(1) Cfr. Pensa con i sensi. Senti con la mente, catalogo della mostra, Venezia, 2007; The Gates of Mediterranean, Palazzo del Piozzo, Rivoli, 2008; Videozoom Marocco, catalogo della mostra, a cura di F. Gallo, Roma, 2008; Wherever we go. Ovunque andiamo. Arte, identità, culture in transito, catalogo della mostra, a cura di G. Scardi, Milano, 2006; Incontri mediterranei, catalogo della mostra, a cura di M. Corgnati, Messina, 2005; Fabbrica dell’immagine: la fotografia contemporanea in Francia, catalogo della mostra a cura di G. Le Gall, Roma, 2004;Made in Africa. Biennale di fotografia africana, catalogo della mostra a cura di M. Manservisi, Milano, 2002; “Africa e mediterraneo”, n. 55, 2006, a cura di I. Pensa e S. Federici.

(2) Cfr. J-L. Amselle, L’arte africana contemporanea, Torino, 2007 (ed. orig. Paris, 2005); J. Dakhila (dir.), Créations artistiques contemporaines en pays d’Islam. Des arts en tensions, Paris, 2006.

(3) Cfr. F. Lloyd (a cura di),Contemporary Arab Women’s art. Dialogies of the Present, London, 1999; E. Zabunyan,“Wherever we go”, essere qui e altrove, in Wherever we go… cit., pp. 42-53.

(4) S. Hassan, L’esperienza modernista nell’arte africana: le espressioni visive del Sé e l’estetica transculturale, in E. Eulissi, a cura di, Afriche, diaspore, ibridi: il concettualismo come strategia dell’arte africana, Bologna, 2003, pp. 39-60; V.Y. Mudimbe, Reprendre: enunciazioni e strategie nelle arti africane contemporanee, in ibidem., pp. 75-96.

(5) Cfr. S. Hassan, O. Oguibe, Il concettualismo africano nel contesto globale: la mostra Authentic/Ex-Centric alla Biennale di Venezia, inibidem., pp. 141-158.

(6) Diverso il panorama proposto da Mohamed Rachdi, animatore del festival Interférences ad Amiens e autore di diversi contributi sugli artisti marocchini cresciuti nell’emigrazione, tra cuiInterférences. Références marocaines de l’art contemporain, Amiens, 2005.

(7) H. Hanru, Ovunque vadano, stanno creando un nuovo mondo. Appunti sulla migrazione, ibridazione culturale e arte contemporanea, in Wherever we go…, cit. p. 14.

(8) Cfr. The Next Flag. The African Sniper Reader, a cura di F. Alvim, H. Munder, U. Wuggening, Zürich, 2005.

(9) Cfr. Suites marocaines. La jeune création au Maroc, catalogo della mostra itinerante a cura di E. Daydé, 1999 e il web site di Fatmi.

(10) L. Echakhch in J.E. Sennewald, Latifa Echakhch, Gavin Turk, Troy Brauntuch–trois générations de déconstructivisme(www.lacritique.org); cfr. Intervista a Latifa Echakhch, nel website della Tate Modern; N. Marreau, Dérives Latifa Echakhch(http://interface.art.free.fr).

(11) Y. Barrada in Africa Remix, catalogo della mostra itinerante, Paris, 2005 (trad. di chi scrive); cfr. Y. Barrada, A Life full of Holes. The Strait Project, in U. Biemann, B. Holmes (a cura di), The Maghreb Connection. Movements of Life across North Africa, Barcellona, 2006, pp. 148-153.

(12) Cfr. Suites marocaines…cit.; Made in Africa…, cit.

(13) Mohamed El Baz.  02/04/2001, France: Les soldats veulent bien mourir, mais pas se suicider. Soldiers accept death but no suicide, catalogo della mostra, Barcellona, 2001; M. El Baz,Bricoler l’incurable. Détails, s.l., 2006; M. Rachdi, Interférences…, cit.

(14) M. El Baz, in M. Rachdi, Interférences…, cit., p. 72.

(15) Cfr. Fatima Mazmouz. Mouton Land, catalogo della mostra, Mantes-La-Jolie, 2005.

