Un insolito vento gelido atlantico ha avvolto la vernice inaugurale della Biennale d’Arte Contemporanea Africana di Dakar 2004. Una città ignara ha assistito al solito andirivieni di critici e artisti provenienti da ogni parte del mondo per consacrare definitivamente l’indipendenza estetica di un continente avvolto dalle tenebre della povertà ma orgogliosamente proiettato verso il futuro. Sulle strade e nei quartieri il trambusto frenetico indifferente al via vai di inaugurazioni e serate di gala ha fornito un corollario di eventi degno di un romanzo noir. Una atmosfera prerivoluzionaria, giacobina, avvolge le serate africane; sulle miriadi di griglie accese dal mattino e sui fumi acri di questa povertà atavica sembra essersi posata una sottile e certa agitazione che parla sì di miseria ma di una nuova possibile identità. I luoghi della cultura qui a Dakar sono come pulsanti di una energia propositiva e di un nuovo modo di fare arte che forse anticipa tempi e luoghi drastici e terribili. Visto da qui il Vecchio Continente e la sua filiazione americana appaiono come sgangherati carrozzoni aristocratici, una Versailles destinata a perire nel breve affondo di una umanità disperata d’orgoglio e fede. Sulle strade si contano i polverosi resti dei morti di malaria che nessuno si occupa di compatire e nascondere e bambini dannati dalla religione trascinano le loro vite, nello sgomento del turista, in un assoluto abbandono.
Dakar è una città cangiante e la Biennale ne rispecchia prospettive e defaillances. Prospettive improvvise segnano i confini e gli orizzonti: qui adesso lo sguardo abbraccia un paesaggio patinato di palmizi e costruzioni pseudomoderne, ma alle tue spalle la miseria e le baracche dei derelitti fumano i loro ristori improvvisati. Una città che ti fissa indifferente e ti allunga la mano per chiedere aiuto e soldi che non servono a dare sollievo.
Un impianto di polizia che osserva torvo lo svolgersi quotidiano della vita e capannelli di gente, accattoni e ladruncoli di vario genere, non appena freni il passo fra una mostra e l’altra. Qui a Dakar la salvezza ha il colore bicromo giallo nero dei taxi rappezzati e malmessi. In qualsiasi occasione, anche nel baratro più nero di miseria e di pericolo basta sollevare il braccio in segno d’aiuto ed un taxi traballante risalente agli anni Settanta si ferma al tuo fianco. Dakar in questo non ha nulla da invidiare a New York tranne le tariffe che sono davvero stracciate per questo bene, questo rifugio. Qui il tassista è amico, confidente, guida, tiranno. Conosce gli interstizi della bidonville e i portieri d’albergo. Sa dove trovare l’anello tribale dei Nar e la migliore stoffa Batik nel quartiere popoloso di Medina, individua alla lontana il pericolo ordinandoti di chiudere i finestrini in fretta. Come a New York anche qui il tassista è l’ultimo della scala sociale prima del vagabondo e del clochard; è l’ultimo arrivato in città e ha voglia di mettersi alla pari. A volte annaspa saltellando sul suo taxi giallo nero e indovini che è la sua prima volta con un veicolo in affitto, ma impara in fretta. A mucchi li vedi schiacciati in tamponamenti furiosi contro autobus senza vetri e dipinti a mano e su cui una folla variopinta si aggrappa salendo in corsa. I pedoni in questo enorme caos non hanno alcuna cittadinanza ma si fanno avanti come in una giungla e con machete immaginari. Scansare il taxi è uno sport nazionale a Dakar, un misto Corrida e Rally con curvoni da formula 1. Riuscire ad attraversare l’autostrada a piedi è una delle specialità dei nativi che corrono speranzosi del futuro e di non scivolare sulla sabbia gialla che invade l’asfalto. Il tassista non fa nemmeno cenno di rallentare, il gioco è fatto per essere giocato sino in fondo. Chi perde rimane ai margini.
Da quando è scomparso il padre della patria senegalese, Leopold Sedar Senghor, al quale qui tutto è dedicato, il paese non ha saputo ritrovare la sua identità aristocratica. Di questa sono rimasti i segni nelle costruzioni rappresentative, come il Palazzo di Giustizia, immediatamente abbandonato al saccheggio e adesso sede di una parte della Biennale globalizzata e che con il suo pudore bene in vista espone prima di ogni arte il suo bagaglio di rottami – persino una 2 Cavalli Citröen ed una Giulietta Alfa Romeo abbandonate – all’interno dei giardini che si suppone fossero, un tempo non molto addietro, curati e sofisticati. Tutto qui ha il sapore naturale della vita e della morte e la Biennale ne respira i miasmi ed i colori. Sulle strade centinaia di bandierine segnalano con “Off” la sigla per avvertire dell’esistenza di una sede espositiva distaccata, ma nessuno