Tania Bruguera, classe 1968, è un’artista concettuale internazionalmente nota anche grazie alla partecipazione alla V Biennale dell’Avana del 1995. A quasi quindici anni dall’inizio della sua attività, che mette in relazione disinvoltamente tradizione, nuovi linguaggi, scultura, performance, il suo stesso corpo come mezzo di indagine sociale, Tania ha già alle spalle la partecipazione alla Documenta XI (Kassel, Germania), le Biennali di Venezia, Johannesburg, San Paolo, Istanbul e L’Avana. Ha esposto nei maggiori musei di arte contemporanea del mondo e nel 2000 ha ricevuto il premio della Fondazione Prince Claus di Amsterdam.

La Catedra de arte de conducta è iscritta nell’attività didattica della ISA – Instituto Superior de Arte de L’Avana. Tania Bruguera ha scelto di battezzare il suo progetto con un nome non legato a un topos artistico già codificato e riconosciuto – la performance – per non essere legata alle pratiche ed ai codici di altri artisti. L’insegnamento non si svolge all’interno dell’ateneo, ma preferenzialmente negli studi degli artisti, nei musei e negli spazi della città dedicati alla cultura ufficiale e non ufficiale; pubblico privilegiato studenti della ISA e artisti la cui ricerca è prettamente liminare, di confine, non iscrivibile ad un modello o una pratica disciplinare chiusa. Performer, videoartisti, attivisti, scrittori, poeti e musicisti sono l’auditorium preferenziale di Tania Bruguera, che ha organizzato l’insegnamento affidando i suoi studenti a diversi professori: per una settimana un artista, un regista, un curatore internazionale, un critico porta in cattedra la sua esperienza.

Lucrezia Cippitelli: Vorrei che prima di tutto iniziassi parlandomi della performance. Il mondo ti riconosce come artista (performer) donna la cui ricerca è centrata sull’identità politica e di genere.                                                           Tania Bruguera: Ho iniziato a fare performances nel 1993, e i miei progetti non erano ancora così visceralmente corporali. Erano performances di “attitudine”, di gesti che avevano un ben preciso significato politico e prevedevano un impatto sociale. Non volevo porre al centro dell’attenzione il mio corpo, ma il significato della mia azione. Ero concentrata sul gesto. Il corpo era un medium, non il fine.

L.C.: Nel frattempo avevi iniziato (e concluso per censura) a dirigere ed editare e la rivista “Memoria del postguerra”…                                                                                   T.B.: Dopo la censura della rivista ho passato un brutto periodo. Da quel momento ho iniziato a lavorare sul concetto di colpa, sul senso di colpa e sulla sottomissione. Dopo questo periodo ho invertito la rota: il corpo è diventato il protagonista della mia opera, molto più di prima.

Ero però molto in conflitto con questo cambiamento: lo facevo e mi sembrava troppo facile. Non mi è mai piaciuto misurarmi con cose facili.

Non volevo nemmeno essere incasellata in una categoria: “Tania fa performance” non faceva per me. Devo sottolineare che ho iniziato non perché facevo riferimento ai lavori di altri artisti internazionali, bensì quando ho conosciuto il lavoro di Ana Mendieta. Si è trattato di un omaggio, il mio lavoro è consistito nel ripresentare dieci anni di opere di Ana. Nota bene, dieci anni di performances, non una sola, come quelle che si presentano nelle gallerie: 15 minujti e tutti a casa. Questa esperienza mi ha portato a rinegoziare la relazione con il mio corpo.

Era il 1997 e si parlava davvero troppo degli artisti che facevano performances: improvvisamente tutti si interessavano di Marina Abramovic o degli azionisti viennesi. Io guardavo e pensavo “ma non è quello che mi interessa!”. Non mi riconoscevo in quei lavori, performancecosì come era presentata non mi interessava, non ritenevo di aver trovato uno strumento che si adattasse alla mie tensioni.

Quando ho iniziato a leggere Foucault ho finalmente trovato la chiave di lettura in cui mi riconoscevo: Foucault – nel Nietzsche – parlava sempre del “comportamento”, del suo ruolo nella società, nell’interazione tra individui. Da quella lettura mi sono resa conto che il linguaggio della società è il comportamento.


L.C.: 
Dammi una definizione della parola “conducta” (= comportamento, n.d.r.). T.B.: Significa esattamente questo, il comportamento è il linguaggio della società, è la maniera di manifestare le idee nella società.                                                             
Ho cominciato a rendermi conto che il mio lavoro non è centrato sul linguaggio, a quello scritto o a quello parlato, ma al gesto.

