, dal Canada, precisamente da Montreal. Incuriosita dal fatto che il governo canadese le avesse stanziato dei fondi per realizzare un intervento artistico nel nostro paese, in Italia, accetto l’invito e in questa occasione conosco Ana. Ci siamo piaciute da subito, e tutt’ora cerchiamo sempre l’occasione per incontrarci. Lo scorso anno mi ha ospitata a Montreal, con il suo fantastico compagno Anthony, in occasione della mia residenza in Canada. Lei spesso è in giro per l’Europa, attualmente lavora a Parigi, conduce delle ricerche sull’acqua prodotta dalla nebbia. E sempre a Parigi ha intenzione di continuare le ricerche per il lavoro lasciato in sospeso, non per causa sua, in Italia. Adora Roma e spera di venire a passare il resto della sua vita qui. Dopo tutti questi anni che ci hanno portato anche a lavorare insieme, dopo tante confidenze, passeggiate, ma soprattutto tante risate posso solo che ringraziare il governo canadese per aver sostenuto economicamente Ana e mandata qui in Italia.
Dietro tanta semplicità nel relazionarsi con le persone e nell’approcciarsi ai suoi progetti, si nasconde un profondo spessore artistico ed una professionalità e competenza senza eguali. Ana Rewakowicz è un’artista unica nel suo genere, è una mente che va tutelata e preservata. E’ raro vedere come un artista riesca a confluire diverse discipline, ad elaborare le necessità del nostro tempo, mettendo al centro della sua ricerca valori tradizionali  e nuove forme esistenziali. Il suo è sempre un lavoro interdisciplinare tra l’ingegneria, l’architettura, il design, la moda, la scienza. Non è concepibile parlare di Ana Rewakowicz escludendo uno di questi riferimenti. Lei collabora da sempre con i più grandi scienziati canadesi, francesi ed italiani. Si avvale delle più sofisticate tecnologie e dei centri artistici e della scienza di tutto il mondo. Da sfondo al suo processo artistico c’è l’interesse per la materia, latex, polimer, plastica biodegradabile o riciclabile, che con gli anni ha assunto diverse forme, si è evoluta in linguaggio. E’ un artista ben consapevole del vivere contemporaneo, attraverso strutture gonfiabili, la sua cifra stilistica da sempre, elabora il concetto di nomadismo, della biomimetica, della coltivazione idroponica, dell’“heterotechnology and homeotechnology”, di spazio pubblico e privato, dell’autosostenibilità e delle energie rinnovabili. Ogni lavoro che intraprende è sempre sottoposto ad una forte coscienza ecologica, alla impellente necessità di scambio e di collaborazione, alla volontà di coinvolgere lo spettatore, elemento imprescindibile nelle sue installazioni, al gioco dell’arte.
  