fra la gente comune ne ha colto il significato. Quello che una volta era il quartiere dell’arte sulla Corniche – la circonvallazione che corre accanto all’Oceano Atlantico – è stato man mano trasformato in quartiere degli artigiani, dove molti sono i giovani al lavoro ma dove sono scomparsi gli artisti. Sarà che la separazione fra arte e artigianato qui non ha molto valore e se andiamo a indagare in fondo forse c’è più cultura tradizionale in questo tramandarsi le forme delle cornici che non nei colori dei dipinti dati in pasto ai turisti, in quel Montmartre espanso che in Senegal ha resistito alla decadenza del dopo Senghor. I piani di sviluppo del grande poeta africano in realtà sono stati approntati quasi alla lettera ma lo sguardo non è lo stesso. Così la Biennale nata sulla spinta delle sollecitazioni politiche è ritornata ad essere, con il rimpianto degli intellettuali qui presenti e contriti, un programma di propaganda politica. Non ci sono alternative. La natura, che qui è violenta, consuma in fretta ogni architettura e con questa anche ogni pianificazione, riducendo in fretta colonne e piani pavimentati in polverose rovine. Dakar ha una sua fotogenia specchio palese della fotogenia della popolazione. Allora vedi il volto elegante di queste folle intente a marciare verso qualcosa di indefinito. Vedi le donne d’una eleganza abbagliante, simili e fotomodelle travestite da cenciose accattone e uomini alti e sorridenti che solo per uno sbaglio crudele del destino stanno lì a chiederti impunemente e con insistenza di offrirgli qualcosa, qualunque cosa. Noi Toubab (uomini bianchi) intrappolati nel salvifico taxi bicromo non possiamo che fissare estasiati la confusione non solo apparente dei mercati e del passeggio senza fine di queste genti che sembrano non aver mai bisogno di fermarsi e che puntano diritti ad una meta a noi irraggiungibile. Qui il problema della razza si trasforma. O meglio ci si sente estranei per difetto a questa razza bella e splendida ed il colore della pelle svanisce sotto il sole, come i tratti fisionomici, ammorbiditi dal taglio piatto del sole enorme dei tropici. Il Toubab – come viene chiamato qui l’uomo di pelle bianca, l’europeo, l’americano – vive una vita separata inseguendo una normalità europeizzata alla lunga impossibile da mantenere. Allora li individui i Pied Noir, a bordo dei loro transatlantici a quattro ruote motrici e con aria condizionata, cinture di sicurezza ben salde e air-bag pronti ad esplodere, e comprendi che qui la differenza sta nell’eleganza che noi abbiamo perso in funzione di oggetti, e da cui il termine dispregiativo di Toubab. I residenti bianchi hanno imparato a trattare con brutalità l’attacco foriero di richieste a cui il dakarese autentico risponde con una scrollata di spalle ed una smorfia di disprezzo.
La religione separa anche i ristoranti, di qua gli europei con le loro sedie in vimini ed esposti come in un acquario difeso da guardie giurate, di là i nativi en plain air nei ristori all’aperto, poche travi malmesse sulle strade dove sorseggiare un tè o la pietanza nazionale, riso con pesce vario.
Nei mercati che corrono sulle strade pericolose del porto puoi trovare merci di ogni tipo ed anche quelle droghe proibite proprio alla luce del sole, che è un sole spietato e vicino alla fronte. Qui è meglio non rallentare il passo e trattenere con forza i propri beni. Ancora meglio è evitare di fissare qualcuno negli occhi mentre scatti una foto, per evitare il linciaggio. Chi si ferma è perduto: devi fingere di correre verso uno stesso identico scopo quale quello dei locali, che è s’intende, di sopravvivere un altro giorno. Altrimenti, per evitare conflitti interrazziali e culturali puoi sempre alzare un braccio, che è un segno di sconfitta comunque, e lasciare che il primo taxi si affianchi per salirci sopra e respirare la salvezza. Ma c’è chi dice di saperne un’altra: Fabio, milanese di Dakar, artista architetto nell’unico studio di progettazione italiano ci racconta di come farla franca anche ai furti. Basta urlare “voleur!” “voleur!” e vedere la gente come svegliarsi dal torpore per inseguire colui che corre, anche se inconsciamente, o per sbaglio. Chi corre a Dakar è finito. Lo accerchiano, lo strappano, lo bastonano, perché chi corre ha rubato e vuole nascondersi e qui rubare è un reato che si punisce con violenza e si reprime con le sirene di camionette che ti ingoiano sembra a lungo nei tuguri delle prigioni da cui si emerge, quando va bene, zoppi e vecchi per sempre. E li vedi quelli che hanno sbagliato, su stampelle di legno trascinarsi nei mercati guardati a vista come un male di cui fare ammenda ai bambini.

