Ci sono argomenti che più di altri riescono a innervosire i curatori d’arte contemporanea. Un nervosismo che si alimenta sottopelle come d’una allergia. Si tratta di un misto di frustrazione e di impotenza consapevole. L’argomento principale, il grande argomento del disappunto, è sulla diplomazia culturale. La cura critica è consapevole di determinate sue argomentazioni circa l’utilità o meno del lavoro svolto, sulle motivazioni reali che ne hanno determinato lo svolgimento ma inevitabilmente queste argomentazioni si riducono a chiacchiere quando si arriva al problema politico.

Per politica in arte consideriamo due sistemi di significato principali, la rappresentanza, ovvero chi assume il ruolo di propositore politico in virtù di una sua qualifica espressa, e la scelta politica, ovvero ciò che determina e finalizza un orizzonte culturale. Si dirà che il sistema dell’arte contemporanea non ha nulla a che vedere con la scelta politica e in qualche misura questo è vero, poiché nel sistema dell’arte si veicolano le voci complesse e non riduttive ad un singolo sistema di rappresentazione politico. Nello stesso tempo sappiamo, ne abbiamo piena consapevolezza, che i sistemi politici complessi sono strutturati attraverso differenti universi di consenso per esprimere comunque una visione del mondo. Un orizzonte politico che abbia un’identità può essere espresso attraverso la rappresentazione di differenti forme e contenuti che possano veicolarlo in maniera esplicita nel contesto mondano. Una grande mostra d’arte contemporanea è un perfetto veicolo mondano di rappresentazione politica e alla base di ogni progetto curatoriale pienamente concepito ritroviamo un significato politico, determinato volontariamente o inconscio. Di fatto i sistemi politici progrediti hanno compreso che la rappresentazione culturale espressa dall’arte contemporanea attraverso i suoi eventi possiede un coefficiente di significati maggiore di una singola voce di rappresentanza. E’ appurato che la diplomazia si nutre in particolar modo di questo veicolo di rappresentazione, per far coincidere interessi nazionali, sovranazionali, e visibilità nel mondo. Un sistema politico che rappresenti una nazione dovrà necessariamente far riferimento alla sua stessa identità per fornire gli strumenti necessari alla sua rappresentazione. Un paese che esprima grandi artisti dal profilo internazionale difficilmente sarà un paese privo di dinamiche sociali positive, difficilmente potrà accogliere al suo interno le voci degradanti della chiusura che ne impedirebbero la realizzazione. Un’ampia visione del mondo significa necessariamente un sistema politico in cui la rappresentazione sia affinata dalle scelte e dove queste siano mirate ad uno scopo esplicito e sondabile. Tutto ciò necessita di un sistema strutturato in varie connessioni fra mondo politico e mondo produttivo. L’interesse del politico è naturalmente in questo caso quello di rappresentare il prodotto simbolico, renderlo visibile, fruibile, accessibile. Il mondo politico dovrebbe usare le forze produttive di proprio riferimento come fonte per le scelte perché a ciò deve la sua rappresentanza. Tutto ciò è politica, tutto ciò determina la diplomazia culturale.

La diplomazia culturale delle nazioni, che è il massimo grado di diplomazia temporale, si determina attraverso le sue funzioni dedicate. Dalla politica pura negli scambi di relazione alla politica culturale nell’evidenza del prodotto finale. Uno stato, una nazione è ciò che la rappresenta, i suoi prodotti, le sue ricerche, la sua identità sociale. Nel sistema di rappresentazione abbiamo vari gradi di risorse esprimibili attraverso la resa mondana. Possiamo pensare agli eventi di rappresentanza culturale come momenti di resa politica in quanto l’evento manifesta una proposta nata dallo scopo prefissato, oppure come momenti di indagine sulla realtà produttiva di un dato sistema. Si tratta comunque di momenti eventuali, di zone combinate in cui l’azione del sociale e dell’individuale si sistemano e si fissano per una indagine successiva. Pensiamo a ciò che succede in molti paesi europei. Abbiamo un sistema politico che offre come rappresentazione di sé momenti dedicati a singoli fenomeni dell’indagine, sempre all’interno del proprio progetto di programma; questi progetti sono nati dalle sinergie produttive e sociali fomentate dalle politiche interne e vivono di momenti cruciali, quelli che definiamo eventi di diplomazia culturale.

