Hidetoshi Nagasawa, artista giapponese che vive e lavora a Milano, trapiantato in Italia dal 1967, si muove coi suoi giardini e opere ambientali a cavallo di due culture. Anche se il punto di partenza di certe opere dell’artista sono i giardini zen della tradizione giapponese, gli esiti ottenuti sono ibridi nati da una continua elaborazione e riflessione personale. I giardini di Nagasawa sono organismi viventi che vivono di un rapporto osmotico col paesaggio e l’ambiente urbano preesistenti perché come l’artista ama ribadire, la buona scultura somiglia alla natura. Nel 2000 Nagasawa realizza presso il borgo medievale di Brisighella Il giardino di Ebe. L’aspetto è quello di un labirinto in miniatura costruito sul sagrato della piccola chiesa di S. Francesco a cui si giunge da una stradina in salita. Il giardino è costituito non da piante e fiori, bensì da pietre di gesso. La scelta della pietra di gesso è determinata da un desiderio di mimetizzazione dell’opera con il circostante dove è abbondante l’uso dello stesso materiale. Un muretto dai percorsi irregolari si svolge in tre piccoli vani a cui si accede tramite piccole aperture, archi di passaggio che fanno del minuto labirinto un diaframma tra dentro e fuori, un confluire e fondersi tra interno ed esterno. Il giardino si fa in questo caso scultura metaforica della realtà e in particolare delle dimensioni parallele che esistono nella vita. L’attraversamento del labirinto, passando da una stanza all’altra, avviene inconsciamente senza che ci si accorga, come se si trattasse di un unico ambiente, come se la realtà fosse una sola, proprio come avviene nella vita con il fluire e coesistere di situazioni parallele. Il labirinto che si rivela dall’alto come moltissime altre opere dell’artista, sostiene un altro gioco caro a Nagasawa, quello dello sdoppiamento. Un’opera come Il giardino di Ebe stimola l’immaginazione dello spettatore ad ideare un altro io, si può infatti osservare da fuori immaginandosi all’interno e viceversa. Se i labirinti rinascimentali hanno simboleggiato il cammino verso la conoscenza, il lavoro di Nagasawa è un cammino verso un nuovo modo di esperire e percepire, allo spettatore non resta che decifrare l’ambiente interpretandone le relazioni geometriche, simboliche, spaziali e temporali per dare una collocazione a sé stesso. Come nei giardini zen il vuoto delle piccole stanze di gesso de Il Giardino di Ebe solleticano la mente del visitatore che si trova ad interagire con l’opera in modo del tutto personale. Veniamo ora al titolo, Ebe era figlia di Giove e Giunone, dotata di bellezza e giovinezza eterne e bellezza ed eternità sono simbolicamente espresse nell’opera dell’artista. Dunque un’iniziazione del fruitore dell’opera al concetto astratto di bellezza, che secondo la cultura orientale è insita nella natura, e a quello del tempo, inteso come spazio mobile e mutabile fra due accadimenti. E dove è il giardino? A questa domanda risponde direttamente Nagasawa in una vecchia intervista dove dice che ognuno dei suoi lavori è influenzato dalla natura e che in essa si nascondono molte cose, moltissime mimetizzazioni e lui va cercando la verità dove è più nascosta, sulle tracce del segreto della natura che cela il possibile contatto con l’universo e i suoi misteri. Se la scultura somiglia alla natura come Nagasawa afferma e quindi non c’è competizione, ma armonica fusione, ecco svelato l’enigma de Il giardino di Ebe. In fondo quest’opera dell’artista ha un che di organico nel suo movimento implicito, la natura è vita e la vita in questo caso si fa pensiero, idea, interrogativo. Il giardino da sempre è metafora dell’esistenza e dello sguardo dell’uomo sul mondo è per ciò che ha rappresentato ieri è anche spazio della memoria perché per Nagasawa col passato non c’è rottura, ma continuità. Anche il giardino di Ebe non si sottrae a questa pregnanza simbolica ed anzi si arricchisce di quel bagaglio culturale proveniente dalla tradizione dei giardini zen reinterpretata da un artista così originale ed indipendente da farla incontrare e confrontare con quella occidentale, in questo caso latina.                                                                                                                        

