Sunto della 1° e 2° parte
Diversi atteggiamenti accompagnano il problema dei diritti di immagine, problema che comunque è sul tavolo in tutte le società del globo. L’immagine, come la musica, ha vissuto con l’epoca digitale una fioritura di repliche e clonazioni, spesso illegali. La logica occulta di questa illegalità è economica e non coincide con il recupero e la citazione di per sé. La circolazione dell’immagine deve creare plusvalore solo nel caso in cui risulti come una forma di prestazione d’opera. Altri tipi di replica possono portare danni in termini di plagio, clonazione e falso ideologico. Quando però si possa escludere il dolo, la replicabilità delle immagini risulta anche un potente – anche se ambiguo – ripetitore e stabilizzatore di fatti e valori culturalmente rilevanti. La rete web, anch’essa sottomessa a varie monetizzazioni, mostra esemplarmente l’importanza della disseminazione di alcuni tipi di conoscenze.
Per la prima parte: cfr. Luxflux.net #5 
Per la seconda parte: cfr. Luxflux.net #9 

Microglossario
Euristica: metodologia di ricerca scientifica basata sullo schema errore/correzione che prevede la formulazione di una plausibile ipotesi di lavoro da verificare o modificare utilizzando questa nuova versione come ulteriore base di appoggio per successive verifiche o correzioni.
Authorship: il concetto di autorialità avulso dal riferimento a stili e linguaggi peculiari. Coinvolge l’idea di un ruolo dialettico dell’autore in senso ideativo, ma sopratutto sociale.
Spectatorship: lo spettatore come protagonista della negoziazione del senso sia nell’ambito ristretto del luogo espositivo, sia nell’arena della società.
Immagini fotografiche: l’amministrazione di flussi di luce mediante dispositivi di modulazione, memorizzazione chimica magnetica o digitale, e/o presentazione in forma.
Analogico: opposto a digitale, aggettivo che indica i meccanismi di funzionamento basati su una continuità o su un fluire più o meno ciclico e che perciò non permettono di scomporre ed intervenire su parti logiche di tale flusso ma solo su proprietà fisiche (ad es.: altezza e lunghezza d’onda). Tipicamente analogico: il funzionamento di un orologio a bilanciere o il controllo degli acuti, medi e bassi in uno stereo tradizionale. Tipicamente estraneo al trattamento analogico: il calcolo matematico meccanizzato.
Digitale: aggettivo che indica i meccanismi di funzionamento fondati sulla dicretezza, cioè a base numerica; la traduzione (o generazione) dei fenomeni come matrici numeriche perciò permette di scomporre ed intervenire su determinate parti logiche di tale flusso (ad es.: l’alterazione dei valori di luce, croma e contrasto di una foto). Tipicamente digitale: la trasmissione/copiatura del segnale senza alterazioni, dal momento che la qualità del segnale (con più o meno rumore) non dipende dalla qualità del supporto ma dall’ordine dei numeri memorizzati sul supporto. Tipicamente estranee al trattamento digitale: le valutazioni qualitative, i paradossi e le menzogne.
DJ (Disk Jockey): sceglie i dischi in discoteca, li mixa (miscela i suoni e sfuma i dischi l’uno con l’altro) e li scratcha (manda avanti o indietro manualmente le traccia audio creando effetti di ripetizione e, nel caso di dischi analogici, il tipico grattare della puntina avanti e indietro nel solco).
MC (Master of Ceremonies): accompagna con la propria voce o altro le operazioni di azione e interazione pubblico/musica/dj, è il ruolo da cui si origina la figura del rapper (to rap: affabulazione e improvvisazione ritmico-vocale sulla base di musica preesistente, preferibilmente brani o porzioni strumentali).