(16) Cfr. Different: Contemporary Photography and Black Identity, London, 2001; Regardes des photographes arabes contemporains, catalogo della mostra, IMA, Paris, 2005.

(17) Cfr. Incontro con Brahim Bachiri, con la partecipazione di S. Bordini, L. Cassanelli, S. Lux, C. Subrizi, C. Zambianchi, a cura di F. Gallo, Università La Sapienza, 18 marzo 2008.

(18) Cfr. B. Bachiri, M. Rachdi, It’s about human lives, s.l., 2003; M. Rachdi, Interférences…, cit.

Pochi dei visitatori della 52a Biennale di Venezia (2007) ricorderanno tra i molti segni della globalizzazione, la presenza di due artisti provenienti dal Marocco, Yto Barrada e Mounir Fatmi che, seppure saldamente affermati nel panorama internazionale, in Italia hanno fatto solo qualche fugace apparizione in collettive (1). Nel nostro paese, infatti, non è ancora maturata un’attenzione non sporadica verso le scene artistiche extra-occidentali, un disinteresse che stride con la vivacità culturale, la vicinanza geografica e la rilevanza “politica” di queste regioni, e in particolare di quella zona di confine rappresentata dal Nord Africa, territorio che stenta a trovare un’identità che superi la superficiale etichetta etnico-religiosa (2).
Anche in campo artistico, le considerazioni storiche sono i migliori anticorpi contro le seduzioni del neoprimitivismo, che pure ha svolto un ruolo importante nella fortuna dell’arte contemporanea africana. Sporgendo lo sguardo oltre il Mediterraneo, infatti, è impossibile tralasciare le vicende specifiche degli ultimi quattro-cinque secoli di ogni regione, segnate da articolati rapporti con l’Occidente, che hanno sedimentato in loco sistemi formativi e patrimonio culturale condivisi inizialmente dalle classi medie urbane, mentre ultimamente le carte di questo gioco si sono mescolate, sia nelle città occidentali che in quelle del sud del mondo (3). In questa prospettiva, il Marocco è uno dei paesi del Nord Africa artisticamente più vivaci, da sempre in contatto con la sponda settentrionale del Mediterraneo e meta di artisti e scrittori, intellettuali e collezionisti fin dall’800. Questi legami non sono stati ininfluenti per la crescita di diverse generazioni di autori, attivi in Europa come in patria: rapporti nati all’insegna del colonialismo e poi evolutisi in rivendicazioni indipendentiste nel secondo dopoguerra, per divenire confronto paritetico e scambio reciproco, negli ultimi decenni. Per ognuno di questi momenti è possibile individuare una diversa considerazione sia dei linguaggi espressivi occidentali, sia delle tradizioni autoctone, di volta in volta sinonimo di modernità o di sopraffazione, di tradizionalismo o di autenticità (4).
A partire dagli anni ’80, sia gli artisti residenti in Africa sia quelli della diaspora hanno sperimentato video, performance, fotografia e installazioni accanto a pittura, scultura o grafica, dimostrando nei fatti la propria internità all’orizzonte artistico post-concettuale (5). Come in un dittico ideale, saranno presi in considerazioni alcuni artisti marocchini che lavorano prevalentemente nel nord del mondo e la cui produzione ha un carattere engagé, lasciando a un successivo approfondimento quelli che vivono in patria. Tale provvisoria distinzione è dettata dalla convinzione che anche nel mondo globalizzato, il contesto in cui i singoli autori operano sia più significativo delle distinzioni generazionali o di medium (6). Non si può che condividere, infatti, l’efficace definizione di Hou Hanru «ovunque essi vadano, creano dei nuovi mondi» (7), secondo la quale i migranti trasformano la propria esistenza in investimenti e negoziazioni che riguardano i luoghi fisici e quelli immaginari, gli spazi istituzionali, quelli privati e quelli collettivi, e così facendo ridisegnano incessantemente le identità proprie ed altrui. La scelta delle origini nazionali della selezione qui presentata va intesa, quindi, come “pretesto” per orientare lo sguardo in un panorama estremamente frastagliato, ma anche per richiamare l’attenzione alla complessa e articolata natura di una delle comunità straniere più numerose in Europa.