A questo punto la domanda è questa: può esistere un sistema politico che non abbia un suo momento di diplomazia culturale? La risposta è pervasivamente no, non esistono paesi e nazioni che vivano nel sistema degli scambi internazionali che non offrano di sé una immagine confezionata allo scopo, anche se spesso questa immagine non è fortemente caratterizzante. Tutto dipende dalle risorse impegnate per l’evento di diplomazia culturale e anche dalla struttura interna del sistema in oggetto. Un sistema politico complesso non può infatti affidarsi alla singola espressione dell’individuo almeno non per quanto riguarda la rappresentazione di un sistema collettivo quale quello istituzionale. Abbiamo quindi la necessità di esprimere una serie di eventi e di questi naturalmente l’evento d’arte è quello più delicato e più caratterizzante. Una nazione che esprima una sua arte sempre legata alla maiolica sarà necessariamente votata alle politiche artigianali, mentre una nazione che esprime un’arte totalmente elettronica avrà necessariamente una struttura produttiva fondata sulle nuove tecnologie.

A questo punto occorre spostare il nostro sguardo sul sistema linguistico italiano, nel nostro caso isolato. C’è una anomalia? In qualche modo sì. Proviamo a citare un paese equiparabile al nostro per povertà di mezzi e cialtronerie organizzative e ci ritroveremo nelle lontanissime latitudini polari. Per rimanere nel ristretto giro europeo qualsiasi nazione anche di nuova struttura politica possiede una rappresentanza culturale, possiede delle diplomazie culturali più attive e facilmente riconoscibili. Siamo dunque ritornati al fremito della cura critica, il nervosismo del sistema dell’arte italiano e la sua sofferenza a fior di pelle. Cosa succede al nostro sistema? In primo luogo la rappresentanza politica esprime una totale sfiducia culturale nei riguardi della diplomazia culturale. I nostri progetti nel mondo sono dovuti al caso o alla singola attitudine di straordinari pionieri.
La nostra rappresentanza politica dov’è e cosa fa? Quali possono essere gli strumenti per portare al compimento l’espressione reale della cultura se manca totalmente il disegno complesso, l’orizzonte culturale in cui questo possa esprimersi? La diplomazia culturale italiana è retta da poveri individui che si barcamenano nella convinzione che una nazione possa essere rappresentata dal vino e dalla pasta, quali prodotti divini da proteggere; non comprendono che vino e spaghetti sono certamente molto importanti ma che sono ben poca cosa all’interno dei grandi spazi espositivi attivi nel mondo. La rappresentanza politica in Italia ha scelto per una diplomazia fieristica, del prodotto povero, dell’azione da filiera produttiva incapace com’è di capire che un’opera d’arte rappresenta tutto questo e molto di più. Tutto ciò determina la convinzione, internazionalmente accettata, che il nostro sia un paese povero d’arte contemporanea e ricco di formaggi. La rappresentanza politica non comprende che una mostra ben realizzata produca anche la cultura del vino e degli spaghetti, ma lo fa principalmente manifestando la complessità del vivere, della ricerca, del sociale e del politico. E questo produce una diplomazia culturale maccheronica incapace di scegliere, votata all’ignoranza del contemporaneo, annaspante nella realtà internazionale in cui anche una nazione comela Cina , che è apparsa da poco più di un ventennio nel sistema dell’arte, sta comperando tutte le opere dei suoi artisti in giro per il mondo, consapevole di procacciarsi la sua identità, la sua ricchezza. Noi proteggiamo vino, formaggio e pasta e lasciamo morire la cultura. Si sostiene politicamente che la cultura del vino genera lavoro, che gli spaghetti sono una risorsa e che i formaggi, muniti di apposite sigle, forniscono una determinata ricchezza al paese che li produce e che la diplomazia culturale difende questo sistema produttivo facendo gli interessi collettivi, come se per tutelarela Ferrari si ricorresse alla difesa del cacciavite.

