L’apertura ufficiale di Dak’art 2006 è al Teatro Nazionale Daniel Sorano, a pochi metri dalle grandi ambasciate occidentali chiuse e blindate com’è oramai usuale in tutte le città del mondo globalizzato. Una coreografia a colori forti introduce gli ospiti presieduti dal Presidente della Repubblica. Il servizio d’ordine è cordiale ma ferreo: non si fanno fotografie fuori dai luoghi previsti. Già le fotografie! Strano comportamento qui in Senegal, patria della più aristocratica e avanguardista biennale africana. Una macchina fotografica è quasi uno strumento del diavolo. Provate a fissare dall’obiettivo uno scorcio di Dakar e vedrete anche il più remoto puntino vivente iniziare ad agitarsi, si sbracciano per dirvi che non si fanno foto. Quando ho puntato l’obiettivo dentro il mercato di Sandagà, uno dei più famosi e meno sicuri, stava quasi per crollare il tetto, erano lì tutti ad agitarsi incitati dalle urla di un vecchio malconcio ma che riscuoteva notevoli consensi. Insomma niente foto a Dakar. Gli Otolab filmavano con la camera nascosta dentro un sacco nero della spazzatura, e non bastava davvero. Si potrà allora pensare che Dakar sia un inferno per l’arte contemporanea, ma direi una stupidaggine. Probabilmente, in questo lembo d’Africa votato al più feroce liberismo, è idea comune che bisogna pagare qualcuno per scattare due foto e in fondo dentro le sale espositive nessuno dice nulla per le immagini. Ma forse questo discorso sulla fotografia ha anche a che vedere con l’identità dell’arte africana che vuole esistere proprio a partire dal Senegal e da Dakar. Una foto è come un furto. Città strana, Africa un po’ Parigi, un po’ il Cairo, segnata dalla tratta degli schiavi, pervasa da una strana accidia nei confronti del mare che sebbene sia presente a volte risuona lontanissimo. Ma Dakar e la sua Biennale guardano all’Africa e alle relazioni con l’Occidente che ha le sembianze leggermente irritanti dei professionisti francesi, calati qui e allegramente all’opera per spiegarci, con la loro solita baldanza sprezzante, com’è fatta questa terra e come vanno comprese le cose africane: inutile aggiungere che è soltanto affare loro.
Solo due anni fa Dakar sembrava in pieno sprofondo, prona ai voleri dei curatori internazionali che qui se la spassavano; ritrovo una Biennale chiusa in se stessa a fissare la sua africanità in una città che ha cambiato volto, ha asfaltato centinaia di chilometri di strade, ripulito e ordinato, anche grazie all’AMA di Roma – per inciso dopo moda e design l’Italia adesso è finita con l’esportare i netturbini, ma è un altro discorso che adesso chiariremo meglio –. Ebbene lo so che queste scritture sull’arte le leggono soltanto gli appassionati e anche con disinvolta non chalance e quindi questo discorso sull’Italia rimarrà chiuso nei ristretti confini di noi che già sappiamo, condividiamo. Ma qui la storia comincia a farsi pesante per chi ha un passaporto italiano e magari un paio di lauree – sempre a meno che non siate dei netturbuni, con tutto il rispetto per questo impiego –. Io vorrei conoscerli quelli che hanno devastato la nostra credibilità al punto che anche nel cosiddetto “terzo mondo” – come ancora lo definiscono gli stupidi – oramai a noi è riservato il compito di ramazzare le strade. Per il resto non contiamo più nulla. Durante l’occupazione italiana degli anni Trenta il Negus del Corno d’Africa rispondeva a chi gli chiedeva cosa facesse al Savoy di Londra che “aveva i muratori in casa”: stavamo costruendo le strade, adesso in fondo, dall’altra parte dell’Africa ci occupiamo della loro manutenzione. Continuando così cosa potremo esportare? E non scherzo. Me ne sono rimasto un paio d’ore a fare la questua agli organizzatori della Biennale per motivi d’informazione ma l’unica cosa che sono riuscito a raccogliere è stata la volgarità irritata di una segretaria. Davvero. Quanto agli Otolab, invitati, richiesti e quanto altro, erano poi cancellati dal programma, evitati dal coordinatore – manco a dirlo un francese megagalattico di cui non mi riesce di ricordare il nome – e infine rassegnati a lasciare un DVD da mostrare come e quando non si sa. I misteri di questa Biennale non sono stati svelati. Sembrava di correre da una parte all’altra e di trovare sempre porte chiuse, segreti, misteri, congiure. Era una Biennale dedicata all’Africa, e il suo messaggio era proprio in questo segreto come di una cospirazione contro il nemico “altro” che spia, sottrae e usa. Sembrava anche lo facessero di proposito a far trovare le sale chiuse nel momento dell’inaugurazione da programma. Chi voleva sapere doveva ritornare dopo. In solitudine. Probabilmente avrebbero preferito un pubblico scelto, autenticamente