A Raphaèl Sorin qui lui demandait, pour Vidéo 2, pourquoi il s’attaquait à la télévision, Vostell répondit:

“C’est qu’elle m’attaque! Je ne fais que contre-attaquer”
(Jean-Paul Fargier, Wolf Vostell. Le grand trauma, in “Cahiers du Cinema”, n. 332, février 1982, p. 24) 

Di fronte alle bombe intelligenti e ad un’ennesima guerra americana quasi dimenticata tra le notizie trasmesse in televisione, la posizione politica assunta fin dall’inizio dalla Germania, alla ricerca di una legalità internazionalmente riconosciuta, con il rifiuto dello strumento bellico per la risoluzione dei problemi, trova un suo rimando artistico in un’opera del tedesco Wolf Vostell intitolata B 52, dove l’aereo americano impiegato negli anni Sessanta in Vietnam (e oggi in Iraq) sgancia file di rossetti e denuncia la brutalità spesso esteticamente – cosmeticamente – nascosta.
Fin dal secondo dopoguerra del resto, con la divisione della Germania in due realtà ideologiche e politiche distinte, il rifiuto della guerra e il problema della scelta tra l’impegno e l’evasione hanno spesso dominato la ricerca artistica tedesca che ha assunto la forma di una ricerca della propria identità nazionale, come emerge anche dalle installazioni presentate negli anni alle Biennali di Venezia, fino al pavimento distrutto della Germania di Hans Haacke del 1993: la Schuldfrage, la “questione della colpa” secondo il titolo di un pamphlet dell’immediato dopoguerra nel quale Karl Jaspers pose la questione della responsabilità del popolo tedesco nei confronti del nazismo, sembra continuare ad ossessionare l’inconscio collettivo della generazione di Wolf Vostell gravando sulle scelte attuali.
A circa un mese dall’inaugurazione della corrente edizione della Biennale, che quest’anno presenta nel padiglione tedesco l’esposizione di opere di Candida Hofer e Martin Kippenberger, quest’ultimo, tra l’altro, autore negli anni Ottanta di un ciclo di opere nel quale Babbo Natale si scaglia contro le navi da guerra, la forza evocativa del padiglione tedesco della precedente edizione è sempre presente. Due anni fa infatti Gregor Schneider presentava una ricostruzione in scala reale della casa della sua infanzia e l’installazione, che valse alla Germania il Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale, era intitolata Totenhaus, letteralmente “casa dei morti”.
Nel 1958, in un contesto di denuncia del nuovo mezzo televisivo, Vostell aveva già realizzato una ricostruzione “privata”, la Schwarzes Zimmer (1), la “camera nera” della memoria tedesca, creando un’analogia tra nazismo ed informazione televisiva ed associando i campi di sterminio rievocati in tre assemblaggi sull’Olocausto agli avvenimenti del 1936, quando la strumentalizzazione dei Giochi Olimpici di Berlino da parte della propaganda nazionalsocialista si avvalse del mezzo televisivo. Tra materiali compositi, transistor, asfalto e filo spinato, un televisore trasmetteva immagini confortanti, persino una Maya Desnuda di Goya, ma erano solo eccezioni in un contesto di disperazione.
Nello stesso anno, in un lavoro intitolato Transmigracion (2), l’artista inserisce il primo televisore presente in un’opera d’arte: dietro un taglio orizzontale, una televisione trasmette un cattivo segnale dal canale UHF; da allora, schermi televisivi sintonizzati su programmi locali, iniziano ad essere collocati da Vostell nelle “ferite” di quadri e di blocchi materici per trasmettere senza sosta il flusso quotidiano delle informazioni.
In un’epoca in cui quasi nessuno ipotizzava l’uso critico di uno strumento come la televisione (un uso diverso e politico del mezzo, fino ad allora adoperato negli Stati Uniti essenzialmente come mezzo di documentazione di performance e body-art, inizia ad essere proposto nel 1970-71 con la rivista “Radical Software” di Ira Schneider e con la pubblicazione di Guerrilla Television di Michael Shamberg), Wolf Vostell critica e classifica come pericoloso ciò che era ritenuto comunemente simbolo del benessere e dell’avanzamento sociale.