Luisa Galdo: Parlami del lavoro che stai realizzando a Parigi.
Ana Rewakowicz: Nel 2012 sono andata a presentare un lavoro a Marsiglia, in un centro di arte e scienza, e ho conosciuto uno scienziato, Jean-Marc Chomaz. A lui è piaciuto molto il mio lavoro tanto da invitarmi all’École Polytechnique di Parigi per lavorare al mio progetto. A lui lavoro molto con gli artisti. Il mio progetto prevede di raccogliere l’acqua della nebbia per utilizzarla come energia rinnovabile, come una nuova risorsa. E’ un lavoro molto complesso che coinvolge diverse discipline, ed in Cile fanno questa ricerca da molti anni. In Europa non abbiamo bisogno di questa energia, ma in generale nel mondo l’acqua è la risorsa primaria per eccellenza.
L.G.: il tuo è un contributo alla scienza?
A.R.: L’arte porta qualcosa alla scienza e la scienza porta qualcosa all’arte. Noi lavoriamo insieme e quando lavori insieme a qualcuno succede sempre qualcosa di sorprendente. L’arte porta avanti la “fantasia” e la scienza offre metodi di monitoraggio rigorosi nel processo di realizzazione del “fantasioso”. E’ il ciclo in cui l’agente di monitoraggio non esiste senza il fantasioso e viceversa. Per un artista è un privilegio avere accesso alle apparecchiature che altrimenti non sarebbe raggiungibile. Per questo lavoro tradizionalmente si utilizza la rete per pescare ma questo è un processo inefficace, perché si riesce ad incamerare solo 12% di acqua. Il nostro obiettivo è quello di aumentare l’efficacia di questo processo. Il primo problema che abbiamo riscontato è quello di drenaggio delle gocce dell’acqua, una volta intrappolate dalla rete non scendono giu. Abbiamo iniziato a studiare una nuova proposta cambiando il disegno della trama della rete, invece di quelle intrecciate abbiamo pensato ti crearle in verticali, tanti fili verticali. Ci stiamo ponendo molti quesiti per non utilizzare componenti chimici, come fanno in America, per avere un migliore risultato. Ultimamente abbiamo anche incorporato al progetto un giovane dottorando che si occupa del lato scientifico. 
L.G.: Ma so che stai lavorando anche ad un altro progetto
A.R.: Si vorrei continuare il lavoro che ho iniziato in Italia ma cambiando delle componenti. Ho abbandonato l’idea iniziale, quella di utilizzare delle strutture gonfiabili, la mia ricerca adesso si è spostata sull’acqua, per realizzare una struttura che continuasse sempre l’arcata del Ponte Rotto ma dalla quale fuoriescono tante gocce d’acqua per creare un arcobaleno.
L.G.: Fantastico! Colgo l’occasione allora per chiederti della tua esperienza in Italia.
A.R.: Io credo che il più grande problema a Roma sia che non ci sono progetti per opere pubbliche e che il pubblico non è abituato ad interventi artistici nella città. Ho capito questo in tutto questo tempo trascorso a Roma. I ruderi, i resti di Roma antica, sono come le mucche per gli indiani una “secret cause”, non si può toccare, non si possono fare interventi.
L.G.: Perché secondo te?
A.R.: per voi il passato è molto importante, è imperante, ma solo a Roma perché in altre città d’Italia, tipo Milano, non è cosi. Poi non ci sono supporti economici per progetti pubblici, anche per l’architettura, per l’urbanistica, la città non si può toccare.
L.G.: ma l’artista fa un intervento temporaneo.
A.R.: esatto! Per me fare progetti pubblici vuol dire invitare il pubblico a ripensare alle cose.
L.G.: Quindi noi non possiamo costruire una storia contemporanea. E tu non molli sono anni che ci lavori.
A.R.: Si non mollo come dice Lida Pribisova noi dell’est siamo testardi!
Il progetto esiste sulla carta, mi hanno aiutato molte persone a Roma, Locardi-Cipriani e tanti altri, ma non siamo riusciti ad avere un permesso perché per avere un permesso hai bisogno di finanziamenti, e per avere i finanziamenti hai bisogno dei permessi.
L.G.: Come pensi di agire.
A.R.: per me è importante che il progetto continui ad avere visibilità. Il Macro ha intenzione di prendersi l’istallazione che ho realizzato all’istituto polacco ed esposta anche per tutta l’estate all’isola Tiberina, per realizzare una mostra. Questo per me è importantissimo.
L.G.: Quindi speriamo di vederti presto al Macro!
Parlaci della tua multidisciplinarietà.
A.R.: La multidisciplinarietà per me è importantissimo , è il modo per migliorare il mondo, la collaborazione, la comunicazione è fondamentale.
L.G.: Nel tuo percorso artistico è visibile come ogni idea nasce e si sviluppa. Nel 2011 hai realizzato l’opera The Cloud, una nuvola fatta con Icarex, una sorta di tessuto utilizzato per gli aquiloni, adesso ti occupi realmente della nebbia.
A.R.: Ho presentato la nuvola a Marsiglia nel 2012 proprio per iniziare un lavoro delgenere. E li che ho incontrato lo scienziato con il quale lavoro adesso a Parigi. Lì c’è stato l’incontro di due persone che erano pronte per affrontare questo progetto.
L.G.: Già avevi pensato di iniziare questo lavoro a Marsiglia?
A.R.: Si e no, all’inizio volevo fare qualcosa con l’aria perché ho sempre lavorato con l’aria. Ho proposto a Pierre Jutras, un ingegnere canadese, con il quale lavoro da sempre, il mio progetto. Da subito abbiamo visto che con l’aria la mia idea non si poteva realizzare perché l’aria non è abbastanza pesante, per un problema tecnico, quindi abbiamo pensato all’acqua e con quello ha funzionato, tutto era perfetto! Idea e tecnica insieme.
L.G.: Come funziona la nuvola?
A.R.: Ci sono delle bottiglie colme di acqua a terra all’interno delle quali sono inserite dei tubi collegati alla nuvola sospesa con dei fili in aria. Quando la gente pompa l’acqua dalle bottiglie la nuvola diventa pesante e scende, perché all’interno della nuvola c’è un meccanismo che accumula ed espelle l’acqua. Quando è pesante scende poi avviene una piccola pioggerellina si svuota e ritorna su.
