“You left and then you returned. You grinned. Your grin is still irresistible. Take back the night. Take back your life. And chant and squat and jump and shout, Aux vaincus! To the conquered!”
(Susan Sontag, 14.12.01)

Patti Smith. Il suo esile aspetto nasconde una forte (debole) e profonda personalità. Con le sue performances e la sua voce “febbrile e dolente” ha segnato la storia del rock in un periodo di rivoluzione culturale, “forse non sono stata altro che una pedina, ma sono contenta comunque, di aver contribuito a cambiare qualcosa”. Gli anni ’70 nell’America dei movimenti sociali, mentre in Asia si sta svolgendo una guerra, mentre le donne rifiutano d’indossare high heels, mentre la dittatura cambogiana influenzerà il lavoro di un altro artista esposto al festival, mentre nell’Inghilterra classista e thatcheriana il negozio di V. Westwood irrita e dà scandalo con il Punk.
Patti Smith cantante, attrice, poetessa, nei ’60 si trasferì a New York dove ha vissuto con il suo amico Robert Mapplethorpe il quale le ha “regalato un’enorme fiducia in [se] stessa” lasciandoci, inoltre, il maggior numero di ritratti della Smith, ricordiamolo per le sue fotografie erotiche, sensuali, eleganti, ben composte ma anche per essere stato censurato, demonizzato, esponente gay-sadomaso.
La Smith utilizzò il mezzo fotografico agli inizi dei ’70 per farne dei collages, poi ha ripreso nel ‘95 con una Land (ovvero una Polaroid), anche titolo della sua ultima raccolta, “antologia di una poetessa”. Le foto esposte presso l’Istituto Nazionale per la Grafica (nella stessa sala sono presenti anche Jooyeon Park e David Farrell) sono di piccolo formato suggerendo profonda intimità. I soggetti sono spesso fuori fuoco, la stampa poco contrastata: “non ho particolari abilità tecniche, m’interessa la luce e l’oscurità”, dice. Riconosciamo scatti fatti duranti i suoi viaggi in Italia, come il duomo di Milano e San Pietro; e in Giappone, particolari di statue di Buddha colti da una natura meditativa. Poi tulipani, colonne, crocefissi, ballet shoes di Rudolf Nureiev, gravestone (lapide) di Sonic, ossia di Frederick il suo compagno, calchi del volto di Blake, che insieme al maudit Rimbaud sente molto vicini, e Wing (ala): cos’è? Una garza poggiata su una sedia o chissà. Ma è questo ciò che conta? Oppure la riflessione posta dietro quello scatto? Ha un taglio più classico ed è “un ritratto di Robert (Mapplethorpe) quello che ho capito di lui come artista” insieme alle croci sono “ciò che mi ha lasciato, il suo ricordo”, ora ci sembra un po’ più chiaro, ma non rilassiamoci mai così facilmente. L’impressione che si ha di questi scatti non è certo di chissà quale tecnica! (E, anche se fosse… il mezzo che diventa fine… ma senza contenuto… uhm…) Né di soggetti interessanti che scuotano o critichino, no: sono al contrario molto intimi, di una poetica vicina al suo pensiero, fortemente personali. A quest’affermazione si potrebbe ribattere che tutte le foto lo sono, certo. C’è sempre un occhio con un cervello dietro la scatola magica che non è solo, ma anche, “Voi premete il pulsante e noi facciamo il resto” (Kodak 1888). Voglio piuttosto riferirmi a queste parole della Smith: “passo a scattare dopo che l’immagine si è formata dentro di me, dopo che ho sentito una vicinanza con dio. La mia estetica è europea, ma la spiritualità della mia arte è tutta orientale.” Questo il motivo della sua presenza al foto festival 2005 dedicato all’oriente? Forse anche questo.