La vertigine dell’uomo/artista Tancredi

di/by Elisabetta Cristallini

Una grande foto di Tancredi ci introduce nella mostra retrospettiva alla Fondazione Guggenheim di Venezia, a 50 anni dalla prima (finalmente). Appoggiato alla spalletta di un canale, un vestito un po’ fané, una cartellina di disegni sotto al braccio, la sigaretta accesa, gli occhi tristi che bucano l’obiettivo.

1 - a venezia 1955-56
Tancredi a Venezia, 1955-56

Un primo piano di Arnold Newman (il fotografo di Stravinsky, Picasso, Mondrian, Ernst, ecc.) occupa l’intera cover del catalogo: il viso di tre quarti, lo sguardo sempre triste, lontano. Ancora più bello. All’interno del catalogo altre foto di Tancredi scattate da grandi maestri (Ugo Mulas, Gianni Berengo Gardin, Milton Gendel, Nino Migliori).  Foto ritratti che suggeriscono una lettura della mostra (a cura di Luca Massimo Barbero) con una prevalenza del dato umano-esistenziale. Il mito di un Tancredi maudit viene dunque qui avvalorato, confermando quello slittamento dell’aura dall’opera all’artista com’è in tanta arte contemporanea da Duchamp in poi, attraverso Pollock, Manzoni, Klein, Beuys ecc. Eppure proprio le vicende esistenziali con la conseguente radicale trasformazione del suo linguaggio vengono omesse. Così dei disegni (moltissimi e mai ripetitivi) dell’ultima stagione (omuncoli, matti, mostri) non c’è traccia. Eppure lui stesso due anni prima di morire, suicida nel Tevere (1964), aveva scritto: “se nel mondo si cerca un vero chiarimento della realtà il disegno è uno dei mezzi principali. E’d’altronde mia opinione che un disegno possa essere di gran lunga più bello di qualsiasi quadro”.

La mostra avvalora anche la lettura di Tancredi come sismografo delle grandi ricerche internazionali del secondo dopoguerra che ha potuto e saputo cogliere da un osservatorio privilegiato, dove ha tenuto il suo studio nella prima metà degli anni ’50, gli anni cruciali della sua formazione : il Palazzo Venier dei Leoni, residenza di Peggy Guggenheim, un’amicizia che non lo abbandonerà mai.  Sismografo insofferente ma anche anticipatore di correnti, Tancredi ha dato una misura tutta italiana, anzi veneziana, alla sua pittura.

Nato a Feltre, ma veneziano d’adozione Tancredi intorno al ’50, dopo un suo fondamentale soggiorno romano dove frequenta i giovani artisti del primo gruppo astrattista italiano Forma 1 (in particolare Giulio Turcato, suo conterraneo) e Milton Gendel, rivoluziona il suo linguaggio. Il segno, diventa elemento costruttivo e si frantuma in particelle pulviscolari, diventa dinamica traccia svirgolata, assume poi movimenti aggrovigliati, organici a spirale oppure a orbite che richiamano la pittura nucleare o ancora diventa segno/gesto con la tecnica del dripping (Fontana, Pollock, Hartung sono i suoi principali riferimenti culturali). Nella serie delle Primavere (dal 1952) i piccoli segni si addensano come attratti da una misteriosa forza centripeta che li inghiotte in un al di là: risposta percettiva e non concettuale alle riflessioni sullo spazio di Fontana, ma pittura “immersiva” tanto quanto quella dell’artista milanese. Tancredi cerca un supporto teorico all’idea di spazio dinamico e infinito già presente nella sua opera proprio nel movimento spazialista al quale aderisce nella sua declinazione veneziana che fa capo alla Galleria del Cavallino di Cardazzo.  Il groviglio di punti e svirgolate, velocemente schizzati, attraggono lo sguardo dello spettatore e lo invitano ad affacciarsi in abissi senza limiti. Il “punto”, scrive, è “un termine relativo, illusivo di spazio… in  quanto è il più piccolo spazio mentalmente considerato” e poi ancora: “dal punto io parto attraverso grafie e colori istintivi per la conquista di nuove immagini di Natura”.  In quei gorghi l’artista non perde mai il controllo: è padrone di un segno automatico,  l’impaginazione del foglio è salda, i margini liberi, poi a metà degli anni ’50 compaiono strutture geometrizzanti sottostanti le galassie di punti.

2 - Tancredi, 1951
Tancredi, Senza titolo, 1951

Il ciclo bellissimo delle Venezie (esposto per la prima volta nel ’59 a Milano alla Galleria dell’Ariete di Beatrice Monti) è il risultato di una meditazione sul processo creativo di Mondrian : “la natura si può dividere in forme che si possono moltiplicare all’infinito; scindendola si scopre la geometria”, scrive Tancredi. Un richiamo a Mondrian filtrato da una misura tutta veneziana. Attraverso geometrici ma impalpabili velari colorati cerca di restituire sulla tela ciò che è difficilmente oggettivabile e distinguibile: la trasparenza dell’atmosfera veneziana, acqua, cielo, bruma, luci…. Velature su velature e poi ancora piccoli punti-luce, grigi e azzurri diafani e poi i rosa e i gialli, la laguna e l’atmosfera dei tramonti e delle albe veneziane quando la luce è più incerta ed ogni cosa trascolora nell’altra in un senso di mobile dilatazione spaziale che avanza e retrocede al pari di un quadro di Rothko.