Un ulteriore atto di riverenza ironico e non certo servile alla televisione l’artista lo rende nel 1959 con l’happening teletrasmesso TV dé-coll/age Ereignisse und Handlungen fur Millionen, dove emerge soprattutto la volontà di rifiuto della passività davanti al piccolo schermo. Brevi indicazioni da eseguire come “sedetevi vicinissimi allo schermo e lavatevi i denti” o “correte o strisciate nella vostra stanza e ripetete tutto ciò che viene detto in televisione”, agendo coercitivamente sullo spettatore, lo incitano a respingere la manipolazione ideologica esercitata dal nuovo medium. Tutte le azioni suggerite (baciare un volto sullo schermo, bere una coca-cola pensando alla pubblicità della pepsi, stendersi nel letto con la televisione sotto le coperte) devono essere compiute da soli in una stanza chiusa, e sottolineano la natura privata e intima dell’happening che riflette la condizione d’isolamento nell’attuale società; lo scopo è quello di provocare la reazione e la partecipazione dei telespettatori, generalmente irrigiditi e passivi davanti allo schermo, anche di fronte alle immagini di guerra mostrate attualmente.
Tra le azioni da svolgere, si chiede al telespettatore di strappare o ritagliare (il riferimento è naturalmente al processo del dé-coll/age ideato da Vostell) una bottiglia di cognac riprodotta sulla pagina pubblicitaria di una rivista e di continuare a guardare la televisione attraverso la forma vuota della pagina; la sovrapposizione di differenti livelli di realtà, apparentemente contraddittori e privi di legami, è comparabile al processo dei manifesti strappati e rivela anche il legame con i videotapes realizzati da Vostell nei quali più strati di immagini si moltiplicano senza fine.
Significativo in proposito il film a 16 mm Sun in Your Head (3) del 1963, video di sette minuti nel quale le immagini sono riprese da comuni programmi della televisione tedesca alterati elettronicamente con varie tecniche, ad esempio attraverso l’uso di calamite. Filmando direttamente allo schermo una trasmissione televisiva, Vostell offre una campionatura dei generi dominanti i programmi dell’epoca: presenta, tra le altre immagini caotiche d’attualità, l’ammaraggio di una capsula spaziale, frammenti di un programma intitolato Magazin der Woche, scene di un documentario della Seconda Guerra Mondiale sull’US Air Force e altri estratti di telegiornali, mescolando un reportage su una manifestazione di strada ad una riunione di responsabili governativi e industriali.
Il primo video realizzato da Vostell allude, già nel Sessantatré, con il contrasto tra l’oggetto-televisore statico e il flusso delle sequenze di immagini in dé-coll/age, al bombardamento incessante delle informazioni attraverso i media. La tecnica della sovrapposizione di immagini estrapolate da trasmissione televisive ritorna in successivi video dell’artista ma è accantonata in TV Cubisme del 1985, prodotto dalla RTBF di Liegi per la trasmissione “Vidéographie” di Jean-Paul Tréfos: figure femminili truccate pesantemente si aggrovigliano, accarezzano blocchi di cemento in un gioco di sovrimpressioni; la telecamera segue le teste in movimento delle modelle sedute su sedie girevoli mentre i corpi continuano a ruotare, a torcersi in un vortice accompagnato da un ritmo sonoro di voci, soffi, gemiti e respiri cadenzati.
Il soggetto di questo video, il confronto tra materia animata e materia inanimata, ritorna nel corso degli anni Settanta e Ottanta anche nelle dieci versioni, eseguite dal 1975 al 1986, di Endogene Depression (4-5), nelle quali la presenza di televisori è associata ad esseri animali che sottolineano il contrasto tra l’universo naturale e l’artificialità della macchina. La prima versione dell’environment del 1975 mostra una serie di televisori accesi, immobilizzati in colate di cemento, con tacchini che circolano nella stanza; l’installazione, però, viene modificata nelle differenti sedi: a Lisbona nel 1978 ed a Lione nel 1979, i tacchini erano sostituiti da dieci cani; nel 1980, invece, all’Institute of Contemporary Art di Los Angeles, di nuovo numerosi tacchini si aggiravano tra trenta monitor televisivi alterati nel suono e nell’immagine, e cementati a metà; inoltre all’interno di cassetti semi-aperti la presenza di foto di indiani d’America quasi interamente ricoperte di cemento alludeva a una realtà soffocata della storia americana.
