Domandare incessantemente è una delle strade che conducono attraverso quel tanto di verità a noi concessa. Domandare, quindi, ma non per avere una risposta, quanto per sapersi aperti ad una soluzione che non sia già nota. La fotografia è un territorio straordinario in cui alla laboriosa consuetudine dei saperi tecnici continua a far da contrappeso un’infinita indagine dietro, attorno e dentro all’agire fotografico. Si indaga il mondo, il proprio rapporto fotografico col mondo, il proprio rapporto linguistico con la fotografia, e – da lì dentro – col resto del nostro tempo. Ma, ancora, occorre mettere sempre, continuamente, in questione la capacità di un autore di percepire, ricevere e conservare quell’intreccio di emozioni e percezioni, di pensieri e sensazioni che si agitano tutt’attorno all’abbraccio tra essere umano e macchina fotografica. Occorre domandare all’autore se e come sia riuscito – o abbia onestamente tentato – di creare un nuovo testo: una cosa fotografica, nella quale sia trasposta e tradotta non solo l’eredità che ci proviene dall’essere testimoni dell’esistenza, ma anche quella responsabilità pesantissima che ci deriva dal volerne interpretare i segni e conservarli – testimonianza e interpretazione – in una memoria che da personale divenga intercomune.
“Why” è allora una domanda che Piero Di Giambattista pone per ultimo a noi, avendola rivolta in principio a sé, al fotografare, all’esistenza e a quanti la passano nel centro Don Orione per gravi disabilità mentali. Questa domanda ha per fulcro la vita umana, e non c’è risposta che non sia contenuta per intero nelle immagini che ci offre, sovraccariche di un disagio esistenziale, ma anche lavate dalla luce della gioia del convivere e riconoscersi. Sfocature, movimenti, sgranature, ispessimenti delle atmosfere e tagli asimmetrici sono solo alcune delle intonazioni scelte da Di Giambattista per la sua voce fotografica: analogie che il fotografo seleziona perché un’immagine connotata ci aiuti a comprendere con gli occhi la realtà che si svolge ai margini della cosiddetta normalità. Sintonizzando la normalissima difformità esistenziale dei suoi soggetti con l’imperfezione esattissima dei suoi lavori, l’autore romano riesce a creare un mondo di scatti in cui – anziché il solo virtuosismo del singolo pezzo ben inquadrato e stampato, e denso di racconto – conta tanto più l’atmosfera che lega tutte le immagini tra loro, i soggetti tra loro, e tutto ciò con l’autore e tutti costoro a noi. Un sistema di icone, segni e segnali dove l’insieme è paradossalmente maggiore delle parti.
Nella mostra organizzata dalla Scuola Romana di Fotografia, attraverso quest’ultimo lavoro e una selezione di grandi formati dalla sua precedente raccolta: “Nomadi”, scopriamo un autore che vive la fotografia in modo etico: senza eccessivi clamori destinati all’oblio, ma proponendoci in ogni scatto e in ogni serie laboriosamente costruita, l’urgenza del racconto, la totalità di un’esperienza profonda. Destinata, forse, peciò a sedimentarsi e crescere in noi. Posso aggiungere che tanta è l’esigenza emotiva e formale, nel lavoro di Piero Di Giambattista, che selezionarne una parte, traducendone in scala minore la coerenza del racconto, dà la stessa sensazione di strappare i capitoli di un romanzo, di tagliare membra vive di un uomo. Di un autore vero, un fotografo in questo caso, cui la nostra osservazione partecipe delle immagini, rende il merito sottrattogli dallo spazio tiranno dell’editoria.

Dall’alto:

Pietro di Giambattista, Why?, 2005