Poi improvvisa la rottura con il passato sul crinale del ’59-’60, una tabula rasa di tutti i precedenti riferimenti culturali, come è stato in quel momento per tanti suoi coetanei. Abbandona  Venezia, va a  Parigi, città profondamente scossa dalla “sporca e inutile guerra d’Algeria”, registra Tancredi, e aderisce alla proposta di “rottura con l’arte ufficiale” del gruppo internazionale dell’Anti-Procès organizzato da Jouffroy e Lebel. A Parigi i nuovi incontri agiscono come forti stimoli di rinnovamento: quello con il poeta Jaguer, referente parigino del gruppo Cobra, con la sua rivista “Phases” e il circolo dei surrealisti, Giacometti, Masson, l’art subversif di Dubuffet.  L’emersione della verità è drammatica. Nella primavera del ’60 scopre poi Munch al Museo di Oslo, è da quel momento che Tancredi adotta un linguaggio espressionista come ribellione ad ogni sistema pittorico e come mezzo per affrontare più direttamente il suo sentimento della vita e della società che diventa protagonista inquietante e beffarda dai connotati stravolti da una violenza silenziosa e sotterranea. La sarcastica critica sociale, il segno automatico dai colori vivaci rimandano a Cobra, l’umanità brulicante richiama quella di Dubuffet.

6 - la preistoria e il triangolo
Tancredi, La preistoria e il triangolo, da Tredici facezie di Tancredi, ed. Schwarz, Milano, 1961

Tornato in Italia, a Milano, Tancredi sembra lavorare su un doppio binario, ma il fine ultimo è lo stesso: la ricerca e la rivelazione della verità.  La serie iniziata nel 1961 dei Diari paesani e dei Fiori dipinti da me e da altri al 101% (titolo che rimanda alla polemica sull’arte moltiplicata) è dedicata, con ironia e amarezza, all’Italia e alle sue incongruenze: grandi quadri astratti dai colori forti con inserti di stoffe fiorate, collage di pezzi di giornale (un cannone della I guerra mondiale, una stampa di una damina su una carrozza a cavalli ecc.), fiori di stoffa, oggetti reali che appartengono al mondo della buona borghesia.  La natura e l’artificio, il vero e il falso.

La mostra finisce qui. Non dà conto, come si diceva all’inizio, di un passaggio cruciale: la presa di coscienza della violenza della società va in parallelo con l’emersione della “mostruosità” del proprio inconscio.  Ecco quindi, sempre nel ’61, le Tredici facezie di Tancredi edite da Arturo Schwarz: un ritorno al figurativo dove la grafia, rapida, corsiva, tormentata, spezzata, deformante, ci parla di una umanità aggressiva che sta perdendo i suoi connotati umani, in un caos primordiale, in un ritorno all’indistinzione mitica della mostruosità, prima che il mondo si dividesse tra bene e male. Gli stravolgimenti somatici rivelano il volto “disumano” della società che rispecchia a sua volta il proibito del profondo. Perduta la libertà iniziale, la società appare a Tancredi come una giungla darwiniana dove la disuguaglianza, la lotta, il potere nelle sue varie declinazioni (fascismo, chiesa, capitalismo, denaro, sesso) prevalgono incontrastati. Gli omuncoli diventano indistinte sagome fantasmiche e amebiche, sospese in gorghi d’aria, galleggianti in spazi indefiniti, in procinto di cadere in un invisibile precipizio.

7 - senza titolo (autoritratto)
Tancredi,  Senza titolo (Autoritratto), 1962 c.

“Li ho trovati per la strada tanti piccoli matti con dei cazzi senza palle e delle teste grosse, gonfi di decorazioni, armature e retoriche comuni. Io non ho fatto che buttarli sulla carta perché si potessero vedere o per vedere un po’ più di me stesso”, scrive Tancredi nel 1962.  Si affaccia il tema dello smascheramento e dello sdoppiamento: gli omuncoli/autoritratti dai volti deformati vivono isolati o in un mondo popolato da assurde e minacciose presenze mostruose. Ritorna il tema del vortice che porta con sé quello della vertigine: se nei disegni degli anni ’50 si trattava della caduta di piccoli punti di colore/luce sospesi, irradianti e/o assorbiti in un centro senza fine e dell’intuizione/percezione dell’infinità cosmica, in quelli dell’ultima stagione l’umanità intera fatta di piccoli omuncoli deformati (e con lei l’artista stesso), viene inghiottita, annullandosi, nell’infinità/voragine dell’universo e di un indicibile profondo.

Frequentando spericolati percorsi, Tancredi è su un crinale, in bilico su un baratro, poi (dopo l’invito alla Biennale “americana” del 1964) la scelta “scandalosa” a soli 37 anni. La vita opera l’artista, ha scritto di lui Jean-Jacques Lebel.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5 - ultima sala opere 1961-62

 

 

 

 

 

Tancredi, ultima sala della mostra con opere del 1961-62

 

 

4 - Tancredi sala Venezie 1958-59
Tancredi, sala con ciclo delle Venezie, 1958-59

 

 

 

3 - Tancredi, senza titolo 1954
Tancredi, Senza titolo, 1954