Nel suo L’Art à perte de vue  (Édition Galilée, Paris 2005; trad. it.  L’arte dell’accecamento, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007), Paul Virilio traccia un ritratto dell’azione artistica contemporanea attraverso l’idea incombente dell’iconoclastia del reale, succeduta, nel suo giudizio, all’idealizzazione del virtuale. 
Una virtualità telecratica, oggi proclama l’assenza dell’esperienza del mondo attraverso i nuovi media. Virilio si chiede perché l’afasia critica possa far scaturire morfemi estetici atti non già all’analisi del reale ma, nella migliore delle ipotesi, alla cecità di Saramago. La visibilità totale è l’accecamento per via d’illuminismo, e con questo ultimo termine Virilio allude alla luce eversiva delle radice tecnocratica, iper-tecnologica dell’arte.
Il problema che ci si pone nell’ideazione di una mostra, una mostra che sia misura complessa del proprio tempo, è di riuscire a sintetizzare attraverso alcuni lavori d’arte, e la complicità di artisti che ne sono propositori, una visione complessiva, svelante, della realtà. Compito non certo semplice, spesso addirittura impossibile per chi ne intellettualizzi le mosse, come giocasse contro un misterioso avversario la partita a scacchi che Duchamp sostituiva all’azione artistica. Curare una mostra significa infatti porsi al cospetto delle verità del proprio tempo e non stupisce se oggi vanno forte i critici ed i curatori provenienti dall’Est europeo. Sono, a dispetto di alcune convinzioni occidentali, di quell’Occidente husserliano, la nuova linfa stessa dell’Europa e, sia pur condividendo un atteggiamento sociale con la scuola anglofona, sono cresciuti in scuole che scandivano un modello analitico del sapere. Si tratta in fondo di una versione realistica della coscienza artistica, anche se compromessa dalle esondanti miscele distrattive dell’avanguardismo di maniera. Poiché sono curatori e critici che pongono questioni e discutono relazioni reali: la politica, la responsabilità, l’estetico e l’anestetico.

Già, l’estetica anestetica. Oggi l’arte stupisce quando diviene scandalo, ma di ciò che racconta veramente non “si” dice nulla. Nulla traspare dalle cronache raccontate da giornalisti precari, spesso indifferenti quando addirittura disculturati alla materia, in un enciclopedico copia incolla da comunicato stampa superfetato in rete, pronto per essere ricopiato, firmato. Note che divampano in una notte della ragione e che diventano silenti azioni di sopravvivenza. Il curatore tutto questo lo conosce e difficilmente riesce a forare il buio di un’informazione priva di racconto. Le sue scelte sono tuttavia di grande importanza. Anche nel desolato spazio della solitudine intellettuale. Le azioni curatoriali sono linguaggio colto espresso in modalità sintetica attraverso oggetti emblematici del quotidiano, non più ridotto a cronaca ma elevato a documento del proprio tempo. Proprio per questo si dice che nelle particolari esigenze dell’esperienza curatoriale sono importanti sia la fase di progetto che quella della documentazione. Ma la tecnica della documentazione, quella che esattamente Virilio condanna, è l’aspetto più professionale, il realismo di mercato. Ciò che ne deriva è spesso la traduzione disperata dell’azione curatoriale in documento spettacolare, con appendici e propaggini tentacolari nel mondo dell’informazione e dell’immagine, senza che sia stata mai toccata la radice della questione, ovvero ciò di cui stiamo parlando attraverso l’arte.

La critica e i giovani curatori dell’Est distraggono questo progetto di annichilimento della ragione, e contro quest’azione l’accademia oppone la seduzione, l’accerchiamento, la metabolizzazione della critica sociale. Ma cos’è l’arte di oggi se non ne discutiamo realmente la forma e l’estetica? Una forma, beninteso, è il discorso complesso che l’arte non vuole e non può fare con i termini della ragione logica. Così l’arte senza critica e senza parole ci appare illogica. Una rana crocifissa, bambini impiccati, cos’altro si inventeranno gli artisti dello stupore? Pensano i pochi che ne conoscono per via pubblica, l’“aura”. A questa fantasmagoria dell’aspetto documentale, fa da contraltare, simmetrico, la fanatica ricerca di sponsor e sostegni di mercato in fase di progetto. Ciò che la cronaca però non dice è ciò che l’arte vorrebbe raccontare, ciò che un insieme di muri di gomma le vietano di dire. Sono i muri innalzati da una critica restia a condividere frammenti di mercato, o anche muri nati da storie lunghe, troppo spesse da far soccombere. Ma lo spazio reale dell’arte è ciò che sta discutendo attraverso l’analisi delle metodologie di intervento socio economico. Al di fuori di quest’impegno l’opera d’arte è imbellettamento dell’architettura del vivere, dentro e fuori il museo, dentro e fuori l’abitato civile. Aeroporti, supermercati, anfratti deprivati di ogni barlume di bellezza sono per l’arte luoghi, spazi indifferentemente usabili, anche attraverso l’idea estraneante della materia posta in gioco nella sua esposizione.

