NOTE:
1. Cfr. Marcel Duchamp, Boìte de 1914: “Contre le service militaire obligatoire: un ‘èloignement’ de chaque membre, du coeur et des autres unitès anatomiques…”. 
2. Marcel Duchamp, 1945: “Quand la fumèe de tabac sent aussi de la bouche qui l’exhale, les deux odeurs s’èpousent par infra-mince”.
3. Vangelo di Giovanni, III, 30. 
4. Hèléne Cixous, “L’ultimo quadro o il ritratto di Dio”, trad. it. di Monica Fiorini, in cat. Oeuvres d’etre… Works of being… Opere d’essere (a cura di J. Benci), Temple University, Roma, 2000. 
5. Giulietto Chiesa, La guerra infinita, Feltrinelli, Milano, 2002.

Patrizia Mania: Comincerei con il considerare un aspetto, forse un po’ intimo, o quantomeno inedito, della tua ricerca che è la raccolta, la classificazione e la conservazione di polvere, quasi a voler fissare il pulviscolo, l’imprendibile, l’aereo, l’immateriale per eccellenza. Per me ha un duplice interesse: da un lato proprio questa immaterialità resa consistenza fisica; dall’altro, il passaggio, che certo non ignora, dalla casualità degli allevamenti di polvere di duchampiana memoria alla intenzionalità dell’appropriazione selettiva, archiviatrice e tesa al disvelamento dell’invisibile. Ora un’operazione quasi scientifica di acquisizione estetica dell’elemento aereo mi sbalordisce ma suscita in me anche una percezione necessariamente rinnovata con la fisica matericità delle cose ed i loro inganni. Un avvicinarsi all’alone delle cose, alla periferia della loro consistenza che è anche il suo pieno specifico.
Su un piano ulteriore, ma in qualche modo in stretta assonanza, vista la preminenza comunque dell’aspetto percettivo, è la poetica dello sguardo. Lo sguardo dell’altro che intercetta l’obiettivo, la videocamera e che comunque viene ad interrogarci su di sè partecipandoci della sua realtà.                                                 Jacopo Benci: Sono piuttosto incuriosito dal tuo riferimento alla raccolta di polvere, perchè riguarda il mio lavoro di diversi anni fa. Ma non mi dispiace come punto di partenza di una discussione. È esatto, raccoglievo polvere e cenere e la conservavo in barattoli, per poi usarla mescolata a pigmenti o come pigmento essa stessa. Ho fatto questo proprio al termine della fase propriamente pittorica del mio lavoro, dopo il 1991. Esposi i lavori realizzati in questo modo in alcune occasioni, l’ultima delle quali l’open studio che feci con Silvia Stucky nel giugno 1994. In quel caso, i dipinti erano realizzati con polvere/cenere, grafite e inchiostro nero; nella stessa stanza, c’erano dei lavori fotografici. Gli uni e gli altri avevano il titolo Polvere e ombra. Il titolo, per quanto ciò non fosse mai dichiarato, si riferiva all’antica e persistente definizione in negativo dell’essere umano (Pulvis et umbra sumus, Orazio, Carmina; Veramente siam noi polvere et ombra, Petrarca, Rime), ma ribaltata, in accordo con Leopardi (Natura umana, or come, se frale in tutto e vile, se polve ed ombra sei, tant’alto senti?). In altre parole, quello che mi interessava nella polvere e nella cenere era il suo nesso piuttosto trasparente nella nostra cultura con la vita umana. Proprio questa, per riprendere la tua definizione, l’imprendibile, l’aereo, l’immateriale per eccellenza. Ogni persona, per il tempo più o meno limitato della sua esistenza, l’immaterialità resa consistenza fisica. Il 24 dicembre 1992 appresi, improvvisamente e inaspettatamente, che una persona a me molto cara era morta alcuni mesi prima. Qualcuno che per me era, fino a quel momento, vivo e presente con i suoi gesti, il suo carattere, il suo modo di parlare e così via, in quello stesso momento diveniva già e