Si risponde a questo grosso intralcio dello Stato ed al suo sciatto menefreghismo con la risorsa delle cosiddette liberalizzazioni, quelle che dovrebbero riscattare la nostra identità favorite dallo sviluppo della concorrenza del privato. Ma a questo punto si tratterà ancora una volta di scegliere. Dobbiamo pensare al tracollo dello stato e dare campo libero ai privati di assurgere ad exemplum (ma essendo in Italia direi più propriamente all’unico privato) e addossargli l’onere e la disponibilità di offrirsi come rappresentante del nostro sistema sociale e culturale? Si pensa davvero, e pensano davvero i nostri politici, che sia possibile delegare la rappresentanza diplomatica all’iniziativa del singolo individuo, della singola impresa? Si potrà citare il ruolo dello stato e la sua politica nei paesi in cui maggiormente si è data la scelta del liberismo. Come negli USA o in Gran Bretagna. Davvero si crede che Saatchi avrebbe potuto fare quello che ha fatto, davvero si pensa che le grandi mostre americane, quelle che disegnano paesaggi da cui uscire mesti e schiacciati dalla loro forza sovrabbondante siano state possibili senza l’intervento della politica? La politica nelle scelte culturali si esprime attraverso varie possibili leve, di cui la scelta della detassazione è un valido esempio. Si dice iniziativa del privato ma si legge intervento pubblico traslato. E non è un mistero che l’intelligence americana abbia più volte sostenuto le iniziative culturali quali manovre di diplomazia. Si tratta comunque di politica nazionale, non di iniziative individuali.
Si ritorna quindi alla consapevolezza della diplomazia culturale come strumento della politica nazionale. La diplomazia culturale è un aspetto fondamentale della politica nazionale, anche se può derivare dall’impegno calibrato di pubblico e privato, sempre considerando che non può esistere privato senza il sostegno pubblico, che non può esistere alcuna garanzia di rappresentazione del privato senza il volere politico e senza le sue scelte. Quanto questo dilemma stia intralciando l’esistenza di chi lavori nell’arte contemporanea, in particolare di chi abbia rilevanti relazioni internazionali e svariati interessanti possibili sviluppi, lo si capisce anche nella debolezza del sistema espositivo privato in Italia e nell’impossibilità che questo sistema difenda propositivamente la sua storia, la sua identità. Perché siamo un paese in cui nelle commissioni politiche sull’arte contemporanea, ovvero nei luoghi istituzionali della diplomazia culturale, si assiste inermi alla nomina di commissari perennemente estranei all’arte contemporanea e che di questa non sanno nulla, figuriamoci dei problemi legati alla cura critica. Si tratta di commissioni che decidono senza alcuna logica perché all’oscuro delle logiche curatoriali internazionali, quando oramai un qualsiasi studente universitario di queste ne conosce tattiche e strumenti. Per realizzare un progetto di diplomazia culturale che manifesti gli interessi nazionali e possa rappresentare degnamente un’idea dell’arte abbiamo bisogno di interventi urgenti che questi politici e le loro diplomazie non possono e non vogliono dare, interessati come sono a difendere gli interessi del vino e degli spaghetti.

Una diplomazia culturale che sia garanzia di una nazione nasce soltanto da un sistema di critica curatoriale, e questo non può esserci senza un sistema dell’arte professionale, in cui la politica giochi un ruolo forte di rappresentanza e di scelte condivisibili e scientificamente verificate.