Tra parole e immagini
Concentrato sui temi dell’identità culturale, un territorio soggetto ai continui contraccolpi della politica e degli interessi economici (8), Mounir Fatmi padroneggia una pluralità di tecniche e di linguaggi, sovrapponendo sovente verbale e visivo. Fanno pensare ai calligrammi, ad esempio, lavori come Skyline (2007) o Babel house/Empire (2008), in cui rispettivamente il profilo urbano di New York e la torre di Babele in sedicesimo sono costruiti con cassette vhs che – come tessere del domino – compongono l’immagine. Materiale densamente simbolico, i sottili parallelepipedi di plastica nera sono ormai obsoleti, ma hanno rappresentato sia un linguaggio artistico innovativo con cui Fatmi si confronta, sia una nuova e aggressiva classe di immagini, che ha soppiantato la carta stampata. Il supporto evoca quindi l’apparato tecnologico e industriale televisivo, che ha riconfigurato la realtà e il rapporto con essa. Medesimi riferimenti anche per i cavi di antenna che disegnano arabeschi, mosaici e scritte sacre: metafora delle connessioni fra un mondo tradizionale, che ha nella religione uno dei fattori di maggiore coesione, e il resto del globo. 
L’interesse per i giochi di parole, la polisemia e le ambiguità dei codici linguistici, così come la spiccata sensibilità per il contesto istituzionale in cui il lavoro si colloca, indicano una certa continuità con la tautologia di origine kosuthiana a cui fanno pensare, ad esempio, gli ostacoli da equitazione dell’installazione La forêt de Mondrian, per le campiture geometriche di colori puri sui cilindri di legno. Tali ascendenze, tuttavia, si coniugano con il recupero di pratiche e oggetti tradizionali (9): dalle già citate scritte calligrafiche ottenute in bassorilievo con cavi d’antenna alla pittura murale, dal disegno ai tappeti per pregare, usati ad esempio inWithout a place (1999). 
Questa commistione è frequente fra gli artisti trapiantati in Europa, e non vi sfugge neanche Latifa Echakhch, che ricorda «Ho costeggiato a lungo uno stile arabo, molto dettagliato. Quando la gente ha cominciato a guardare solo l’abilità manuale, mi sono immediatamente fermata» (10), ma non per questo ha abbandonato i riferimenti al mondo arabo, come ad esempio in Snow in Arabia (2003). Di grande impatto emotivo è l’installazione For Each Stencil a Revolution (2007), al centro della personale alla Tate Modern. L’installazione si ispira alla frase con cui Asser Arafat ha ricordato il clima politico effervescente degli anni ’60, quando la carta carbone era il mezzo più rapido per diffondere pensieri, programmi, parole e i cui effetti potevano essere imprevedibili. Così la carta copiativa riveste interamente un ambiente e, bagnata con un solvente, trasuda sul pavimento l’inchiostro blu: gli oggetti che popolano le installazioni di Echakhch, orfani di funzione rendono i materiali disponibili per associazioni personali guidate dall’uso retorico che ne fa l’artista.


Dall’alto:

1. Mounir Fatmi, Skyline, 2007 (videocassette, dimensioni variabili), Courtesy dell’artista.

2. Latifa Echakhch, For each stencil a revolution, 2007 (carta carbone, alcol metilico, pneumatici bruciati), Tate Modern.

3. Yto Barrada, Fille rouge, 1999, c-print, Courtesy Witt de With Center for Contemporary Art.

4a+4b. Mohamed Ezoubeiri, Terrasse, 2004 (video, 3’20”), Courtesy dell’artista.

5. Lamia Naji, Nuits urbaines, 1996 (fotografia b/n).

6. Mohamed El Baz, Bricoleur l’incurable. Détails, 2006 (pittura su muro, stampe fotografiche su carta, televisori), Courtesy dell’artista.

7. Fatima Mazmouz, Historie de femmes 3, fotografia a colori, Courtesy dell’artista.

8. Brahim Bachiri, It’s about human lives, 2002 (installazione mixed media), Courtesy dell’artista.