I giardini del SolLevante                   

di Serena Ghilardi                                                                                                                                  

“Chi siamo?” e “cosa facciamo?” sono le domande classiche della coscienza umana che riflettono il bisogno di trovare le radici profonde, il luogo-spazio primordiale a cui apparteniamo. Le origini dell’uomo sono fortemente collegate alla Natura, già nell’antichità questa stretta relazione si esprimeva attraverso l’arte delle incisioni rupestri e si è espressa nel tempo, sotto varie forme fra cui anche quella dei giardini, da quelli storici a quelli attuali. Il giardino infatti non è mai stato solo un abbellimento, una semplice appendice dell’architettura, ma un luogo privilegiato dove l’uomo prendeva le misure di sè stesso e del mondo, un luogo di storia e allegorie che sono presenti in natura allo stato latente. Attraverso il giardino, l’uomo si relaziona con lo spazio circostante in modo potente, diventa in un certo senso intimo col ciclo della vita e lascia cadere le barriere dell’io. Il “locus amoenus” dell’umanesimo non era altro che un giardino, uno spazio destinato al ristoro dell’anima, alla meditazione, una sorta di pensatoio e ancora oggi ciò che vediamo e notiamo in un giardino è un po’ ciò che noi siamo. Tutto questo non è molto diverso in Oriente, Cina e Giappone specialmente, dove l’arte del giardino ha anche espresso le più alte verità religiose e filosofiche, proprio come altre civiltà hanno fatto uso di letteratura, pittura, danze rituali e musica. Più ancora dei parchi di delizia cinesi dell’aristocrazia locale, sono stati i giardini giapponesi, diffusisi un secolo dopo l’arrivo della filosofia zen in Giappone nel IV secolo d.C., ad avere un’eco mondiale per la loro peculiarità. Simboli di ricerca interiore i giardini zen sono tuttora considerati una forma d’arte che con l’originale design rappresentano la concezione giapponese dello spazio. All’origine della nascita di questi giardini c’è un rispetto della natura che si esprime con rappresentazioni astratte di un utopico mondo del tempo e del suo movimento, derivante dalla religione e dalla filosofia. Il loro denso simbolismo spirituale è aleggiato dal potere di associazione di opposti, yang-yin come ad esempio forza-fragilità, luce-tenebre, uomo-donna, degli elementi utilizzati, generalmente pietre, sabbia, piante, acqua. I giardini zen hanno di base un impianto mimetico della natura, anche se non rigorosamente fedele, quindi una roccia sempre ben selezionata per le sue caratteristiche estetiche e per l’associazione a valori storico culturali, rappresenta una montagna o un’isola, l’acqua un lago o un fiume e così via. Sempre comunque, anche quando l’acqua viene sostituita dalla sabbia rastrellata, anche quando la bellezza si fa austera, sempre, un giardino zen sottende la transitorietà di tutte le cose. Un attento studio della disposizione degli elementi fa in modo tale che i giardini giapponesi appaiano più vasti delle loro dimensioni reali. Una certa “over-spazialità” di alcune aree, insinua infatti nello spettatore un senso d’incompletezza, di perdita di veduta a cui si cerca poi di provvedere in accordo con la propria immaginazione. Per questo nel loro spazio seppure brevissimo molti giardini zen riassumono l’universo. Una particolare tipologia di giardino zen, nato come giardino templare, possiede spiccatamente questa caratteristica: il kare sansui ovvero il paesaggio arido o ancora giardino di pietra. Si tratta di giardini senza fiori, nè piante, senza ponticelli ad arco su laghetti con pesci, ma costituiti da poche rocce sparse su un’area coperta di sabbia rastrellata. Certo è che sia lo si veda come un giardino, sia come una scultura o un dipinto, le astratte relazioni di un kare sansui, e la sua austera bellezza, conducono lo spettatore ad uno stato di sospensione, meditazione, contemplazione. Non avendo nè fiori nè foglie questa tipologia di giardino non è dipendente dal passare delle stagioni e dalla bellezza come temporaneità, per questo motivo in Giappone sono oggetto di contemplazione, in quanto commento alla transitorietà della vita. La bellezza dei giardini di pietra risiede nelle relazioni tra sabbia e pietra. Il rapporto tra verticalità e orizzontalità, forme piatte, rotonde o aguzze delle pietre esprimono concezioni filosofiche oltre che estetiche. Il vuoto e il silenzio liberano la mente dall’ossessione del dettaglio, finalmente la mente si può muovere in uno spazio libero. Fra le rocce si stabiliscono delle tensioni spaziali di cui le pietre divengono i fuochi. Asimmetria, variazioni, forme e simboli si creano e svaniscono continuamente nella nostra mente che non distingue più fra forma e vuoto, ma si muove liberamente tra i due. Il vuoto espressivo esiste nell’arte visuale e nel tempo, il silenzio nella musica e nella poesia. In questi giardini non c’è una rievocazione di un sentimento di solitudine come in un quadro di Dalì, Tanguy o De Chirico. Non c’è nemmeno l’uomo o la sua assenza, nulla è connesso alla vita umana. In alcune opere surrealiste si avverte una separazione, un isolamento della forma nello spazio e l’associazione simbolica è quella dell’uomo perso nell’infinito. Un kare sansui è libero da simili associazioni emotive, le rocce non sono forme indipendenti e in opposizione al resto, bensì parti immerse e correlate al tutto. Se l’esistenzialismo e il dualismo contraddistinguono le scheletriche e consumate figure di Giacometti nell’evidente scontro fra nulla-infinito e uomo, non hanno motivo d’essere nei giardini zen, dove non esistono separazioni o opposizioni. Alla base di questa “assenza” di contrasti c’è la concezione buddista di un oggetto o di una forma come evento, non come cosa o sostanza.