l.G.: Geniale! Parlaci invece del tuo lavoro con l’aria. Hai iniziato creando palloni inserendoli in uno spazio, poi quei palloni li hai trasformati in una casa gonfiabile, fino a creare un pallone gigante dove hai inserito delle persone per farle conversare.
A.R.: Tutto è cominciato con il mio interesse per i materiali, ho iniziato con latex perché era molto simile alla pelle. E mi sono chiesta cosa posso realizzare con questo? Quindi i primi oggetti gonfiabili li ho fatti partendo dal corpo, vestiti gonfiabili, poi ho iniziato ad esplorare l’esterno, le stanza, la stanza che viaggia, poi l’evoluzione. Ho iniziato da cose piccole e poi sempre più grandi. Adesso è tutto il mondo.
L.G.: Hai abbandonato il latex
A.R.: Si è un materiale molto sensibile al sole, ed altri elementi, poi ho preferito la plastica, polimer, ma ero interessata sempre ad una plastica riciclabile, o biodegradabile, sono molto sensibile alle cause della natura.
L.G.: ma quando è avvenuto esattamente il cambiamento da un materiale ad un altro?
A.R.: nel 2003-2005.
L.G.: Chi ti ha supportato economicamente?
A.R.: Il Conseil des arts des lettres du Québec, ma le ricerche le ho fatte da sola. Ero interessata ai differenti polimer, è un materiale che si utilizza per l’architettura, per scopi differenti. In SleepingBagdress volevo fare qualcosa più resistente del latex. Volevo mostrare in giro il mio lavoro, dormirci dentro.
L.G.: Anche in questo si vede la fase embrionale della tua idea, prima crei un vestito per le persone, poi  la casa per le persone ed infine una casa per le piante.
A.R.: Con materiali anche biodegradabili. Ho iniziato in Finlandia, li ho trovato questo materiale e me ne sono innamorata, loro lo ricavavano dall’immondizia alimentare. Era molto sottile e bello come la seta. Ho contattato la ditta che produceva questo materiale, e mi hanno aiutato con tutto, mi hanno fornito il materiale, mi hanno aiutato con i permessi, e con la realizzazione dell’opera. Sono stata sorpresa della loro disponibilità ed interesse. Hanno fatto tutto.
L.G.: Come a Roma.
A.R.: Dopo l’esperienza della Finlandia sono venuta a Roma e ho pensato di avere lo stesso trattamento, ma non è stato cosi. (ridiamo)
L.G.: forse in Finlandia c’è una concezione diversa dell’arte?
A.R.: molto diversa. Io pensavo di non essere considerata, ed invece. Abbiamo fatto tutto in un mese e mezzo.
L.G.: Comunque la tua stessa osservazione l’ha fatta Cèsar Meneghetti, l’artista italo-brasiliano. “In Brasile gli artisti si sentono più liberi di creare e di spaziare con diverse tecnologie, il confronto con la storia non è cosi forte. In Italia fare l’arte è una cosa seria.”
A.R. Si esatto.
L.G.: Quindi con questo materiale hai realizzato altre cose?
A.R.: Avevo pensato di realizzare le arcate del Ponte Rotto, ma era troppo sottile quindi da un punto ingegneristico non era possibile. In Italia mi hanno aiutato molte persone, avevo trovato anche una azienda milanese interessante, Ferrari, un azienda che lavora con materiali riciclabili.
L.G.: Sempre in Finlandia hai iniziato a lavorare con le piante
A:R:: Si ho fatto un intervento con la purificazione delle piante. Ho incubato delle piante lasciandole assorbire i fumi di una fabbrica per vedere il loro grado di purificazione.
L.G.: Molti filosofi e studiosi sostengono che nella nostra era la tecnologia non è l’oggetto della storia ma il soggetto. Che ne pensi?
A.R.: Forse andiamo in questa direzione. L’intelligenza artificiale è una realtà imponente, ma non credo che possa risolvere i problemi. Peter Sloterdijk parla di “heterotechnology and homeotechnology”, sull’imitazione della natura e continuando principi naturali di produzione ma un livello artificiale come metodo per arrivare ad un diverso tipo di interazione con la natura.
L.G.: Forse creeremo una natura artificiale. Quando sono stata in Canada ho incontrato molti artisti che tentano di creare o lavorano con il concetto di natura artificiale. Ma tu lavori con le energie rinnovabili tu sei legata al mondo reale.
A.R.: Noi siamo parte della natura non siamo fuori dobbiamo comunicare con essa.
L.G.: quindi dipende dall’uso che si fa della tecnologia.
A.R.: Esatto, è lo stesso per internet, tutto.
L.G.: ma è anche una questione culturale, la tecnologia ormai è in tutto
A.R.: Ma l’intenzione è fondamentale, anche creare una bomba e far esplodere persone è un atto creativo, ma che uso vuoi farne? quale è la nostra intenzione? Vogliamo lavorare per migliorare il mondo? Ma tante persone lavorano solo per preservare il proprio potere.
L.G.: Cosa rende un intenzione buona? La società come sosteneva Rousseau, nel “Contratto sociale”? Perché dobbiamo partire dal concetto che tutti siamo buoni?
A.R.: E’ una questione complessa, nel senso che cosa si intende per buona società? Ognuno ha una propria visione. Penso che dobbiamo imparare dalla natura certi equilibri.
L.G.: Abbiamo bisogno di artisti come te, dobbiamo difendere gli artisti che lavorano con la natura. Ma parliamo anche del tuo concetto di casa che ricorre in molte tue opere.
A.R.: Si è sempre stato presente questo aspetto. Sono partita dalla Polonia, poi sono andata in Italia, poi in Canada e mi chiedevo sempre quale è la mia casa, ho perduto un centro fisso, parlo tante lingue anche se imperfette. Allora c’è un momento che il tuo corpo è la tua casa e poi inizi ad esternare costruendo qualcosa intorno al tuo corpo. Ora mi sento come la cittadina del mondo. E’ stato un viaggio che ho iniziato dal mio corpo e poi sono data avanti, èla storia della mia vita. Ma dove sta la mia casa adesso?
L.G: La natura è la tua casa.
A.G.: Se vogliamo vivere in questo mondo dobbiamo prendercene cura.
L.G.: per te è fondamentale anche la relazione con le e cose e le persone.
A.R. La partecipazione alle cose ti cambia, la comunicazione esiste per cambiare.
L.G.: dobbiamo creare una società mobile, una “mobile society”.

