La Biennale di Cuba a La Havana si è inaugurata nell’ultima settimana di marzo 2006. Dicono si trattasse di una biennale d’arte, dei cui contenuti e delle cui manifestazioni non sono riuscito a sapere e vedere molto. L’organizzazione non è evidentemente una delle cose più curate da queste parti.
Probabilmente esistono delle prassi farraginose per la realizzazione di tutto l’impianto, non ultimo dover sottostare alle regole ferree derivate dall’osservanza dei compiti lavorativi, per cui anche in casi di emergenza il lavoro si blocca per pause contrattuali e simili. Nel bel mezzo di operazioni d’allestimento, anche complicate, si poteva osservare un’emigrazione di massa dei lavoratori che rispondevano a oscure tempistiche e competenze. Un esempio. Inaugurazione ufficiale della Biennale: ci si arriva in taxi perché bisogna attraversare uno stretto tunnel che collega la parte est della città (un poliziotto ad ogni uscita riporta su un foglio tutte le targhe delle auto che vi passano, forse per ingannare il tempo) ed è vietato attraversarlo in altro modo. Bisogna recarcisi in orario perfetto perché a Cuba gli orari in questi casi si rispettano, il personale non perdona ritardi, ti chiude dentro o non ti fa entrare. La Fortaleza dove si svolge la cosa è d’una bellezza estasiante. La folla si accalca. Ci sono danze, balli, si vende birra e rum a fiumi e a caro prezzo. Le porte delle sale sono ancora chiuse. Si canta e si balla continuamente, poi alla fine ci si stanca, in fondo siamo lì per visitare una mostra che non si può vedere e si va via. I custodi sbirciano socchiudendo le porte con i loro vestiti ben stirati. Tirano un sospiro di sollievo. Ce l’abbiamo fatta, pensano, li abbiamo eliminati. Così ritornano a sonnecchiare per quindici dollari al mese (fanno pure troppo).
Dicono che, si dice che, pare, le opere siano molto interessanti, così come interessante era anche l’atmosfera al Palazzo di Bellas Artes. Durante l’inaugurazione, se riuscivi a schivare i circa tremila “parrucconi” che fingevano di non far caso al tuo passaggio, venivi inseguito da urlanti custodi se rallentavi il passo, o guardavi le opere esposte nelle sale del museo, perché facevano parte della collezione permanente e pertanto non potevi guardarle. Potevi passare senza interrompere il passo, ma non era consentito altro. Una donna d’un certo spessore corporeo mi ha raggiunto appena ha visto che stavo fissando un quadro, urlando “no se puede, no se puede”.
Siamo a Cuba. Come mi suggeriva Daniele Statera, che fotografava ogni cosa con occhio disincantato, è come se ci trovassimo dentro un grande centro sociale, le cui logiche appaiono quindi inafferrabili ai non adepti. Lo so, la mia sarà considerata una posizione controrivoluzionaria, ma questa Biennale più che sulle dinamiche della metropoli, ovvero il tema della stessa, a me è servita soprattutto per riflettere sulla condizione umana e sulla sua miseria. Un’inaugurazione con le porte chiuse è una cosa stupida, un’inaugurazione in cui ti si proibisce di guardare le opere è la conseguenza della miseria umana. Ma ciascuno faccia la sua parte: e i custodi eseguono gli ordini.
Allora me ne sono andato in giro ad incontrare gente strana per capire perché a Cuba i posti di potere sono tutti riservati ai bianchi e con cognomi vagamente anglofoni: o perché i gestori delle case “particulier” sono anch’essi bianchi e hanno tutto ciò che hanno i borghesi nel mondo, casa bella e ben arredata, cameriera e autista; mentre nei bassi della città c’è gente che se gli dai un euro ci pranza bene per un paio di giorni scambiandolo in moneta nazionale. Allora le aspettative sull’arte e sulla sua idealizzazione, l’interesse che si può avere per la sua esibizione, passa in secondo piano, almeno dietro l’incessante sguardo di vitree guardie che volentieri ti farebbero a pezzi ma ti lasciano stare perché sei un soldo che cammina. Quelle stesse guardie che non perdonano i ragazzi per aver cambiato un percorso obbligato della loro carrozzina taxi a pedali: si mostrano ciechi, complici, di quei loschi figuri che alla luce del sole vendono bambini da prestare ai tanti turisti dai turpi interessi. Di quale arte vogliamo parlare in un paese in cui il sesso è diventato una merce di scambio collettivo ed in cui le madri mercificano i propri figli senza ritegno, considerandolo un male minore? La rivoluzione che a Cuba ha parificato le tensioni sociali ha imposto una morale sessuale votata alla reciproca solidarietà, ma ha incontrato sul suo cammino il tragico errore della doppia moneta. Si dirà che questa manovra turistica sia l’unica garanzia di introiti, ma sarebbe bastato consultare un manuale d’economia per capire che avrebbe portato alle nefaste conseguenze di oggi. Doppia moneta, corruzione e violenza. Una moneta turistica e l’altra per il popolo. Chi entra in contatto con il turista può comprare le merci che appaiono nelle vetrine, gli altri no. Quindi si vende quello che si ha. Un figlio, una figlia, in mancanza d’altro. E gli artisti cosa ne pensano di questo enorme problema che mina alla base la loro società e la loro metropoli, La Habana ? O vogliamo fare finta che non esista essere complici di queste persone che gironzolano spavalde con il loro osceno mercato? Gli artisti quando non si stordiscono di rum e non sono foraggiati dal sistema, che qui riesce anche ad essere generoso, fanno finta di non capire, o non capiscono affatto. D’altra parte come potrebbero se non hanno visto altro, non hanno percezione del mondo. Solo pochi privilegiati riescono a viaggiare. Sono membri dell’intellighentia istituzionale o artisti molto noti come Tania Bruguera e Ktcho (ma si legge Cacio). Persone intelligenti e simpatiche ma non sembrano molto consapevoli del vero problema della loro società, un problema che nelle opere non ho visto, non ho sentito, ma sulla strada sì.