in modo incolmabile da me separato: polvere e ombra. Eppure, quella persona continuava ad essere viva in me con il suo volto, la sua voce, il suo modo di parlare e così via. Contenevo in qualche modo un’impronta di quella persona. Avevo già fatto in precedenza, ma in modo sparso, riflessioni sull’ombra, l’impronta, la traccia che in ogni individuo lasciano altri individui, sempre comunque assenti anche se con gradi diversi di allontanamento [1]. Il caso aveva voluto, ad esempio, che fra le persone che mi fornivano la cenere per la mia raccolta vi era un fumatore accanito che a un certo punto morì d’infarto: in qualche modo, la cenere delle sigarette che aveva fumato era una traccia, una parte di di lui, che poi divenne parte dei miei dipinti. È corretto dire che Duchamp in qualche modo c’entra; di lui mi ha sempre affascinato l’idea di ‘infra-mince’, di infra-sottile [2]. Ma ciò che mi ha allontanato sempre di più dal modo duchampiano di intendere la pratica artistica e la figura dell’artista l’aspetto autoriflessivo o, per dirla altrimenti, narcisistico di questo modo di fare arte. La mia personale esperienza della perdita mi ha ricordato dell’importanza di non essere abbandonati dal senso dell’umanità e mi ha spinto lontano da Duchamp e da molta parte del modernismo, e verso un pensiero da un lato più critico, più rigoroso, più radicale, e dall’altro più aperto in senso fenomenologico ed esistenziale, meno indifferente, più ricco di poesia e di pietas. Lèvinas, de Certeau, Debord, Bauman, Cixous, Derrida, Bachelard, il Barthes di La chambre claire… E nelle arti visive, verso Tarkovskij, Bresson, Antonioni, Ghirri, Woodman, Mendieta… Allontanamento dall’oggetto, e tensione verso l’immagine come impronta, l’immagine in movimento, la performance. 
È una traiettoria paradossale perchè va verso la scomparsa dell’arte come fatto fisico, come merce: scomparsa che è per me un modo di quello che chiami il disvelamento dell’invisibile. 
Perchè questa scomparsa, questa riduzione possa avvenire è necessario farsi piccoli: solo così cose più essenziali possono rivelarsi. Dunque m’interessa sempre meno la figura dell’artista come personaggio, come dandy, come protagonista (in questo senso mi sento molto lontano dalla figura duchampiana), e sempre più m’interessa la figura tarkovskiana dello Stalker, che preferisce sottrarsi, cerca di essere un condotto attraverso cui altri e altro possano manifestarsi. Come dice Giovanni Battista, Illum oportet crescere me autem minui [3].  Cercando di distogliere almeno per qualche momento! L’attenzione da sè stessi e dal proprio personale intorno si può riuscire ad avere una percezione necessariamente rinnovata della fisica matericità delle cose, ad avvicinarsi all’alone delle cose, alla periferia della loro consistenza che è anche il loro pieno specifico. 
Questo (se mi approprio bene delle tue parole) è quello che accade nei miei lavori fotografici, video, film intitolati “Itinerari silenziosi”. Il soggetto è altro da me, c’è un volontario tacere per far parlare i luoghi o quanto meno per poter restituire un’impronta, un’ombra dei luoghi. E come nei miei lavori video intitolati “Sguardo luminoso”, dove il soggetto è chi sta di fronte a me: solo il mio tacere può far spazio a un’impronta della voce e del volto dell’altra persona. Allontanamento dall’opera d’arte, avvicinamento alla oeuvre d’ètre di cui parla Hèlne Cixous: Quel che m’importa più di tutto, nell’arte, sono le opere d’essere: delle opere che non hanno più bisogno di reclamare per sè la gloria, o la loro origine magistrale, di essere firmate, di ritornare, di far ritorno per celebrare l’autore [4].

