I giardini del SolLevante
di Serena Ghilardi
“Chi siamo?” e “cosa facciamo?” sono le domande classiche della coscienza umana che riflettono il bisogno di trovare le radici profonde, il luogo-spazio primordiale a cui apparteniamo. Le origini dell’uomo sono fortemente collegate alla Natura, già nell’antichità questa stretta relazione si esprimeva attraverso l’arte delle incisioni rupestri e si è espressa nel tempo, sotto varie forme fra cui anche quella dei giardini, da quelli storici a quelli attuali. Il giardino infatti non è mai stato solo un abbellimento, una semplice appendice dell’architettura, ma un luogo privilegiato dove l’uomo prendeva le misure di sè stesso e del mondo, un luogo di storia e allegorie che sono presenti in natura allo stato latente. Attraverso il giardino, l’uomo si relaziona con lo spazio circostante in modo potente, diventa in un certo senso intimo col ciclo della vita e lascia cadere le barriere dell’io. Il “locus amoenus” dell’umanesimo non era altro che un giardino, uno spazio destinato al ristoro dell’anima, alla meditazione, una sorta di pensatoio e ancora oggi ciò che vediamo e notiamo in un giardino è un po’ ciò che noi siamo. Tutto questo non è molto diverso in Oriente, Cina e Giappone specialmente, dove l’arte del giardino ha anche espresso le più alte verità religiose e filosofiche, proprio come altre civiltà hanno fatto uso di letteratura, pittura, danze rituali e musica. Più ancora dei parchi di delizia cinesi dell’aristocrazia locale, sono stati i giardini giapponesi, diffusisi un secolo dopo l’arrivo della filosofia zen in Giappone nel IV secolo d.C., ad avere un’eco mondiale per la loro peculiarità. Simboli di ricerca interiore i giardini zen sono tuttora considerati una forma d’arte che con l’originale design rappresentano la concezione giapponese dello spazio. All’origine della nascita di questi giardini c’è un rispetto della natura che si esprime con rappresentazioni astratte di un utopico mondo del tempo e del suo movimento, derivante dalla religione e dalla filosofia. Il loro denso simbolismo spirituale è aleggiato dal potere di associazione di opposti, yang-yin come ad esempio forza-fragilità, luce-tenebre, uomo-donna, degli elementi utilizzati, generalmente pietre, sabbia, piante, acqua. I giardini zen hanno di base un impianto mimetico della natura, anche se non rigorosamente fedele, quindi una roccia sempre ben selezionata per le sue caratteristiche estetiche e per l’associazione a valori storico culturali, rappresenta una montagna o un’isola, l’acqua un lago o un fiume e così via. Sempre comunque, anche quando l’acqua viene sostituita dalla sabbia rastrellata, anche quando la bellezza si fa austera, sempre, un giardino zen sottende la transitorietà di tutte le cose. Un attento studio della disposizione degli elementi fa in modo tale che i giardini giapponesi appaiano più vasti delle loro dimensioni reali. Una certa “over-spazialità” di alcune aree, insinua infatti nello spettatore un senso d’incompletezza, di perdita di veduta a cui si cerca poi di provvedere in accordo con la propria immaginazione. Per questo nel loro spazio seppure brevissimo molti giardini zen riassumono l’universo. Una particolare tipologia di giardino zen, nato come giardino templare, possiede spiccatamente questa caratteristica: il kare sansui ovvero il paesaggio arido o ancora giardino di pietra. Si tratta di giardini senza fiori, nè piante, senza ponticelli ad arco su laghetti con pesci, ma costituiti da poche rocce sparse su un’area coperta di sabbia rastrellata. Certo è che sia lo si veda come un giardino, sia come una scultura o un dipinto, le astratte relazioni di un kare sansui, e la sua austera bellezza, conducono lo spettatore ad uno stato di sospensione, meditazione, contemplazione. Non avendo nè fiori nè foglie questa tipologia di giardino non è dipendente dal passare delle stagioni e dalla bellezza come temporaneità, per questo motivo in Giappone sono oggetto di contemplazione, in quanto commento alla transitorietà della vita. La bellezza dei giardini di pietra risiede nelle relazioni tra sabbia e pietra. Il rapporto tra verticalità e orizzontalità, forme piatte, rotonde o aguzze delle pietre esprimono concezioni filosofiche oltre che estetiche. Il vuoto e il silenzio liberano la mente dall’ossessione del dettaglio, finalmente la mente si può muovere in uno spazio libero. Fra le rocce si stabiliscono delle tensioni spaziali di cui le pietre divengono i fuochi. Asimmetria, variazioni, forme e simboli si creano e svaniscono continuamente nella nostra mente che non distingue più fra forma e vuoto, ma si muove liberamente tra i due. Il vuoto espressivo esiste nell’arte visuale e nel tempo, il silenzio nella musica e nella poesia. In questi giardini non c’è una rievocazione di un sentimento di solitudine come in un quadro di Dalì, Tanguy o De Chirico. Non c’è nemmeno l’uomo o la sua assenza, nulla è connesso alla vita umana. In alcune opere surrealiste si avverte una separazione, un isolamento della forma nello spazio e l’associazione simbolica è quella dell’uomo perso nell’infinito. Un kare sansui è libero da simili associazioni emotive, le rocce non sono forme indipendenti e in opposizione al resto, bensì parti immerse e correlate al tutto. Se l’esistenzialismo e il dualismo contraddistinguono le scheletriche e consumate figure di Giacometti nell’evidente scontro fra nulla-infinito e uomo, non hanno motivo d’essere nei giardini zen, dove non esistono separazioni o opposizioni. Alla base di questa “assenza” di contrasti c’è la concezione buddista di un oggetto o di una forma come evento, non come cosa o sostanza.