Ora, approdiamo al lato fotografico del problema e domandiamoci quanti usi se ne possano fare, quanti permessi occorra chiedere e quanti dazi si debbano pagare. È o sarebbe obbligatorio chiedere la liberatoria per i diritti d’immagine già al soggetto dell’immagine fotografica (uno mi fa una foto e io gli dico: “non ti do il permesso di usarla pubblicamente, se lo fai finiamo in tribunale”; legittimo ma che spreco di tempo e di denari). Secondo step: bisogna riconoscere diritti all’autore di cui si è richiesta (e acquisita) l’opera. L’autore può, a sua volta, aver venduto questi diritti – perché l’opera è stata acquistata da un’agenzia o da una collezione ecc – allora anche a questi ultimi devono essere potenzialmente riconosciuti dei diritti, se si vuole riutilizzare un’immagine dopo la sua pubblicazione. L’ansia della direttrice di museo richiamata all’inizio di questo lungo articolo, si risolve nella domanda: quanti anelli nella catena del diritto d’immagine possono irritarsi se io, anello imprevisto, utilizzo questa immagine? A quanti dovrò chiedere una regolamentare liberatoria e a quant’altri potrei dover riconoscere invece un emolumento a fronte dell’utilizzo?
A mio modo di vedere la domanda potrebbe essere semplificata – sul piano pratico – chiedendoci quanti di questi rapporti si risolvano in una prestazione d’opera e in quanti casi invece l’uso dell’immagine non possa configurarsi piuttosto come una forma di studio, di approfondimento e per ciò stesso anche di disseminazione e diffusione. In un rapporto fra pari, insomma: rapporto di muto interesse, di reciprocità che – nulla esclude – potrebbe finire per vedere invertite le polarità e generare interessi e approfondimenti non previsti.
Dal punto di vista teoretico occorrerebbe porsi la domanda in altro modo, tipo: cosa possa ragionevolmente costituire un’immagine di qualcosa o di qualcuno, talmente ed esclusivamente conforme (denotativa) da costituirne una identificazione e non una visualizzazione a sé stante. Cosa possa costituire una replica di una immagine preesistente tale da poter essere considerata comunicativamente e materialmente equivalente all’originale. E allora perché non chiedersi quale immagine possa essere considerata informazione, potendo applicare ad essa il segreto professionale che cela la sorgente dell’informazione; chiedendoci anche cosa si intenda per sorgente nel caso di una fotografia.
Non possiamo teorizzare l’inibizione all’utilizzo di qualunque tipo d’immagine solo per prevenirne l’uso fraudolento. La direttrice del museo ha ragione a preoccuparsi – ingranata sull’establishment, ella pensa nei termini di legge – ma credo che la rigidezza della norma scritta non sia la soluzione del problema.
Dietro questa apparente uniformità della norma c’è infatti la textura rozza e non isotropa del reale che include prevedibili rapporti fra cultura e potere. La cosiddetta liberatoria assai spesso si ottiene infatti o per amicizia – ma questo è un caso che non amo contemplare come discriminante – o quando c’è disparità di grandezze. Facciamo il caso: può finire per non pagare i diritti un piccolo editore che l’autore sa di non voler imbarazzare o di non poter spremere (mi scuso per la crudezza), d’altro canto l’editoria italiana, così rinomata sul palcoscenico internazionale, non di rado va avanti come certi caseifici parmensi. Facciamo invece il caso opposto: di una foto che venga richiesta a un autore di fama relativa da un editore di grande diffusione per illustrare, o meglio ancora copertinare, un libro dei propri. Anche qui si pensa nei termini della pubblicità gratuita, ma con la differenza che qui più che essere la spectatorship a promuovere l’authorship, è l’editore che la mette esplicitamente giù così, e risparmiando sopravvive. Vai a dirgli che sbaglia nella sua logica: un editore che fallisce, non è solo l’ennesimo imprenditore a gambe all’aria, ma è un pezzo del fallimento culturale di una società. Comunque sia la relazione fra l’editoria e l’immagine è a tutt’oggi resa refrattaria alla normalizzazione da proteiformi relazioni di potere, e non solo economico. Naturalmente c’è sempre l’autore che punta i piedi e dice: “Mi vuoi? Mi paghi. Magari poco ma mi paghi”. Questo, che sarebbe il giusto, non è però praticabile ovunque.