 

Gent! – L’installazione dei bambini di strada di Man Kennen Ki
I bambini qui a Dakar hanno occhi felici e sembrano vivere vite indipendenti. A loro è vietato parlare ai Toubab, perché nemici del Senegal. Ma ci sono quelli abbandonati e fanno pena anche solo a vederli da lontano. Sono i “bambini di strada”, vivono come animali nel disinteresse di tutti e di tutto. Non hanno famiglia e nessuno ha pietà di loro perché sono figli e figlie di un qualche male impossibile da perdonare. Sono bambini dannati. 
Per la maggior parte maschi, e quando di sesso femminile irriconoscibili dagli altri, hanno vite brevi e sono drogati da colle e solventi. Pelli piagate, seminudi dormono a gruppi per strada senza cognizione del tempo e della vita, nutrendosi dei resti dei resti e senza nemmeno la quiete del sonno. A costoro la Biennale ha dedicato la parte più bella e commovente della mostra.
Una installazione dal titolo Gent! (Sognare!) realizzata dall’associazione Man-Keneen-Ki, casa scuola dei bambini di strada di Dakar; è un’opera collettiva che si guarda con le lacrime agli occhi, azione di alta poesia ed installazione realmente collettiva di impianto sociale. Chi abbia frequentato l’arte degli anni Novanta non può fare a meno di segnalare la similitudine e l’estrema differenza di questa azione collettiva dalle similari imprese collettive realizzate con l’arte contemporanea. Qui è tutto vero. Veri sono i bambini di strada e senza niente che hanno lavorato laboriosamente per la realizzazione di questo padiglione indipendente; autentiche sono le urgenze maturate nel lavoro e reali sono le conseguenze. 
La nostra guida, un ex ragazzo di strada miracolosamente salvato dalle grinfie mortali del destino, con un francese lento, dopo averci accordato il permesso di fotografare in silenzio ha lasciato che osservassimo il suo passaporto, la sua vittoria con la vita grazie all’arte. Avere un nome ed una identità non è roba da poco, ci ha detto, è la mia grande conquista. Un’opera che coniuga alta tecnologia delle video installazioni con la performance musicale in presa diretta continua – un vero pianista bloccato sul piano per tutto il giorno suona la sua musica concreta leggendola da uno spartito – e la natura umana dei bambini qui esposti a turno su un letto costruito sopra un lenzuolo di foglie secche cucite a mano su tappeti di coperte militari. Bambini che forse per la prima volta hanno potuto sognare sotto lo sguardo commosso del pubblico un loro primo sogno di quiete, sottratti allo sfascio della megalopoli crudele che li calpesta e li uccide senza pietà. Bambini talmente veri – e le longilinee tombe raccontano dei loro stenti – da sembrare statue immobili sotto i riflettori dell’arte. 
La Biennale di Dakar è tutta in questa installazione, nella sua richiesta di umanità e di giustizia che non si riesce a far vivere.