E proprio in America, a New York, nel maggio del 1963, Wolf Vostell aveva presentato alla Smolin Gallery l’opera 6 TV-dé-coll/agen, la prima “videoinstallazione” esposta negli Stati Uniti, nella quale sei televisori presentavano diverse forme di anomalie, anche con immagini estrapolate da comuni trasmissioni televisive, smontate, ricomposte e alterate da disturbi e interferenze. La distorsione elettronica trasformava le immagini in sequenze nuove e astratte secondo un processo di “destrutturazione” (o dé-coll/age) del flusso elettromagnetico.
All’interno del contesto Fluxus, ‘movimento’ al quale l’artista si avvicinò negli anni Sessanta, l’interesse di Vostell per il nuovo mezzo televisivo, del quale previde l’enorme potenzialità massificatrice, è parallelo al contemporaneo lavoro di Nam June Paik che l’11 marzo del 1963 presenta alla Galerie Parnass di Wuppertal l’opera 13 Distorted Tv-sets. Convenzionalmente si fa coincidere la data di inizio della “videoarte” con questa mostra di Wuppertal dal titolo Exposition of music/Electronic television, dove l’artista coreano espone tredici monitor, posizionati in sequenza orizzontale su mobiletti in legno e sintonizzati su trasmissioni televisive, ma alterati tecnicamente con l’applicazione di magneti al tubo catodico.
Pur non assumendo l’arte elettronica come privilegiato territorio di ricerca, Vostell, come Paik o Joseph Beuys, elabora già alla fine degli anni Cinquanta opere nelle quali appare il mezzo televisivo, o nelle quali sono presenti delle immagini alterate elettronicamente; solo dall’ottobre del 1965 però, sarà possibile intervenire direttamente e curare in prima persona la produzione dell’immagine con la messa in vendita, a prezzo accessibile, sul mercato statunitense, di uno strumento portatile per la registrazione su nastro magnetico, il Portapack della Sony.
La “videoarte” e le “videoinstallazioni” nascono quindi alla fine degli anni Cinquanta con Wolf Vostell e Nam June Paik in Germania, in un periodo in cui il monopolio dell’informazione e delle immagini video è ancora delle grandi stazioni televisive. In Vostell l’atto di ribellione contro questa situazione di monopolio si esplica nell’attacco alla televisione come simbolo dell’ideologia di un sistema da sovvertire con gli unici mezzi allora possibili, con la distorsione delle immagini quotidiane o con il loro inserimento all’interno di sculture che ne rivelino la parzialità.
L’attacco è sferzato contro la mitologia tecnologica denunciando l’alienazione collettiva nell’era dei mass media; nelle sue opere i televisori sono avvolti con filo spinato, sotterrati, cementati, fucilati, incastrati nel sesso di una donna o nella gola di un lupo imbalsamato, gettati su letti d’ospedale (6) o tra frammenti di vetro e scarpe logore (7).
Il gesto, non sempre solo simbolico, di distruzione, rappresenta un atto di liberazione dal controllo e dall’influenza massmediatica. Esso si manifesta in Vostell con una veemenza ormai quasi sopita nell’attuale arte elettronica che, come emerge dall’ultima Biennale e soprattutto dalla precedente edizione (quella con il maggior numero di video mai presentata), nell’autoesaltazione della propria tecnica, molto spesso rinuncia alla polemicità e alla potenza irruente dei suoi esordi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dall’alto:

Wolf Vostell, Deutscher Ausblick, dal ciclo Schwarzes Zimmer, 1958/59, dè-coll/age, legno, filo spinato, metallo, rivista, ossa, apparecchio televisivo, cm. 197,5 x 129,5 x 81,5

Wolf Vostell, Transmigracion, 1958, olio/tela; lacerazione con TV, cm. 92 x 100 x 39

Wolf Vostell, Sun in Your Head, 1963

Wolf Vostell, Endogene Depression, 1983, Musèe d’Art Moderne de la Ville de Paris

Wolf Vostell, Endogene Depression, 1983, particolare dell’environment

Wolf Vostell, You, 1964, Long Island

Wolf Vostell, E.d.H.R., Elektronischer dè-coll/age-Happening Raum, 1968, particolare dell’environment