P.M.: Dal soggetto all’oggetto, lo spostamento avvenuto oltre l’esperienza comportamentale nella direzione esperienziale esistenziale dell’artista. Un modo, evidentemente, per uscire dalla ristretta cerchia del sè, e per coinvolgere il mondo visto, esperito nel sè dell’opera. C’è in questa discrezione dell’essere e dell’apparire un aspetto etico che implica forse anche constatazioni in ordine proprio all’essenza sistemica dell’attuale mondo dell’arte. E forse anche una ginnastica mentale forgiata in modo tale da sottrarsi alle seduzioni fosforescenti del reale per emancipare un’idea estetica nel rastremarsi proprio di tutte le sue componenti abbaglianti ma prive di uno ‘sguardo riflesso’.                                   J.B.: L’espressione ‘mondo dell’arte’, che usiamo per forza di cose perchè ormai invalsa, rivela subito un aspetto degno di riflessione: si tratta per definizione di un mondo a sè. Un mondo in cui, ai livelli alti omologhi ai supremi livelli economico-politici del ‘ponte di comando’ tutto è pacificato e si muove in modo fluido. In quella dimensione c’è accordo sostanziale fra tutti gli attori, siano essi artisti, ‘curators’, galleristi, direttori di musei, mercanti, collezionisti. Si può applicare senza troppe forzature a costoro quanto scrive Giulietto Chiesa a proposito dei detentori delle chiavi dei media: di regola, sono solo persone totalmente affidabili: non occorre dire loro cosa devono comunicare, lo sanno già a memoria. Hanno introiettato le regole del gioco. L’affidabilità è faccenda che richiede lungo allenamento, considerevole applicazione. A ogni scalino della scala gerarchica dell’informazione si deve aver dato prova di un totale disprezzo per la verità, di una completa disponibilità all’inganno, di un cinismo a prova di bomba. Solo così, di regola, si passa al gradino superiore[5]. Si può essere più o meno consapevoli della posizione che si assume e del ruolo che si svolge, ma comunque si percepisce, anche in settori quale quello dell’arte, un modo di operare che si può definire allineato o, per usare un termine sinistramente attuale, embedded. Questo si manifesta attraverso l’adesione (più o meno motivata, più o meno entusiastica) alla modernità globale, l’accettazione di fatto delle sue inclusioni ed esclusioni, dei suoi modelli di socializzazione, della sua ideologia. 
Attualmente, dai supremi ponti di comando nell’empireo dell’economia, fortissime pressioni normalizzatrici e uniformatrici scendono attraverso i cieli dei media, della politica, della moda, delle arti, del glamour fino a raggiungere la massa in tutti i paesi cosiddetti sviluppati. Ai vari livelli, cori di angeli e spiriti eletti cantano con forza e persuasione le lodi e le litanie del nuovo ordine globale: un ordine che, mentre mostra il suo volto militare, continua pur sempre ad offrire ogni sorta di merci e a celebrarne il godimento come potenzialmente accessibile a tutti. È per questo, mi pare, che tanti artisti oggi si fanno promotori dei valori del capitalismo globale anche e forse soprattutto quando sembrano dileggiarli. Gianni Vattimo, recensendo Impero di Toni Negri e Michael Hardt, ha ricordato che già Michel Foucault aveva parlato del potere moderno, e tardo moderno, come di una forza coercitiva diffusa capillarmente nella società, a cui tutti finiscono con il soggiacere perchè in molti sensi vi consentono. Per esempio, e anzitutto, attraverso l’assoggettamento dell’immaginario collettivo ai modelli diffusi dal mercato mediatico, dalla pubblicità, da quella che già Adorno aveva chiamato la fantasmagoria della merce. Quando parli di seduzioni fosforescenti del reale mi viene in mente proprio la fantasmagoria della merce: in altre parole non è davvero della realtà che parliamo qui, ma se mai, per dirla con Lèvinas, della sua ombra. 
