Le condizioni in cui versa la ricerca contemporanea nelle nostre università non è solamente vergognosa, ma è materiale di denuncia al tribunale di Strasburgo per maltrattamenti e schiavizzazione dell’intelligenza.

Da quando le università hanno aperto le loro vetuste aule alle nuove generazioni di intellettuali e ricercatori, attraverso i contratti e gli altri strumenti concessi, si è raggiunto un primo risultato, quello di scardinare il potere dei vecchi baroni. Sebbene questo potrebbe essere considerato positivamente in realtà ha causato in primo luogo la svalutazione di un rapporto, fra politica e cultura accademica, fondato sul riconoscimento di un’autorevolezza. L’autorità del professore universitario consisteva naturalmente nel concedersi il lusso decisionale nella formazione di un ceto dirigente, marchiandone con un imprimatur duraturo la successiva carriera. Ma non era solo questo. 
Ai posti di comando delle università sedevano molto di rado coloro i quali non avessero contatti stretti col potere politico e in molti casi questi poteri coincidevano. I grandi statisti italiani sono stati sempre degli accademici e pochi di loro hanno rinunciato al titolo di professore per stabilirsi nel parlamento. I due ruoli erano molti spesso contigui e comunicanti.

Sino agli Anni novanta il dominio della politica si è sempre relazionato con la cultura accademica tanto che ancora durante il Primo governo Prodi, si parlava del Governo dei professori delle riforme. Animati da uno spirito pratico costoro hanno avviato le riforme di cui adesso beneficiamo. Queste riforme atte a scardinare antichi privilegi e nepotismi hanno favorito l’ingresso all’insegnamento universitario ad un’ampia schiera di novizi, chiudendo di fatto il reclutamento di nuovi docenti attraverso quei concorsi che si dicevano malati di favoritismi. Ma soprattutto, per limitare le spese dello Stato, niente più posto fisso, ma “strumenti flessibili per il lavoro”.

Il meccanismo chiuso dell’accademia ha subìto un colpo notevole, ma dopo i primi anni di assestamento si è capito che il sistema stava esondando dal progetto. Difatti, la mancanza di un ricambio attraverso l’ausilio concorsuale ha snaturato l’idea stessa dell’insegnamento, ha incrinato il rapporto fra politica e docenza, inquinando l’autorevolezza del titolo accademico formando una categoria di sottoproletariato intellettuale. Poiché stuoli di nuovi pseudo-professori entravano nel mondo accademico questo si è chiuso su se stesso arginando all’interno delle sue posizioni anche l’osmosi fra politica e ricerca. La politica minava l’autorità del ruolo infangandolo con nuovi ruoli da cui bisognava distinguersi. I docenti istituzionali si sono così costruiti un guscio inscalfibile dotandosi di norme pratiche per emarginare e distinguersi dai nuovi docenti, per evitare il contagio plebeo dei nuovi arrivati, costruendo pratiche cameratesche, sistemi di nonnismo militaresco. Poiché il mondo accademico era in crisi, e malamente tollerato anche dal sistema della Nuova destra, ha poi deciso di troncare i suoi rapporti fiduciari con la politica nella speranza di contenere, nel numero limitato degli aventi diritto, quei privilegi che la politica non aveva più interessi a dargli. 
Spezzato il filo prima solido che legava ambienti della ricerca, mondo accademico e politica, l’università è stata man mano declassata nell’indifferenza e nel plauso del mondo politico, dell’informazione e della comune vulgata.

Le campagne di denigrazione e di denuncia si sono succedute coinvolgendo molta parte del mondo accademico, accusato dai media d’essere antiquato, corrotto, malversante. In breve un mondo accademico e di ricerca sempre più chiuso ed assediato dalla politica, per quelle richieste di liberalizzazione che l’università non avrebbe voluto concedere, si è trovato a dover fare i conti con un nuovo modello strutturale. Questo modello vede alla sommità quei pochi vecchi baroni, primari, ordinari, direttori di dipartimenti e centri di ricerca, circondati da pochi altri docenti strutturati e da molti, troppi, più giovani docenti con incarichi temporanei, contrattisti, precari, consulenti, spesso reclutati con metodi ancora più oscuri di quelli concorsuali. Necessari, peraltro, al funzionamento dell’università dissanguata dai pensionamenti e dalla fine dei finanziamenti. Il sistema di controllo di questa accademia dei cervelli prevede una “cupola”, chiusa ed introflessa, intenta a proteggere i pochi resti di quel potere che la politica gli ha tolto, minando alla base il coefficiente di credibilità dell’università.

Poiché le università non volevano aprirsi ed erano territorio di correnti ostili all’intervento politico, si è deciso politicamente di scardinare questo mondo di privilegi delegittimandone il ruolo, stringendogli il cappio dei finanziamenti, affogandola con gli effluvi dei nuovi sistemi contrattuali fondati sul ricatto immediato. Ma questo, prima che minare l’istituto baronale ha costruito una nuova categoria di pària della ricerca, quelle giovani generazioni, che poi non sono nemmeno così giovani, di quarantenni e trentenni, inseriti nel mondo della ricerca e dell’insegnamento per supplire le richieste di modernizzazione delle università e dei nuovi programmi che i vecchi baroni non potevano dare. Docenti di Economia della Scatola di Cartone e di Storia della Bottega nell’Epoca Paleocristiana si sono così trovati a recitare il ruolo di un potere che in realtà non li toccava neanche, ma che li costringeva, come soldatini di pezza, a resistere sulle barricate della ricerca in virtù di insondabili piani di rinnovamento mai avveratisi. 
Ricattati con l’impossibile promessa di nuovi posti che il sistema non avrebbe mai potuto e voluto garantire, questa schiera immensa di nuovi professori e ricercatori ha lottato per anni una competizione inutile e feroce. L’università infatti sarà molto presto ridimensionata e il caro professore di Agiografia del post-it diverrà un lontano ricordo.

