PROPORTIO

 

di /by Antonella Greco

 

 

Connettere più che dividere, unire macrocosmo e microcosmo, scienze e arti, sembra essere il tema principale di questa mostra, evento laterale ma straordinario di questa Biennale. Un tema filosofico, prima ancora che estetico, concettuale e aperto nello stesso tempo a opere scientifico- filosofiche, architettoniche, infine “artistiche” in senso lato. E se porre il problema della Proportio e del numero d’oro nello spazio funambolico di Palazzo Fortuny (una wunderkammer stipata di curiosità e piena di magia) aveva l’aria della quadratura del cerchio, della razionalizzazione forzata di un ambiente unico e plurimo, sacro e profano, fatuo e profondo nello stesso tempo, il caleidoscopico risultato riporta ad unum la mirabolante esplosione di opere di colore consistenza tecnica e cronologia diversissime tra di loro.

Le opere contemporanee non riducono il senso dell’accumulo insito nella casa studio del pittore spagnolo (dove, nella penombra, si contendono lo spazio pezzi archeologici e fossili protozoici, maquettes di scenografie e interni di teatro, affreschi e pitture, foto e sculture) ma forse lo accrescono. Miracolosamente, divina Proportio sezione aurea o serie di Fibonacci non si contrappongono all’eccesso ambientale, ma vi si sovrappongono armonicamente, tanto che dapprincipio ci si chiede quali siano le opere realmente in mostra e quali le preesistenze: queste ultime a testimonianza di quel ricchissimo fine/inizio secolo di decadenza veneziana di cui parlano Ruskin e il suo esegeta Proust, con Henry James e il protagonista dei suoi Aspern Papers (1888).  Un periodo d’oro, malgrado o forse in ragione della decadenza fisica e politica di Venezia, che vede l’invenzione della mostra Biennale (1895) proprio come motore per una futura rinascita. Tre anni dopo, Mariano Fortuny y Mandrazo compra il Palazzo Pesaro  Orfei adattandolo alle sue esigenze artistiche e industriali. Dal 1907, in questo rutilante atelier si comincia a produrre le stoffe e i vestiti che incanteranno Proust. (Le vestaglie di Odette, quella tiepolesca – e dichiaratamente Fortuny- che Albertine amava, i vestiti neogreci ispirati all’auriga di Delfi indossati dalla marchesa Casati e dalla signora Condé Nast in una famosissima foto, i velluti stampati con motivi rinascimentali).

Moltissime le opere in mostra, pure accuratamente nascoste o perfettamente integrate tra i velluti le bacheche i dipinti gli oggetti e le foto in un elenco di nomi, di architetti e di artisti, che trascorre da Marina Abramovich a Raphael  Zarca, con trattati antichi, foto, sculture, allestimenti, maquettes disegni, persino uno sgabello di Le Corbusier strappato all’Unité d’habitation e quindi costruito sui rapporti del Modulor .

Oltre che in termine di proporzioni, è facile ragionare in quelli di bellezza, forse perché sezione aurea e bellezza sono stati a lungo sinonimi, come per lo sfolgorante dipinto di Ellsworth Kelly, Red, yellow Blue, del 1963, prestato dalla Fondazione Maeght – tre quadrati in proporzione di assoluto fascino divenuti il logo della mostra – o il ritratto femminile di Sandro Botticelli del 1485 a significare che nello specifico della proportio non c’è alcuna differenza tra figurativo e astrazione. Andando a memoria e salendo una angusta scala, registriamo Andromeda (2000), una grande composizione di Anselm Kiefer in cui si incastonano rami d’albero, il trattato di Albrecht Durer sulla simmetria del corpo umano in edizione latina e in quella italiana editata a Venezia (1557,1594), una quasi interpretazione metallica del suo schema proporzionale in una figura di Anthony Gormley.  Proseguendo, il piano nobile ci accoglie con un’esplosione di immagini e di oggetti, dove al centro coesistono i modelli di architetture – come la Villa Savoye, macchina perfetta di simmetrie e rimandi, ricostruzioni in scala di edifici storici, come quella dell’edificio belvedere della Villa Pisani a Stra secondo i disegni di Gerolamo Frigimelica (1720 c.), progetti impossibili come il Monument to unknown people (2008-2009) di Ilia ed Emilia Kabakov, o maquettes di opere poi realizzate come quella di Fausto Melotti che sembra essere il filiforme bozzetto dello sfortunato Contrappunto di Gibellina (1983).

