Note

(1) V: C. Vivaldi, La giovane scuola di Roma, in Dopo l’informale, fasc. speciale della rivista “Il Verri”, n. 12, Feltrinelli, Milano 1963; M. Calvesi (a c. di), Otto pittori romani, cat., Bologna, Galleria De’ Foscherari, aprile 1967, Galleria De’ Foscherari, Bologna 1967.

(2) F. S. Saunders, The cultural cold war. The CIA and the world of arts and letters, New press, New York 2000, trad. it., Gli intellettuali e la CIA : la strategia della Guerra Fredda culturale, Fazi, Roma 2007.

(3) P. De Martiis, in M. Calvesi; R. Siligato, (a c. di), Roma anni ’60, cat., Roma, Palazzo delle Esposizioni, 20 dicembre 1990-15 febbraio 1991,  Carte Segrete, Roma 1990, p. 339.

(4) R. Ferguson; D. Deitcher (a c. di), Hand-Painted Pop : American Art in Transition, 1955-62, cat., Los Angeles, Chicago e New York 1992-1993, The Museum of Contemporary Art – Rizzoli International publications,  New York 1992.

(5) A. Boatto, Pop Art, Editori Laterza, Roma-Bari 1998, p. 179.

(6) M. Calvesi, Gruppi di opere: pitture e sculture, in XXXII Biennale internazionale d’arte, cat., Venezia, La Biennale, 20 giugno-18 ottobre 1964, Stamperia di Venezia, Venezia 1964, p. 133.

(7) A. R. Solomon in XXXII Biennale internazionale d’arte, cat., cit., p. 273.

(8) Nel senso di «proiettivi, anarchici, primari» S. Lux in AA.VV. (a c. di), Pop Art. Perché Roma?, cat., Trissino, ex Municipio, 9 settembre-1 ottobre 2000, Comune di Trissino, Trissino 2000.

Tanto è stato detto (e a più riprese) sulla Scuola di Piazza del Popolo, sulla poetica di Schifano, Festa, Angeli, Lombardo, Fioroni, Tacchi e Mambor, il cui ritorno al figurativo riflette gli stereotipi della società di massa in pieno boom economico. Meno, sulle ragioni che hanno portato a configurare come gruppo compatto ed esplicitamente indirizzato, un numero variabile d’artisti, mai riconosciutosi come tale. Eppure nel 1963, Calvesi e Vivaldi individuano gli esponenti di punta della neo-coniata “scuola”: i due critici non concordano sui nomi, ma convengono sulla necessità di definirne la poetica in rapporto dialettico con la Pop Art statunitense, di cui vuole essere contraltare se non superamento. (1)

Del resto, le due diverse versioni della pop attingono al medesimo referente, quella società dei consumi che dilaga nel secondo dopoguerra sotto l’ascendente americano. Ma essendo la pop, in qualche misura, l’esaltazione di questo modello, non tarda a divenire uno strumento utile alla politica statunitense, impegnata nel rafforzamento dell’identità libera e democratica del blocco occidentale. È questa l’altra faccia della Guerra fredda, insomma, quella culturale – a detta di Saunders – (2) in cui critici e galleristi lavorano per garantire l’egemonia artistica di New York, mediante il controllo del mercato internazionale e l’asservimento delle poetiche alleate.

Quanto e come ciò abbia giocato sulla (s)fortuna della Scuola di Piazza del Popolo, è presto detto. Nel 1961 in accordo con Castelli, Ileana Sonnabend si stabilisce a Roma dove collabora con Plinio de Martiis alla gestione di una galleria internazionale ed offre un contratto a Schifano. La cooperazione ha però vita breve, giacché il gallerista della Tartaruga lamenta l’impossibilità di garantire il confronto paritario tra gli artisti e Schifano mal digerisce l’obbligo di attenersi al pop warholiano. (3)

Insomma, se per un verso Roma ricusa di ridursi a porto d’attracco per l’entourage di Castelli, per l’altro, l’assenza di un mercato per l’arte contemporanea incentiva lo spirito anarchico dei suoi artisti, inclini a calcare solo le strade ad essi più congeniali.

Nonostante ciò, almeno fino al 1962, l’analogia fra le ricerche artistiche sviluppate a Roma e a New York, lascia intravedere un’affinità in materia di pop, o meglio, di hand-painted pop (4), per citare Deitcher, giacché l’immaginario della società dei consumi viene rielaborato nella qualità specifica della pittura tradizionale. Equilibrio, in realtà, a dir poco precario, che viene infatti messo precocemente in crisi dalla meccanizzazione del lavoro artistico operata da Warhol (a cui si allineano gli altri pop-artisti newyorkesi). Che la frattura si consumi, poi, proprio alla Sidney Janis in occasione di The New Realists, mostra d’esordio della Pop Art, è oltremodo sintomatico. A posteriori, la convocazione di Schifano e Festa a New York pare testimoniare, più che la convergenza europeo-americana attorno all’oggetto feticcio della cultura di massa -cara a Boatto- (5), la loro divergenza prospettica; frutto di un diverso approccio all’ideologia capitalistica. Sicché, al suo apice, la pop statunitense s’identifica con tale ideologia (mediante la ri-produzione di simboli e tecniche d’auto-promozione), mentre quella romana ne sfrutta i codici linguistici in funzione di un revival della cultura identitaria. Dunque, se la prima esaspera la dimensione pubblicistica della società di massa, l’altra scava sotto la crosta della cultura (consumistica) importata e recupera la propria eredità, riproponendone le istanze artistiche (dalla classicità all’avanguardia futurista) nella freschezza compositiva di un pop style, che cede il passo ad un’impronta sempre più tradizionale, artigianale, proto-poverista.