C’è un modo di dire cubano, “Fidati di quello che fa la gente, non di quello che dice”. È uno di quei proverbi che qui a Cuba ripetono sempre tutti, guarda la gente come si muove, non cosa dice: credo che in qualche modo lo avevo incorporato inconsciamente e stava uscendo allo scoperto mentre pensavo al concetto di “comportamento”. Il comportamento regola la vita sociale, permette agli individui di relazionarsi, è qualcosa che fa la differenza tra un’epoca e un’altra, che segna l’avvicendarsi della storia. Il comportamente porta con se il contenuto e tutte le informazioni di un’Epoca. In più si integra con il concetto di gesto come trasmettitore di idee, più che l’oggetto o il corpo. E soprattutto è un linguaggio che tutti capiscono, perché è il modo in cui chiunque comunica. Avevo trovato un modo per arrivare a un pubblico più ampio di quello abituato a capire lemetafore dell’arte contemporanea.

L.C.: Un codice quindi che permette di condividere esperienze con una parte di società, e la cui validità ha un senso fino a quando si svolge in un luogo e in un tempo che tu scegli e determini.
Quale è stato il passaggio all’idea della catedra?                                             T.B.: Era il 2001, stavo per andare alla Documenta XI di Kassel. Per me era come un traguardo, ed ho pensato: “Se va tutto male che faccio? Mi ritiro e mi metto a insegnare, è l’unica soluzione… (ridendo n.d.r.). Invece di creare un progetto pedagogico come tale volevo creare uno spazio di discussione. Pensandoci bene i miei lavori sono sempre consistiti in questo: creare spazi che fossero localizzati in una zona o in un momento nevralgico per la società. La mia idea è di irrompere in un luogo e forzarlo, essere lì e spingere (Tania ha una gestualità ipnotica, muove le mani descrivendo un irruzione in uno spazio angusto e un’esplosione, n.d.r.) fino a quando questo spazio non si apra e la gente si possa rendere conto che sta succedendo qualcosa. E esattamente nel momento in cui se ne rendono conto, chiudere tutto e sparire. Questo è il mio lavoro, e certamente la cattedra è un conseguente allargamento di questo lavoro.

L.C.: L’idea della “irruzione in uno spazio” mi fa riflettere sul fatto che molti artisti giovani, soprattutto collettivi di artisti, lavorano in questi giorni a Cuba proprio negli (e per gli) spazi pubblici. È una pratica diffusa che porta con sé molte sfumature differenti: dagli interventi conoscitivi (più intellettuali, ricerche quasi situazioniste basate sul vivere per raccontare gli spazi urbani) alle pratiche azionisti che negli spazi urbani vedono la società ed il potere e le dinamiche di relazione che avvengono tra questi due attori.

L’uso dello spazio pubblico come luogo dell’azione e della ricerca però è un fatto innegabilmente comune.

Ho partecipato con i tuoi studenti alle lezioni ed ho avuto modo di vedere come vi relazionate. Avete un rapporto molto stretto. Visto all’opera il progetto di cattedra mi sembra quasi un lavoro collettivo: sembra che stai lavorando per costruire una rete di artisti che siano connessi tra loro ed in sintonia con certi presupposti.          T.B.: Non ho mai voluto fare la maestra e creare un gruppo di studenti con cui lavorare collettivamente. C’è chi lo fa, soprattutto nella ISA (Negli anni Novanta la ISA ha prodotto una serie di collettivi di artisti il cui operato ruotava intorno a giovani professori/artisti. E’ il caso del gruppo Enema, sostenuto teoricamente da Lazaro Saavedra, del D.U.P.P. di René Francisco, e molto recentemente del gruppo D.I.P. la cui anima era l’ex decano della Facoltà di arte della ISA Ramon Cabrera Salort, n.d.r.). Non ho mai apprezzato. Certo il gruppo Enema era meraviglioso, lavorava molto bene, con un sentimento e un impegno molto onesti e partecipati… Io non voglio creare il mio collettivo intorno a me. L’esperienza della cattedra è tuttavia meravigliosa. Sono continuamente in contatto con persone che hanno molte idee, è uno scambio continuo, imparo sempre con loro.

 

 

Dall’alto:
El cuerpo del silencio, 1997-1999, performance, carne di pecora, un libro.

El peso de la culpa, 1997-1999, una pecora squartata, corda, acqua, sale.

Miedo, 1994, performance.

Anima, 1996, Parte di una serie dell’omaggio ad Ana Mendieta, 1986-1996, performance, polvere da sparo, pietra, tessuto.

Destierro, 1998-1999, performance, spazzatura, colla, chiodi.