Gli intellettuali attualmente al lavoro nelle università sono incalzati da pressanti richieste di abbandono, spesso minacciati da progetti mortificanti. La politica ha già raggiunto il suo scopo, annichilire la critica al sistema, delegittimare i vecchi baroni, e progetta di sostituirli con i nuovi demiurghi del controllo intellettuale, i manager del privato, assoldati non per qualità di pensiero ma per capacità di gestione e profitto.

Ma cosa ne è adesso di questo stuolo di ex nuovi professori e ricercatori? La loro vita professionale è già da tempo segnata ma gli esiti dirompenti dei nuovi ordinamenti hanno causato ben più di quanto si potesse prevedere. I nuovi professori e gli intellettuali intrappolati nei gangli della ricerca si sono trovati a sostenere un peso enorme, con ritmi e carichi di lavoro pari a quelli dei loro colleghi istituzionali stipendiati dallo stato, ma diversamente da questi non sono stati pagati che con una promessa, ovvero, che la competizione e la meritocrazia avrebbero ristabilito una nuova giustizia del lavoro. In molti hanno creduto possibile un mercato del lavoro della ricerca fondato su contratti temporanei dignitosi. E’ successo, invece, che questa categoria di schiavi intellettuali ha dovuto rispondere alle pressanti richieste ricattatorie dei loro responsabili istituzionali, molto spesso ordinari di riferimento, ma anche professori associati o professori di terza fascia, con solerzia e professionalità. Hanno fornito materiali didattici e competenze nate dall’oggi al domani, molto spesso poi assorbite dalle cattedre di riferimento. I vecchi baroni sempre più pasciuti ma impauriti e aggressivi, dietro di loro soltanto un campo di battaglia, la guerra dei poveri ad un anno d’incarico a duecento euro lordi senza alcuna prospettiva. Un miserabile lumpenproletariat intellettuale incapace persino di assumere una propria coscienza e di contrattare condizioni più umane.

Ma peggio ancora, i nuovi pària sono dovuti sopravvivere in organigrammi complessi in cui, ad esempio, un nucleo di un centro di ricerca sia composto da un solo professore istituzionale, o, come si dice in termine burocratico, incardinato, alcuni professori a contratto, un paio di consulenti occasionali, alcuni studenti dottorandi forniti di borsa temporanea e poi studenti borsisti e semplici tirocinanti: in ogni ambito dello Stato, affinché una qualsiasi struttura possa esistere deve esserci anche un impiegato istituzionale, e spesso costui è un impiegato con anni d’anzianità, ma assunto con un diploma di terza elementare o anche meno e che costituisce a tutti gli effetti il garante istituzionale del centro. Costui è il responsabile in mancanza del professore istituzionale. Costretti al lavoro frenetico dall’incombente richiesta di efficienza dal primario, ordinario, di riferimento, che esige ricerche e satrapizza i risultati, i nuovi ricercatori sono così umiliati nel dover dipendere da un impiegato fornito di diploma di terza media, il quale, nobilitato dall’essere l’unico con garanzie e diritti, ha imposto la sua legge ignobile, facendo degli studenti i suoi camerieri e degli studiosi i suoi strumenti di controllo. Un esercizio di potere da contrabbandare con i bidelli suoi pari o con gli autorevoli docenti incardinati coi quali trattare su una solida base: l’impunità.

Una categoria di ignoranti senza alcun dovere ma gonfia di privilegi governa la sordida sopraffazione della ricerca, e grazie al beneplacido del potere politico, di cui è la mano violenta nell’annichilimento culturale dell’intelligenza, lavora in sordina per accaparrarsi più potere e controllo sul lavoro e sulle risorse della ricerca da stornare in impieghi parentelari. Da una parte l’ignoranza gradassa ed analfabeta con le mani dentro al potere, dall’altra la manovalanza iperspecializzata di fantasmi sociali impegnati in una forsennata formazione senza fine nella speranza meritocratica in cui si sommano titoli, laurea, master, specializzazione, dottorato: titoli illusori che non danno nulla, ma sottraggono tempo, emarginano le intelligenze produttive e ne schiavizzano le energie. Titoli resi necessari da quegli stessi docenti incardinati che attraverso la vendita di questa “merce” riescono a sopravvivere. Schiacciati da questa assurda forza di compressione i nuovi docenti e gli intellettuali prestati temporaneamente alla ricerca hanno dovuto combattere da una parte la voracità vampiresca dei vecchi docenti e dall’altra la volontà manifesta di parassitarismo praticata da burocrati e miserabili impiegati dello Stato. Costoro sono impegnati esclusivamente nel boicottaggio di tanto frenetico attivismo intellettivo e organizzativo, al solo fine di gestire in proprio le poche risorse disponibili. Il risultato è stato il compiersi della piena delegittimazione della ricerca, la metamorfosi dell’intellettuale impegnato nel nobile lavoro della formazione e della conoscenza e finito sotto il tallone volgare dell’ultimo usciere al soldo dello Stato.

 

Luglio 2008