Quindi la mostra.
Mostrare non è certamente creare, ma connettere diversi aspetti del produrre è in parte creare, attraverso connessioni e sintesi, parallelismi interpretativi o suggestioni. Ciò che conta è quello che si vuole dire, poiché si suppone che lo sguardo del curatore sia come quello dell’artista, uno sguardo smaliziato che conosce la filosofia del mondo, e non solo, certamente, quella della telecrazia. Proprio qui nasce l’idea dello spazio, che è una forma abitabile di vuoto, uno spessore ideale in cui sottomettere un aspetto voluto e sintetico del reale. Lì, in quel vuoto ideale, stiamo raccontando una storia che non è mai stata raccolta, forse è addirittura preveggente come lo era  No Man’s Time, come lo è stata  Les Immateriaux. Forse prosegue la pratica processuale e compositiva di Collins & Milazzo. Ma tutto quello che realizzano oggi gli artisti e come lo espongono i curatori, anche in istituzioni grandiose, non supera il semplice messaggio esistenziale dell’opera. Il problema che si pone è che lo spazio sarà anche reale, come nel caso delle grandi manifestazioni internazionali, ma è soprattutto dinamica diplomatica, di quella nuova diplomazia culturale che ha triturato le vecchie consuetudini dell’arte. La cura diventa allora reale, perché attraversa lo spazio della politica e qui si autodistrugge, riducendosi al ruolo infimo di spettatore occasionale, giocoliere fantasioso, gioco pirotecnico. È vero, non è esattamente questo che il curatore in analisi, e le opere che ci voleva sottoporre, avevano voglia di dirci, ma la sovraesposizione, l’illuminismo della ragione economica non permettono pensieri estranei al potere. La documentazione della mostra del nostro curatore parla chiaramente dei suoi scopi, ma chi ne ha colto il messaggio? La realtà è del re, non certo dell’impiegato a ore. La realtà è degli imperi economici, non certo quella dei colti intellettuali che frequentano in ghingheri le sale espositive. Una realtà che annichilisce e disarma la critica, anche la critica socio ecologica e politica dell’arte. Quanti fra coloro che parlano e discutono della nuova realtà dell’arte sanno che artisti conclamati come Tiravanja producono anche e soprattutto frammenti di utopia sociale? E perché per saperlo chiaramente bisogna aspettare il filtraggio della notizia, o peggio, conoscere personalmente l’autore in questione? E quanti ne hanno mai cercato di compredere appieno idea e ideali esistenziali? E quanti, infine, sarebbero disposti a metterli in opera, se ancora oggi vedo pseudointellettuali indifferenti all’ecologia e alla politica, addirittura impermeabili ai problemi reali dell’esistenza? Di che arte contemporanea parlano costoro? Lo si fa discutendone su una cattedra, ad una conferenza stampa, per poi gettarsi nel consumismo ignaro, comperando merci che hanno ucciso, nutrendosi di cibi che offendono il futuro e regalando ad altri gli scarti tossici di un esistere di spreco e sopraffazione.

La realtà radicalizza la materia, sottilizza e frammenta le operazioni sommergendole in un mare di informazione proliferata sul copia incolla cerebrale, autocelebrativo, in un rincorrersi del nulla nel nulla, riflessi di una lontana idea, spesso esplicitamente pubblicitaria. In ciò la distanza della critica, che guarda allontanarsi qualsiasi suo incidere la realtà che in fondo condanna, pensierosa solamente, ma non consapevole, della tragica fine della storia specialistica e del proliferare dei suoi revisori. Il potere è semplice perché non lascia concessioni, ed in questo l’agente esterno, l’artista, affoga senza poter discutere ideali e progetti. Se ha ideali li vedi ridotti ad oggetti illuminati di realtà. Non sono più gli stessi se non determinano concetti, discorsi e parole differenti.

Un simile pessimismo, che a detta di quei pochi conoscenti che a volte discutono con me, non sarebbe motivabile altrimenti che con un fallimento totale di un’idea propositiva dell’arte. Ma la fine non ha mai fine. E ciò che mi sgomenta è che più giovani critici e curatori, senza cadere in alcun argomento impossibile, dichiarino apertamente d’essere convinti che ciò corrisponda a puro ottimismo, ovvero che esista un probabile dialogo fra differenti attori di un medesimo dramma attraverso la lettura. Ed è ciò che oggi chiamiamo ideale, il vuoto dell’intelligenza di cui non crediamo più la ragione d’essere, ma alla quale non creiamo spazi. Qui, lo spazio ideale della mostra, lo spazio di una coscienza del presente al di fuori di ogni tentazione proiettiva nella storia. Lo spazio ideale è un bianco vuoto, un nero pieno che la cura vuole riempire di significati oggettivi, ma di cui la realtà non riesce a riconoscere comunque la voce.

Novembre 2008