All’inizio di questo anno (28 gennaio 2005-28 febbraio 2005) si è svolta a Mosca la prima biennale d’arte contemporanea in Russia. Un risultato positivo quello di essere riusciti a organizzare un evento di questo tipo, in un paese che solo dal crollo del comunismo ha cominciato a confrontarsi ufficialmente con forme di espressione non riconducibili ai canoni della tradizione. L’arte non “conformista” tuttavia in Russia si è sviluppata ed è vissuta parallelamente a quella ufficiale, nella clandestinità, per lungo tempo. A testimoniare l’interesse mai sopito degli “addetti ai lavori”, dei cultori del genere e in particolare, dei collezionisti di oggi e di quelli che avevano già iniziato a raccogliere opere ai tempi del regime, non sta comunque solo questa prima biennale, finalizzata a proporre un incontro-confronto tra artisti russi e stranieri. Da qualche tempo, con scadenza annuale, anche la fiera Art Moskva si propone come punto di incontro tra l’offerta degli autori e la domanda di compratori dai profili più disparati. Un altro segno tangibile dell’appeal che ha l’arte in generale e quella contemporanea in particolare sulla nuova classe di super ricchi russi, al di fuori dei luoghi comuni che li dipingono come sensibili esclusivamente al fascino di grandi auto di lusso e di vestiti griffati, sta nel fatto che questi sono disposti a investire anche grandi capitali nel settore. A tale proposito è stata significativa la fondazione nel 2002 del Club dei collezionisti di arte contemporanea a Mosca. In un simile contesto quindi dobbiamo supporre che abbia trovato terreno di accoglienza l’idea di questa biennale che, come molto di ciò che riguarda la Russia dal punto di vista culturale, offre molti motivi di riflessione e di approfondimento sulla questione, sempreverde, del ruolo dell’arte nel paese. Innanzi tutto vanno segnalati gli spazi che la città ha dedicato a questa esposizione: l’ex museo Lenin (il centro principale), il Museo dell’Architettura, la parte antistante alla Nuova Galleria Tretyakov e la fermata della metropolitana, recentemente restaurata (in un megalomane marmo verde, che però ben si adatta allo stile monumentale di tutte le linee della metropolitana cittadina) Borovevy gory, nei pressi dell’università statale Lomonosov. Gli spazi diversi e i curatori di diverse nazionalità (Daniel Birnbaum, Iara Bubnova, Nicolas Bourriaud, Rosa Martinez, Hans Hurlich Obrist) oltre naturalmente al locale direttore del Rosizo, il Centro Statale per i Musei e le Esposizioni, Josif Bakstein, indicano la volontà di rendere il più cosmopolita possibile questo evento e nello stesso tempo di spingere il pubblico a una mobilità che non deve essere solo fisica. È singolare che tra gli spazi sia stato scelto proprio l’ex Museo Lenin e che la figura della “guida” del socialismo reale sia come spesso presente non solo nei lavori di artisti russi, ma anche in quelli di stranieri come l’italiana Micol Assael, la quale peraltro nel suoSleeplessness fa riferimento pure al Tarkovskij di Solaris, cosa che, vista da chi scrive, fa pensare a un’interpretazione della Russia vista da uno straniero, purtroppo non provocatoriamente, attaccato a balaljke, matriosche e orsi bruni (altra cosa sarebbe stata se Tarkovskij fosse stato citato da russi). D’altra parte gli artisti locali, rielaborando per l’ennesima volta le icone di un ingombrante passato politico-culturale come i Blue Noses con la loro Little Men, hanno dato vita a una serie di discussioni, testimoniate nella rassegna stampa del sito della biennale (http://moscowbiennale.ru/en/main/) in cui ancora una volta critici russi e pubblicisti di importanti testate nazionali affrontano il problema dell’influsso del canone socialista sull’arte odierna e ribadendo la grande rilevanza di un evento del genere, primo nella storia culturale del paese. Alla biennale di Mosca hanno infatti partecipato 41 artisti di 22 paesi diversi e nel corso di questo evento nella città hanno avuto luogo 24 mostre speciali e 30 progetti paralleli. Se quindi questa grande apertura ha suscitato molti consensi tra i critici e gli addetti ai lavori, alcune voci fuori dal coro hanno sottolineato come la biennale di Mosca sia stata una cosa organizzata dai “grandi” per i “grandi” e dove i giovani hanno avuto uno spazio marginale, tanto come artisti quanto come pubblico. A questo proposito è divertente il commento di Igor’ Chuvilin sulle pagine del quotidiano “Gazeta”, che il 3 febbraio ha commentato, facendo riferimento all’abitudine di circoscrivere gli eventi culturali e le discussioni più interessanti negli appartamenti, durante il regime sovietico (da qui è nata la nozione di “Aptart”): “È noto che il salame prima [in era sovietica, ndr.] era più buono, gli scarafaggi erano di più, e le cucine più confortevoli, nonostante che di salami ce ne fossero pochi e di scarafaggi molti. E pure che le conversazioni in cucina fossero molto più spirituali, molto più audaci e profonde, che nella vita al di fuori della cucina. […] La biennale non si è indirizzata verso i giovani ma, in contrapposizione alle stelle dell’arte internazionale, ha mostrato i bastoni dei veterani: la mostra Soobshnik alla Tretyakov, il progetto Informbjuro– tutte retrospettive del nostro non lontano, ma glorioso passato”. Sergej Khachturov invece, su “Vremja Novostej”, ha rilevato l’importanza di un simile evento nell’ambito della nascita di una dialettica con l’esterno a lungo attesa dagli intellettuali in Russia. La biennale di Mosca ha dunque aperto una discussione su tematiche che trascendono l’evento in sé e che sottolineano quanto l’arte, come strumento di confronto con gli altri e di autoanalisi, riesca sempre a essere un elemento fondamentale e irrinunciabile nella storia di un paese e del suo popolo.

Dall’alto:
Micol Assael, Sleeplessness, 2003, installazione, Courtesy: Galleria Bonomo, Bari

Michael Beutler, Sputnjk, 2005, photo: Romily Eveleigh

Blue Noses, Little Men, 2004-2005, installazione video

Blue Noses, Little Men, 2004-2005, installazione video