Qui si alternano lavori, dove i rapporti geometrico matematici sono programmatici, come nei due grandi Vasarely bianco/neri, positivo/negativo (Erebus e Terreur, 1957), come in Tomas Saraceno la cui composizione geometrica e trasparente fluttua al centro della sala, come in un piccolo straordinario Ben Nicholson (1940), in Sol Lewitt, Robert Ryman e molti altri, con lavori in cui i rapporti coloristico proporzionali sono utilizzati intuitivamente, come nella composizione verde/rossa di Carla Accardi sulla porta della sala o nel video di Bill Viola, un contrappunto di due variazioni dello stesso personaggio seduto in poltrona o ancora nei due grandi arazzi bianco neri e optical di Alighiero Boetti.   Si va per assonanza o per contrapposizione. E’ ovvio che le quattro grandi serigrafie di Luciano Fabro sulla facciata del Redentore (Ogni ordine è contemporaneo di ogni altro ordine: quattro modi di esaminare la facciata del Redentore a Venezia, 1972-73) come enormi pagine di trattati architettonici, siano accostati ai Quattro libri dell’architettura di Andrea Palladio, opera che vide la luce a Venezia nel 1570, mentre è molto vicino a un piccolo Joseph Albers giallo e arancione che squilla didattica del Bauhaus. Ancora, nella stessa linea, una delicata pittura geometrica ocra e celeste di Giuseppe Santomaso (Lettera a Palladio 1977).

Alcune opere si impongono con solitudine e silenzio come una potente immagine di Shirin Neshat (Soliloquy Series, 1999) dove una figura umana velata è contrapposta, come un birillo, una colonna, un modulo, a un’architettura occidentale contemporanea, monumentale e tirannica nello stesso tempo, con l’incombenza della sua simmetria, le scale magniloquenti, gli archi del basamento, la barriera ritmata dei brise-soleil, l’enorme attico: totalmente chiusa e impenetrabile, come metafisico simbolo di un qualche potere di fronte all’apparente debolezza di una sola persona sigillata in un bozzolo nero.

Altre sono eccentricamente e magnificamente in tema, con tutta la sprezzatura e l’understatement del caso, come la composizione di Marisa Merz del 1993 (già vista alla Serpentine Gallery nel 2013) figure geometriche triangolari in filo di rame lavorato ai ferri che si rimpiccioliscono proporzionalmente arricciolandosi sulla parete, mentre un elemento quadrato modulare si innalza triplicandosi a sorreggere una testina di argilla cruda.

Altre ancora studiano il corpo, nei video, dove questo viene lentamente stressato e disarticolato (Thais, Henry Foucault, 2008) o nelle sculture, virtuosisticamente veristiche e un po’ repellenti come il nudo maschile inarcato su veri guanciali di Romeu di Berlinde de Bruyckere, 2010.

Enormi modelli di scenografie di Fortuny, come quello per il Teatro delle feste (1920-29) ci confermano che la fortuna dell’artista spagnolo è sopravvissuta a lungo alla fine dell’epoca dannunziana e alle catastrofi delle guerre, mentre velari trasparenti cadono dal soffitto dello studio riproponendoci una grande biblioteca e le figure ectoplasmatiche di Virginia Woolf e di Alice Liddel nel ritratto dall’inquietante reverendo Dogson (Izhar Patkin, 2015).

Si cammina senza freni o confini nel tempo, nello spazio, nelle tecniche e nei significati. Si sale ancora trovando marmorei Canova e ancora l’ istallazione sonora e spaziale di Marina Abramovic, 2015.

In basso, a ribadire lo stretto e collaudato legame tra proporzione e architettura, l’immensa sala gondola del palazzo è occupata, in penombra, da una serie di padiglioni in canapa e calce viva progettati dall’architettoTatsuro Miki e da Axel Vervoodt (interior decorator e curatore, con Daniela Ferretti, della mostra) secondo collaudati rapporti proporzionali (radice quadrata di 2, il quadrato, la sezione aurea, la radice quadrata di 5 e quella di 3) “così da rendere le proporzioni percepibili e le idee visibili”, come scritto in catalogo.

Divina proporzione e numero d’oro richiedono senz’altro una necessaria pausa di rigore nel frastornante frastuono dei piani superiori; è un fatto però che, confrontati con l’ambiente bianconero di Gathering Clouds di Anish Kapoor (2014), una istallazione su pareti bianche di sei dischi concavi neri a distanza proporzionale, accostati a un “sublime” solido irregolare nero di Alberto Giacometti (Cube, 1935) che da soli varrebbero la visita alla mostra, questi padiglioni così minimalisti ecologici e proporzionali producano invece un qualche effetto vertiginoso di ridondanza.  Quello che ancora percepiamo inoltrandoci nei meandri delle viscere del palazzo tra bassorilievi romani e massi di Chillida, strategie geometriche di designer italiani (Nanda Vigo) e grandi foto di cattedrali gotiche. Queste ultime, chissà, forse ancora per un ricordo di Ruskin o per un tardivo omaggio a Proust nello spirito di un persistente genius loci.

 

Nota redazionale:
La nota critica di Antonella Greco Proportio, originariamente pubblicata nel numero Speciale 56° Biennale di Venezia (N°56/2014) viene ripubblicata, essendo stata cancellata nell’indice originale, dove appare tuttora.
Proportio in Palazzo Fortuny

 

 

 

 

 

 

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Ellsworth Kelly, Red, yellow Blue, 1963
Vasarely, Erebus e Terreur, 1957, Tomas Saraceno (composizione geometrica e trasparente fluttuante al centro della sala), Ben Nicholson (1940)  in primo piano
Tatsuro Miki e Axel Vervoodt (dettaglio)
Anish Kapoor (dettaglio)