Dall’altro lato poi ci sono gli autori multipli, i noms de plume: autori-funzione foucaultiani ai quali sopperiscono le logiche editoriali, quando l’anonimo si sia procurato, col proprio spendibile nome, un editore; o piuttosto la logica delle reti dove webmasters e terze parti a un certo punto disattivano i link ed è subito sera. Non tutto l’uso dell’immagine infatti si risolve, come un tempo, nell’editoria cartacea. Il web macina immagini massicciamente e inarrestabilmente, basti pensare alla miriade di siti universitari e para-universitari che mettono in rete i materiali testuali e visivi sui quali con comodità gli studenti possono preparare i loro esami. Certo, non sono immagini di definizione e dimensione tali da poter essere sfruttate commercialmente, nondimeno risultano molto efficaci. Altrettanto accade nell’uso comunicativo: presentazioni, seminari etc. Allora dove cade il discrimine fra uso e sfruttamento?
In televisione c’è una simpatica – noché ipocrita – norma che regola l’utilizzo delle musiche in relazione ai diritti d’autore e che prevede la possibilità di eseguire gratis, diciamo, fino a un certo numero di secondi del brano: superata quella modica quantità, si pagano i diritti d’autore. Che succede se proviamo a tradurlo in fotografia? E col cinema? Se mi servo di un fermo-immagine posso evitare del tutto di pagare o dovrò scontrarmi coi legali del direttore della fotografia?
Riformuliamo: dov’è la soglia dopo la quale l’utilizzatore ragionante si trova ad aver sostituito l’autore? La questione è legata alla scarsa considerazione della testualità nel suo complesso: il testo – ogni testo visivo: statico, dinamico, analogico, digitale – si compone di una tale serie di elementi comunicativi, contestuali e metacomunicativi da poter determinare spesso quale sia l’impiego autoriale e quali le repliche sanzionabili e non. Una volta in più la musica ci porta un esempio: il concerto non si può clonare: forse il suo suono, ma non la sua flagranza: l’avvenire, il nostro esserci. L’mp3 che uno spettatore fa rimbalzare sul web non ruba biglietti di concerto, né per definizione e dinamica audio potrà mai sostituire una registrazione live eseguita, equalizzata e masterizzata dagli autori e dai loro tecnici. Semmai, come si diceva, sarà il musicista a cercare e mettere in rete le migliori registrazioni non-autorizzate per togliere il campo ai prodotti peggiori. Quegli mp3 di buon livello non faranno che disseminare il virus della conoscenza (la quale, come si diceva, è contagiosa).
L’inflazione di cose da vedere e da sapere, oltre all’imprevedibile caducità e fragilità di questa cultura di massa, o d’ammasso, mi portano a credere che rivedere l’altro da sé, intravederlo, ricordarlo nonché analizzarlo e approfondirlo, facciano parte della virtuosità di un testo. Non dei suoi peccati più o meno confessabili. Quel che le immagini fotografiche pensavano di fare in quanto immagini: salvare una memoria del mondo, osservare con aumentata consapevolezza le infinitesime fenomenologie dell’esistenza, anche a scapito del rapporto immediato con essa, tutto questo oggi è chiaramente appannaggio della testualità sull’immagine e con l’immagine. Non sarà impossibile stabilire il protocollo testuale che innesca una relazione autentica fra autori, luoghi, materie, storie e spettatori. Un’immagine che testualmente va soggetta a performance irriproducibili. E se la serie degli originali è materialmente o monetariamente pertinenza di autori, eredi, collezionisti e case d’asta, gallerie e musei, tuttavia all’immagine in circolazione – quando non sia lesiva, si è già detto – vanno riconosciuti due valori fondanti per la nostra civiltà del XXI secolo: l’interconnessione dialettica dei valori e il mantenimento della memoria. Valori immuni da colpa e inabili alla redenzione, ma che restituiscono all’uomo/donna, allo spettatore poi autore della comunicazione, all’autore come ex-spettatore, il suo ruolo di “media primario” – per usare le parole di Peter Sloterdijk – di anghelos: messaggero, ed angelo.