Come deve essere oggi un museo per l’arte contemporanea? Quale può essere il suo ruolo?
Queste le domande centrali che si è posto Jan Hoet nel realizzare il primo museo belga dedicato all’arte contemporanea: lo SMAK (Stedelijk Museum voor Actuele Kunst) di Gand.
L’acquisizione di opere d’arte contemporanea era già stata avviata dal 1957 in seno al Musée des Beaux Arts, grazie all’iniziativa e al sostegno dell’Associazione Amici del Museo che hanno raccolto fondi per incrementare la collezione e, nel corso degli anni, hanno organizzato conferenze e contribuito ad editare libri, cataloghi e la rivista bimestrale a carattere europeo “Kunst Nu” (“Arte Oggi”). Dopo quasi vent’anni, nel 1975, Jan Hoet viene nominato direttore del nuovo museo d’arte contemporanea, ma ancora per altri vent’anni, la collezione resta collocata nel vecchio edificio del Musée des Beaux Arts, situato di fronte a quello attuale, e viene esposta solo in occasione di eventi eccezionali e in modo frammentario.
L’inaugurazione della nuova sede è quindi molto recente (1999) ed è frutto di un lungo lavoro di sensibilizzazione del pubblico di Gand condotto da Hoet con alcune iniziative memorabili, che gli hanno dato una notorietà internazionale, come la mostra “Chambres d’Amis” (1986) con la quale chiamava l’intera città fiamminga all’esperienza dell’arte contemporanea. Coerente con questa iniziativa il nuovo museo di Hoet, quale luogo dell’esperienza e della creatività contemporanea, si pone come cerniera all’interno di un sistema territoriale/metropolitano che mette direttamente in relazione arte/artisti/pubblico. Lo stesso edificio mostra la trasparenza di questo dialogo: si tratta di una costruzione simmetrica una volta destinata a casino, collocata ai margini del grande parco di Gand (CitadelPark) e trasformata sul finire degli anni ’40 dopo che, durante la seconda guerra mondiale, erano andati distrutti i due grandi padiglioni ovali di testa.
La trasformazione dell’edificio a museo si deve all’azione coordinata tra Hoet, il personale del museo e un architetto locale (Koen van Nieuwenhuyse) che, in aperta critica con la tendenza degli ultimi tempi che punta sui grandi musei/musei de se stessi, hanno mirato a sottolineare l’identità dell’opera d’arte, la sua complessità e a realizzare un dialogo con lo spettatore. La parte centrale con i tetti di vetro permette un’illuminazione zenitale, mentre nelle sale laterali, le grandi vetrate mettono in contatto l’interno con l’esterno (il Parco), aprendo lo spazio del museo ad interferenze urbane. Il piano terra è destinato alla collezione permanente, mentre il primo piano è per le esposizioni temporanee (bellissima la recente grande antologica di Luigi Ontani, Genthara); parte integrante del museo sono anche un’enorme sala completamente vetrata (per ora utilizzata per le opere di Panamarenko), gli ateliers per gli artisti, la libreria. Il museo si propone come luogo di luce dove è l’opera che fa lo spazio: non ci sono interventi visibili, identificabili e gli ambienti sono flessibili, aperti e comunicanti tra loro.
La collezione permanente è ricchissima dalla A alla Z: da Marina Abramovic (ormai un’icona) a Gilberto Zorio, passando dai belgi Marcel Broodthaers, Jan Vercruysse, Wim Delvoye, Jan Fabre a un nutrito gruppo di italiani, per lo più artisti poveri (Anselmo, Calzolari, Fabro, Gilardi, Merz, Paolini, Pistoletto, Kounellis), poi c’è Beuys, Richard Long, Donald Judd, Dennis Oppenheim, Bruce Nauman e via sciorinando fino a Vanessa Beecroft: tutte scelte nel segno dell’internazionalitˆ (dove l’America come al solito fa la parte del leone) con qualche apertura ai linguaggi non tradizionali.
Nato non come macchina espositivo culturale, né come museo contenitore di simulacri, lo SMAK, secondo il progetto di Hoet, si avvicina a come vorremmo che fosse oggi ogni museo: luogo in cui si produce cultura e ricerca, si fa didattica, si stimola un’esperienza ermeneutica della contemporaneità, si visualizza la creatività, si conosce e pratica la complessità estetica attuale. Un progetto solo in parte realizzato per la mancanza di sostegno economico da parte del potere pubblico (vero male internazionale). Per Hoet è una questione di democrazia: “il potere pubblico ha il dovere di sensibilizzare la società all’arte e ciascun cittadino ha il diritto di essere informato sull’arte”.
Sarà anche per questo che dall’agosto 2001 Hoet si è spostato in Germania, a Herford, come art director del MARTa (Museum/Art/architecture/ambience)? Destinato a diventare un museo che ha per temi quelli attualissimi dell’interazione tra arte, architettura, design e tra gli spazi dell’arte contemporanea e il contesto urbano, in una visione riflessiva sull’articolazione estetica attuale, il MARTa, che aprirˆ i battenti il prossimo autunno, è stato progettato da Frank O. Ghery, l’architetto dei mega musei/scultura autoreferenziali. Ma come, non era stato Hoet a dire che mentre O.Ghery a Bilbao aveva riempito di felicità gli sponsor, lui a Gand aveva mandato l’arte al settimo cielo? Cosa succederà ora a Herford? Staremo a vedere!
   Alcune immagini dello Smak di Gand