Da qui prende forma un vero e proprio filone citazionista, in cui l’ostentazione del made in Italy va di pari passo con l’ironia sulla commercializzazione dell’arte che accompagna lo sviluppo del turismo cosmopolita. Filone che, pur nell’assenza di una linea programmatica condivisa tra i suoi esponenti, giunge a maturazione nella Biennale di Venezia del 1964; il suo leitmovit si riscontra in opere quali When I remenber Giacomo Balla di Schifano, La creazione dell’uomo di Festa e La lupa di Angeli, tutte disposte in un padiglione complesso che, tra artisti in sovrannumero e contraddizioni interne, tenta una terza via per l’arte italiana, tra neo-figurazione e astrazione-geometrica. Calvesi, in veste di curatore, ne articola la ricerca «sulla scia della rivoluzione fotografica» (6), ma la critica internazionale la declassa, senza appello, a mera epigone della pop d’oltreoceano. Dunque, sintetizzando, il dialogo tra la pop romana e quella statunitense nell’arco di soli quattro anni (1960-1964) passa da un primo momento di omologazione ad uno di divergenza, per infine consolidarsi in un rapporto di subordinazione (della prima alla seconda), la cui natura non è artistica, ma politica: è l’effetto della strategia di dominio statunitense.

Difatti, la Biennale che consacra la Pop Art è la prima in cui il Governo USA, solito delegare ad associazioni private, esordisce in veste ufficiale, trasformando la kermesse veneziana in una sorta di battage diplomatico-pubblicitario, in cui Solomon rivendica per New York il ruolo di leadership culturale, a discapito di ogni confronto paritario. (7) Limitato alla presenza di otto giovani pop artisti, il valore strategico del padiglione statunitense riflette quello politico del salone centrale, dedicato all’«Arte dei Musei» e riservato alle opere realizzate nel decennio precedente e già assorbite e celebrate dai circuiti museali. La dimensione mercantilistica, che caratterizza l’esposizione, invita la critica italiana ad assecondare l’ondata americana, capace di dare nuovo respiro ad un collezionismo asfittico e penalizzato da sfavorevoli congiunture.

Del resto, già da tempo, si guardava alla corrente internazionale come possibile via fuga dal provincialismo romano. Lo dimostra il tour de force espositivo tra La Tartaruga, La Salita e L’Attico, dove convergono ricerche eterogenee e generazioni diverse in nome di un’espressività forzatamente popular, e ancor più, lo sforzo della critica per incorniciare in un’etichetta (“Scuola di Piazza del Popolo”, “Arte di reportage”, “Neometafisica”) i vertici instabili di una ricerca non programmata. Strategia perdente, a quanto pare, che nell’atto di confezionare un artificioso contraltare pop, ha esasperato le consonanze, a scapito delle peculiarità.

Non a caso, per ridare veste d’autonomia alla poetica romana, la critica degli ultimi anni si è mossa nel verso opposto: dal global al local, che per Lux diventa «non pop, ma pap» (8), ad ogni modo fuori dagli argini di una definizione, più imposta che spontanea.

Dall’alto:

Mario Schifano, When I remember Giacomo Balla (camminare), 1964, smalto e grafite su tela, cm. 200×300, Milano, courtesy Fondazione Marconi. Fonte: cat. A. Bonito Oliva (a cura di), Schifano, 1934-1998, 2009, p. 97.

Tano Festa,  La creazione dell’uomo, 1964, smalto su carta emulsionata su legno, cm. 190×272, collezione Franchetti, Roma, foto di Z. Colantoni e G. Schiavotto. Fonte: cat. D. Lancioni (a cura di), Tano Festa, 2004, pp. 68-69.

Cesare Tacchi,  Renato e poltrona, 1965, smalto e inchiostro su stoffa imbottita, cm. 160×140, collezione Tacchi, dep. Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, foto di R. Paesanti. Fonte:  cat. M. Calvesi (a cura di), Roma anni ’60, 1990, p. 187.

Giosetta Fioroni, Ragazza TV, 1964, matita e smalti bianco e alluminio su tela, cm. 114×149, Torino, Galleria Nazionale d’arte moderna e contemporanea, foto di G. Schiavotto. Fonte: cat. C. Germano (a cura di), Giosetta Fioroni, 2009, p. 124.