C’è un altro modo di pensare e di operare, che si può definire non allineato. Questo può essere più o meno articolato concettualmente; può manifestarsi attraverso la critica, lo scetticismo, l’ironia, la riserva. Può sbocciare anche in maniera preterintenzionale; può avvenire (per usare un altro termine d’attualità) per leakage. Ma il carattere per lo più spontaneistico di questa opposizione, anche se nasce da una spinta di carattere etico, fa sì che s’incontrino grandi difficoltà nel discutere quale possa essere l’alternativa all’attuale stato di cose nel campo dell’arte per limitarci ora a questo. Al livello culturale, i modelli dominanti hanno una egemonia schiacciante perchè sono o abbiamo imparato a considerarli i più seducenti. Per dirla ancora con Vattimo, al potere capillare, ma anche impersonale, del mercato globale, corrisponde una altrettanto anonima soggettività di persone che vivono immerse in un immaginario collettivo, fatto di conoscenze diffuse e di una affettività altrettanto condivisa e partecipata, che tende sempre più a coincidere con ciò che il potere globale le impone e richiede. Possiamo tradurre così: se l’autoritarismo moderno era ancora fondato sulla imposizione di una disciplina da parte di centri di potere determinati (lo Stato, il padrone ecc.), il potere dell’impero si identifica ormai totalmente con il sentimento e l’immaginario spontaneo di tutti. Abbiamo spesso osservato, in questa o quella situazione, la contraddizione dei giovani antiglobal che mangiano al McDonald’s, portano scarpe magliette e jeans rigorosamente griffati, consumano la musica e il cinema che vengono dall’America, che insomma contestano quel potere di cui di fatto sono i massimi sostenitori, quasi i prodotti.
Per questa ragione, direi, sembra difficile passare dalla critica e dissociazione di principio nei confronti del nuovo ordine globale a una più puntuale individuazione di cosa questo comporti nel campo culturale (e, nello specifico, dell’arte), e quindi a che cosa concretamente ne possa derivare. Se non si fa questo, si rimane nella condizione passiva di by-standers di cui ha parlato Zygmunt Bauman: la difficoltà maggiore con la quale oggi si confronta qualsiasi sforzo di estendere la nostra coscienza morale sulla dimensione globale dei problemi e dei compiti che tutti condividiamo [è che] siamo in stato di attesa (by-standers), testimoni silenti e passivi, che vedono e ascoltano, ma che possono far poco perché accadano fatti positivi e per prevenire o bloccare quelli negativi. Non ci aiuta a rispondere il modo in cui l’informazione è offerta. Ci vengono proposte immagini scioccanti di povertà umana, ma nessuno ci aiuta a comprendere le cause profonde e i complessi meccanismi che fanno ogni volta riemergere la miseria malgrado la nostra solidarietà. Dubitiamo della capacità di cambiare le cose in meglio visto che ignoriamo il nesso tra ciò che facciamo (o non facciamo) e quanto ci viene mostrato dalla televisione.

Dall’alto:

Jacopo Benci, Itinerari silenziosi, 2002 [stills] Betacam SP, PAL (da super8), B/N e colore, sonoro, 41’36” cast: Alessandra Cristiani, Alessandra Lanciotti

Jacopo Benci, Itinerari silenziosi, 1997-99 serie di 35 fotografie in B/N montate su alluminio, ognuna 20 x 12 cm

Jacopo Benci, Itinerari silenziosi, 1997-99 serie di 35 fotografie in B/N montate su alluminio, ognuna 20 x 12 cm

Jacopo Benci, Sguardo luminoso, 1997 [particolare] installazione: grafite su terracotta, 26 x 15 x 2.5 cm, montata su muro Fuoriluogo 2, Chiesa di San Bartolomeo, Campobasso

Jacopo Benci, Sguardo luminoso [II], 1998 [still] Betacam SP, PAL, sonoro