 

 

 

 

 


 

 

 

 


 

 

 

 

 


 

 

 

Il Palais de Justice

Molto distante comunque dall’arroganza della global-art che qui ha suo malgrado un nome ed un cognome: Hans Ulrich Obrist. Davvero magra figura per questo curatore che qui scorazza con auto bianca immacolata come un regale fumetto e con autista in tiro, una sorta di rappresentante del nuovo colonialismo culturale che si è espresso nella parte video con una installazione presso l’abbandonato Palazzo di Giustizia. Cosa significa allora in una situazione quale quella di Dakar il passaggio “mitico” del grande curatore europeo che non vuole sporcare la suola delle sue scarpe nella città africana? Quali interessi mantiene in vita la sua selezione di video già visti e rivisti e solo incentrati sulla pelle nera degli autori o dei soggetti? Per quanto ci riguarda preferiamo pensare che la sua presenza garantisca un equilibrio di inviti e di partecipazioni africane alle numerose mostre che già si accennano per il prossimo futuro, ma qui l’èlite della cultura africana, che è come sempre in paesi di sottosviluppo èlite di grandi valori e di enormi distanze dalle masse, ha incassato con ironia questa Biennale che dicono nata da un uso smisurato di potere politico e senza reali connessioni con la realtà specifica di questo continente. La sua ricchezza la si vede nella sezione dedicata al Design. Qui la rabbia dell’Africa si misura nella sua voglia di riscatto ancestrale, nella riproposizione di oggetti quotidiani concepiti nel solco della sacralità delle forme primitive e che stranamente hanno una forte assonanza con l’origine modernista del minimalismo occidentale. Ma se i designers occidentali si scervellano per trovare la forma esatta di una maniglia i creativi africani hanno le idee molto chiare e decise: fanno un buco al suo posto per infilarci un dito ed il gioco è fatto.

La sezione principale al CICES

La sede centrale della Biennale è al CICES, un complicato edificio costruito recentemente ed adibito alle funzioni di rappresentanza dello stato, e neanche a dirlo, già quasi abbandonato. E’ una costruzione razionalista che rielabora l’idea della tenda africana realizzando un vastissimo agglomerato di locali molto ventilati e freschi: qui le partecipazioni nazionali sottolineano l’evidenza dell’alta tecnologia nell’installazione, in particolare nelle presenze egiziane e sudafricane con la partecipazione di nomi noti internazionalmente. Ma quello che colpisce è l’impossibilità di ridisegnare per questi lavori un contesto adeguato, una installazione che possa essere realmente contenitore. A sole dodici ore dall’inaugurazione le strumentazione tecnologiche erano quasi del tutto spente e nessuno che sapesse cosa fare. Mancando quadri e sculture la Biennale sembrava così dormire lo stesso riposo dei tecnici sorpresi dai pochi visitatori sulla moquette sgualcita e malamente posata, lo sguardo fisso altrove, stesi supini nella quiete. In fondo, ci siamo detti, un evento carico di simpatia perché Dakar è questo; uno spazio in cui è davvero difficile poter sognare e riuscire a farlo, anche a spese della Biennale, vale più di una istallazione tecnologica da esibire al pubblico.

Dall’alto:

Christian Lattier, La grande famille, Dakar, Galeria national d’art contemporaine

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

Alcune immagini dell’allestimento di Gent!

  

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

Il CICES, sede centrale della Biennale di Dakar