Sentieri invisibili
di Jacopo Benci
a cura di Martina Sconci
Hybrida Contemporanea
via Reggio Emilia 32a Roma
dal 9 al 28 aprile 2010

www.hybridacontempora
nea.it/exhibition/

www.jacopobenci.com

“Il mio spirito faceva come fanno gli occhi con la tappezzeria: a forza di guardarla, non la vedono più”. Raymond Radiguet nel suo celebre romanzo, Il diavolo in corpo del 1921, descrive con queste parole la condizione di disagio emotivo del protagonista, appena adolescente, nel momento in cui prende coscienza dei propri sentimenti nei confronti di una giovane signora.
Quello stesso spaesamento antropologico dell’io nel momento in cui viene colto da dettagli fino ad allora insignificanti al suo sguardo, è il tema dell’ultima mostra di Jacopo Benci, Sentieri Invisibili presso la Galleria Hybrida di Roma.
Come Radiguet trascina il lettore, in uno stato di confusione emotiva, con un sottile e quasi crudele gioco retorico, così Benci affronta il suo spettatore con enigmatici scatti fotografici, fino a trascinarlo in uno straniamento, prima percettivo e poi cognitivo.
Entrambi gli autori, infatti, compiono la propria opera muovendo dal comune intento di interrogare ciò che sembra abbia smesso di stupire.

Benci lo fa attraverso una serie di fotografie in cui, per dirla con Roland Barthes – semiologo a cui l’artista si ispira dichiaratamente – gli elementi del punctum e dello studium danno vita ad un sovversivo cortocircuito che vede, eccezionalmente, il secondo avere la meglio sul primo. Il punctum, l’elemento dirompente che possiede la chiave per colpire, attirando o respingendo l’osservatore, nelle opere di Benci sembra, ad un primo sguardo, volutamente annichilito a favore del suo alter ego, lo studium, fattore che implica, invece, un interesse generico e vago per qualcosa, “appartenendo all’ordine del to like e non del to love”, come spiega l’autore nel suo saggio sulla fotografia del 1980, La camera chiara.
Gli scatti fotografici di Jacopo Benci descrivono un percorso tra sentieri realmente esistenti, ma invisibili allo sguardo dell’uomo, sia per la loro quotidiana manifestazione, sia per il loro rappresentare zone di confine. Benci dunque, nei panni di Michel De Certeau in L’invenzione del quotidiano, indaga e descrive in che modo gli individui navigano inconsciamente attraverso le cose della vita consueta.
Nel proporsi al pubblico in tutta la loro semplicità, in cui l’unica presenza costante è l’assenza di esseri animati, le fotografie di Benci – seguendo la ricerca estetica di artisti come Luigi Ghirri -squarciano sotto gli occhi dello spettatore un’estrema essenzialità, ai limiti del banale, di una scena vuota ma sorprendentemente densa di significati. L’allusione è alla memoria, alla “voce” ed all’identità di un luogo che rischia di essere dimenticato prima ancora di essere ri-conosciuto.
Tra i lavori che l’artista presenta alcuni sono in bianco e nero e ricordano, vagamente, ma non troppo, un certo tipo di cinema neorealista, quello in cui – come Blow-Up di Antonioni – l’uomo, smarrite anche le certezze più elementari, non è in grado di costruire un rapporto con ciò che lo circonda; altri, di dimensioni inferiori, sono invece a colori e ritraggono particolari di interni o di esterni, cortili, aule, giardini, strade rigorosamente popolate solo da oggetti comuni.
Scatti al limite o sul limite, per meglio dire, tra un non-dentro e un non-ancora-fuori, scene di atmosfere sospese in cui lo sguardo, frequentemente, è spinto ad andare oltre.

Ma queste zone di intersezione tra mondi, soglie di passaggio e angoli dimenticati, attraverso le opere di Benci, all’improvviso colpiscono e tornano a significare. Ed ecco che, osservando quelle foto di Sentieri Invisibili in cui la banalità del quotidiano annulla qualsiasi emozione, quasi improvvisamente, la dirompenza di quel punctum sulle prime assopita dallo studium, si manifesta all’osservatore, con tutta la sua carica, andando oltre la pura rappresentazione. Benci riesce così, quasi con eversione ed attraverso un primo coinvolgimento percettivo, a sollecitare nello spettatore una riflessione cognitiva che, in alcuni casi, può anche raggiungere la sfera del passionale, trascinandolo in quel disagio emotivo caro a Radiguet.
Che abbia avuto ragione, in fondo, Roland Barthes nel sostenere che “la Fotografia è sovversiva non quando spaventa, sconvolge o anche solo stigmatizza, ma quando è pensosa”?

Dall’alto:
1-3: Jacopo Benci, Lontano e luminoso,
2009-2010 fotografia digitale, stampa su carta Hahnemühle, 30 (h) x 21 cm
© Jacopo Benci

4: Jacopo Benci, Lontano e luminoso,
2009-2010 fotografia digitale, stampa su carta Hahnemühle, 21 (h) x 30 cm
© Jacopo Benci