 

Dall’alto:

 

1- Esperimenti all’ École Polytechnique di Parigi, 2016

2- Esperimenti all’ École Polytechnique di Parigi, 2016

3- Ponte Rotto, Roma, 2012

4- The Cloud, 2011, installazione interattiva, mix di materiali, dimensioni variabili.

5- SR-Hab (Socially Rsponsive Habitat), 2010, prototipo, Finlandia.

6- SR-Hab (Socially Rsponsive Habitat), 2010, prototipo, Finlandia.

7- Conversation Bubble, 2008, PVC, ventilato, 3x3x5,6 m.

8- Air Cleanser, 2008, installazione, plastica, piante, 2×1,5 m, Finlandia.

9- Esperimento piante in incubazione, 2008, Finlandia.

10- Green line Project, dicembre, 2006, land art, materiali biodegradabili (BIOSKA), 350 m, Finlandia.

11- Green line Project, dicembre, 2006, land art, materiali biodegradabili (BIOSKA), 350 m, Finlandia.

12- Ice Dome Project, Lachine Canal, Montreal, Canada, 2005

13- SleepingBagDress prototype, 2003-2005

14- SleepingBagDress prototype, 2003-2005

15- A Modern Day Nomad Who Moves as She Pleases, Montreal, Canada 2005

16- The Occupants, Montreal, Canada 2002

17- Inside Out, 2001