africano. E poi una serie di combriccole da congiurati fuori dai cancelli, l’unico posto dove si poteva incontrare qualcuno d’interessante, anche se inutilmente. La Biennale di Dakar disegna anche una nuova prospettiva nelle attitudini dell’arte africana. Chiusura alle azioni di collaborazione, sganciamento dal sistema dell’arte occidentale e coordinamento per una identità autonoma e forte. Misure davvero difficili da credere realizzabili anche per via dell’identità stessa di quest’arte, vivace quando ibridata con l’Occidente e l’Asia, povera e accademicamente tradizionale quando autonoma e autarchica. Un errore di calcolo? O davvero è possibile pensare ad un sistema protetto, differente, autarchico e autoreferenziale per il sistema dell’arte africana. Direi proprio di no e alla fine non credo che gli artisti più interessanti possano favorire la nascita di un nazionalismo così periglioso, truce. L’idea politica che ne è all’origine – come declamato dal Presidente “un Renoir sarà anche bello da vedere ma nella mia stanza preferisco un bel quadro africano” – risulta istupidita dalla perversa equazione di quadro africano uguale maggiore e migliore comunque, sempre. Una posizione che, ahimé, non lesina consensi anche nelle più alte sfere della cultura africana che plaudiva. Non farò qui diagnostiche sul relativismo culturale e sulla profusa convinzione di chi dispensa saggezze col mitra, ma nella sostanza anche se sono reo – per via della mia presunta appartenenza ad una identità culturale – delle peggiori nefandezze non certifico comunque l’idea che esista una gerarchia nel fare arte o nel mostrarla. Detto questo devo anche dire che la trovata di Dakar gestita fra In e Off è stata elementare e geniale. Ed è qui che ritroviamo l’unico italiano di un certo peso lì a Dakar, Mauro Petroni, che ha coordinato la sezione Off, ovvero tutto ciò che la “gente” aveva voglia di fare al di fuori del tema e degli inviti della Biennale. Un parapiglia. Il risultato era una specie di girone infernale in cui sembrava di navigare a vista fra la sala della parrocchia più scalcinata e il circolo pensionati, ma sempre con una buona dose di presunzione. E poi Mauro Petroni teneva a precisare che a Dakar ci vive da più di vent’anni, quindi, aggiungo io, non è un netturbino. Off a parte la migliore Biennale si vede nelle installazioni multimediali che non hanno nulla da condividere con l’idea autarchica dell’arte e raccontano di un problema di cui tutti conosciamo la portata: il razzismo. Direi, comunque, una delle cose peggiori da fare per evitare il razzismo è perpetuarne i metodi, i sistemi. E poi il razzismo c’è anche nei sistemi sociali più evoluti, sembra quasi una forma endemica di malattia sociale dovuta all’ignoranza. Vedere queste installazioni incentrate sulla disumanità di popolazioni padrone dei destini di altre mi ha soltanto dato tristezza, sembra quasi una forma di immobilismo. Ricordare gli errori di chi li ha compiuti non vuol dire ricambiare con l’identica moneta perpetuando una spirale che conduce all’odio e alla segregazione. Ma se questo è un discorso da persone sostanzialmente pacifiche e di buona volontà sociale bisogna anche dire che non tutti la pensano allo stesso modo. Anche se diffidare sembra il credo attuale della giovane arte africana. Uno dei lavori di maggiore peso diceva: Dio è design. Era un’ illuminazione geniale: forse il massimo grado di sintesi di questa biennale, dove la forma si coniuga con la ragione e la ragione si modula con la morale islamica. E Dio è design. Così la facciamo finita col razzismo. Non è un singulto polemico ma qualcosa in cui molti qui credono, se anche il nodo della Terra Santa viene risolto attraverso uno sventolio di bandiere (Emmanuel Eni, Israel and Palestina). Ciò che semmai colpisce è che la maturità compositiva degli artisti presenti alla Biennale costruisce un’ identità visiva che sembra quasi aliena dal contesto specifico, realtà questa sottolineata dalla presenza di Bâ Cheikhou, Niang Serigne Mor e Lo Ndary artisti che rappresentano al meglio le differenze culturali presenti in Senegal, fra chi conosce le cose del mondo e chi non può immaginarsele se non all’interno di una tradizione orale, chiusa al mondo.


Dall’alto:

Emmanuel Eni, Israel and Palestina, 2006, azione e installazione, Dak’art 2006

El Kenawy Amal, Bobby trapped heaven, video proiezione e fotomontaggi, 2005, Dak’art 2006

Gbaguidi Pèlagie, Le code noir, serie di disegn e libro, 2005. Dak’Art 2006

Bouslama Amel, Acte de naissance, 2006, installazione fotografica (dettaglio). Dak’Art 2006 

Dak’Art 2006, allestimento sala superiore al Musée de la Place Soweto 

Dak’Art 2006, allestimento alla Maison des Anciens Combattants