La Collezione Maramotti di Reggio Emilia rappresenta oggi la dinamicità e la lungimiranza del settore museale privato italiano quando proiettato nel vivo della contemporaneità. Dirette con determinazione da Marina Dacci, le attività della fondazione, che ha sede negli spazi luminosi e razionali della ex manifattura Max Mara, rappresentano al meglio la vivacità culturale delle medio piccole città italiane impegnate a gestire con cura e impegno un patrimonio culturale proteso all’innovazione. Si tratta infatti di una collezione che riesce a veicolare contenuti di ricerca unitamente alla viva esposizione di opere di grande prestigio contenute all’interno della raccolta permanente.

Giunto alla seconda tornata il Max Mara Art Prize For Women promosso dalla fondazione in collaborazione con la Whitechapel Gallery di Londra ha presentato la vincitrice di questa edizione con una interessante installazione del lavoro che entrerà a far parte della collezione. La vincitrice Hannah Rickards, trentenne londinese, è stata selezionata da una giuria internazionale e ha trascorso sei mesi di studio in Italia, a Roma, e a Biella presso la fondazione Pistoletto.

L’opera realizzata da Hannah Rickards, No, there was no red, racconta di fenomeni naturali tradotti attraverso il racconto, come leggendari e ideali. Il lavoro è nato in un centro abitato americano ubicato su una sponda di un grande bacino d’acqua e i cui abitanti si sono resi testimoni di uno strano fenomeno proiettivo dovuto, pare, alle particolari condizioni di umidità e di rifrazione. Il lavoro condotto sul territorio dall’artista ha portato alla documentazione di questo fenomeno proiettivo attraverso il racconto circostanziato di alcuni testimoni, i quali ne descrivono in termini spesso disarticolati, confusi, ma palesemente veritieri, le immagini catturate. Ne risulta un racconto frammentato in cui sembra apparire una città fantasma e della quale sembra potersi ravvedere anche il singolo dettaglio, la finestra aperta, il semaforo lampeggiante e le auto sulle strade. Da questo miraggio collettivo l’artista prende spunto per il titolo, sottolineando una frase di un racconto testimoniale, una specifica descrizione del fenomeno, come a voler identificare una traccia di rappresentazione scientifica per una probabile analisi razionale.

Indubbiamente, come precisa anche la nota informativa di questa artista che ha parlato della sua installazione in una presentazione presso la sede della collezione, i riferimenti storico critici dell’operazione sono da ricercarsi nei collegamenti con una specifica tipologia di Conceptual Art di stampo anglosassone. In particolare è esatto il riferimento all’analisi oggettiva e naturalistica inglese, la processualità empirica di Art & Language, e alla riduzione lineare autoproiettiva della produzione statunitense, fra Barry e Weiner, accentuata questa dalla evidente localizzazione del fenomeno indagato. Fin qui, tuttavia, ci si troverebbe di fronte ad un lavoro di continuità storica ma quanto è stato proposto da questa giovane artista non è solamente produzione di contenuti di osservazione e di riduzione descrittiva. La particolarità della sua opera consiste nell’aver saputo tradurre proiettivamente l’analiticità empirica dell’operazione concettuale in un linguaggio accessibile, pur con i suoi vuoti ed i suoi silenzi, e reso attuale, in qualche misura anche dissacrante. Durante la presentazione Hannah Rickards, che è una donna simpaticamente sbrigativa sui significati e sulle interpretazioni, ha taciuto ironicamente su alcune domande che le erano state poste in relazione al significato filosofico di natura e di traslitterazione e traduzione di questa all’interno dell’opera d’arte. In qualche modo il suo silenzio ci parla anche più del suo piglio discorsivo intessuto di riferimenti pratici, e proprio in questo silenzio sorridente mi è sembrato di poter comprendere la volontà dell’artista non tanto alla rappresentazione del reale quanto alla manifesta indicazione di un territorio allusivo dell’immaginario privato e collettivo. Quasi come se la città fantasma descritta nell’opera fosse una Nessie contemporanea, un mostro di un nuovo Loch Ness e che quindi ogni interpretazione deviasse dall’aplomb serioso dell’analisi logica e fenomenologica e alludesse alla morale fiabesca e divertita.

Tecnicamente parlando l’opera è una duplice retroproiezione ad alta densità su un duplice schermo unito ad angolo di 160° circa verso lo spettatore in una sala completamente oscurata e nera, avvolta nel rumore ambiente della presa diretta. La scena è fissa su una sala scabra e vagamente nordica, come una sala d’attesa o uno spazio scolastico. Di comunissimo design sono le sedie in metallo e legno sulle quali si avvicendano i testimoni del miraggio, descritto fra silenzio e parole che appaiono altamente meditate, anche nella loro bruta e banale normalità. Il risultato è molto coinvolgente e la scena della proiezione diventa in qualche misura essa stessa una sorta di miraggio nel buio assoluto della sala. Una notazione tecnica questa che deve far pensare da una parte alla capacità della Collezione Maramotti di saper realizzare i desideri dell’artista e di permettere un uso continuativo di tanta e specifica tecnologia e dall’altra alla capacità dell’autrice di saper pensare la tecnologia come strumento ideale per sollecitare l’immaginazione. Particolare non secondario questo. Se la scuola artistica inglese ha raggiunto simili livelli di progettazione attraverso l’uso spregiudicato della tecnologia lo si deve all’enorme sviluppo avutosi nelle scuole d’arte e alla disinvoltura con cui gli artisti oggi plasmano le tecniche senza paura di scadere nel tecnicismo. D’altra parte la tecnica della retroproiezione è oggi nell’ambito delle video installazioni una delle più complesse per la sua implementazione e per la sua manutenzione. Progettarne di così raffinate per una collezione permanente significa da una parte aver fiducia nelle proprie qualità di realizzazione e dall’altra sapere che la continua manutenzione sarà affidata a personale in grado di stabilizzarne la forma.

Ottobre 2009

Hannah Rickards, No, there was no red, 2009, still da video e veduta dell’installazione presso la Collezione Maramotti.
Courtesy Collezione Maramotti e l’artista.