Ktcho, giovane corpulenta persona ospitale, amato dal popolo e personaggio mitico riconosciuto internazionalmente, probabilmente oggi l’artista cubano più affermato nel mondo, ha presentato un lavoro che non faceva direttamente parte della Biennale, nato per essere donato. Una montagna di barchette di terracotta che egli stesso ha firmato a tutti il giorno dell’inaugurazione e non lesinando ad alcuno il possesso di quel prezioso cimelio. Gli ho chiesto: “Ma Ktcho non vivi con difficoltà questa presenza duplice da eroe popolare e da star internazionale del sistema capitalista?”. Mi ha risposto che lui è sempre lo stesso, mentre tutti i suoi dodici assistenti annuivano fumando. Poi però le sue barchette firmate sono rimaste sul pavimento scassato delle povere abitazioni e lui ha dato una grande festa nella villa con piscina e parco gigante, concessagli come studio pare da Fidel Castro in persona, dove ho condiviso la preziosa vicinanza di un ministro col capello lungo alla Cugini di Campagna e una Svetlana in tacchi a spillo per amica. Coincidenze. Può forse interessare sapere che Ktcho al posto del cane di razza nel parco mantiene un coccodrillo?
La notte a La Havana. Riuscire a scansare papponi e spacciatori di ogni droga è stato l’impegno più massacrante. Tutte brave persone, per carità. Meno male che un’amica m’aveva detto che “qui non ce n’è”. Giovani magari un po’ male in arnese ma simpatici e per nulla aggressivi, dall’aspetto solido ma con buchi e crepe nella dentatura che fanno dubitare sull’effettiva qualità del servizio pubblico di assistenza sanitaria, così tanto sbandierata. Ma i denti a chi li fanno, ai turisti? Sanità e arte sono le eccellenze del sistema cubano. Spero di sì. Ma sì, proprio di questo mi sono interessato, degli ideali sociali, dei miei ideali realizzati qui, il tutto uguale per tutti, la meritocrazia e lo stato sociale, una società di eguali, nella consapevolezza di partecipare all’avventura culturale di un paese fantastico distrutto dai soldi prodotti da quei sistemi che rifiuta; di un paese che se ne infischia degli americani ma che calcola quanti soldi i suoi turisti potrebbero portare; un paese pieno di persone stravaganti che non sanno d’esserlo e di persone tristi e noiose che si credono d’essere il centro dell’universo e della verità, e poi fanno confusione fra la ragioneria e l’economia. Ma così come ho visto i miei ideali traditi nelle constatazioni, che anche qui ci sono classi privilegiate, la meritocrazia non esiste, la polizia è eguale e peggio che altrove, così nell’arte ho trovato più interesse in ciò che la Biennale snobbava, palesemente: l’arte dei giovani e dei quartieri periferici, spesso considerata dissidente. Il Pabellón Cuba con alcuni progetti collettivi come il Taller de Vestuario Alternativo ed il progetto collettivo OMNI Zona franca ad Alamar, periferia est di casermoni allungati e disadorni di quel modernismo sociale abbrutito dalla miseria. Alcuni di questi artisti mi hanno accompagnato per un ultimo giro notturno nel cuore della capitale cubana, sbronzi di rum come punkabestia, d’una emarginazione sociale che li rende a volte sbruffoni ma spesso malinconici e spenti, rotolanti d’inerzia come spesso sono le cose in questo paese, come le sue musiche, continue e sempre uguali: ahi paese mio, così giovane, non saprei come definirti, scrive in un suo lavoro Tania Bruguera. A Tania Bruguera si deve l’organizzazione di una delle rassegne più interessanti viste in giro nei giorni della Biennale: lei docente di Arte de Conducta all’ISA, l’università d’arte più rinomata del paese, ha mostrato in una sorta di work-shop cosa realmente dicono le nuove leve dell’arte cubana. Ma soprattutto ha lasciato intuire quello che l’arte ufficiale, l’organismo dello Stato, non vuole vedere e non vuole far sapere.
Poi dopo aver pensato tutto il male possibile mi sono ritrovato in aeroporto con un magone che ti prende la gola, nostalgia, beatitudine, la Cubanite che ti avvolge e ti si blocca in un’emozione grande. Sono talmente rispettosi, ti dici alla fine, che non ti marchiano il passaporto con il timbro: per evitarti grane con gli USA.

 


Dall’alto:

Martin & Sicilia, El traidor, particolare, 2005, acrilico su tela. Novena Bienal, Habana 2006

Kcho, Vive y Deja Vivir, Galería La Casona y Plaza Vieja . La Habana, 2006

Installazione al Pabellón Cuba. Novena Bienal, Habana 2006

Performance al Pabellón Cuba. Novena Bienal, Habana 2006