Tema del festival di fotografia di Roma del 2005 è l’Oriente. Sembriamo pervasi da una sindrome asiatica, tipo quelle strane forme influenzali che ogni anno sono preannunciate. C’è già chi parla di invasione: nell’economia nella politica e nell’arte. Giornali specializzati concedono sempre più spazio ad autori e festival asiatici. E noi occidentali faremmo meglio ad iniziare a documentarci su storie e tradizioni per riuscire ad accostarci meglio. Ci troviamo di fronte ad un momento di forte scambio – non che sia la prima volta (senza Oriente niente Zola, niente Stieglitz…) – ma nowadays tutto è più veloce e scambievole. Presso l’Istituto Nazionale per la Grafica possiamo accostarci a cinque autori giapponesi contemporanei. C’è Nobuyoshi Araki (1940), ma non nella sua vera essenza: e però, chi può dirmi quale sia? Come dire “Picasso? il cubista!” e tutti gli altri suoi periodi dove vanno a finire? Arrotolati come una mappa del tesoro e infilati in una bottiglia che prende il largo dalle spiagge più affollate. Dell’Araki pornosoft, più noto, alcune polaroid di nudi e fiori sono esposte presso la Galleria Anna d’Ascanio in via del Babuino. Amanti in letti disfatti, donne nude legate e sistemate in posizioni al limite fra bambole (oggetto) e donne (persone con diritti e meritevoli di rispetto); molte “femministe” potrebbero aizzarsi al cospetto di alcune sue foto senza contare che lui stesso dichiara di aver “posseduto” ogni modella, né lo salva l’aver dichiarato “non riesco a stabilire nessun contatto se non parlo con le donne”. Nella mostra presso l’Istituto invece non sono presenti neanche il suo adorato gatto e il suo geco, quasi un segno di fabbrica, possiamo però ammirare un buon campionario di fiori in Cibachrome, i cui colori vivacissimi tendono a carnosità erotiche che solleticano la vista e poi la mente. Le sue nuvole, studi di forme e contrasti in b/n, sembrano essere un passaggio quasi obbligato per molti fotografi, se pensiamo a Weston, Stieglitz o Adams.
Seguono alcuni ritratti eleganti, sempre in b/n, di donne misteriose e d’una semplice bellezza. Ma la serie “Noble Portraits” merita davvero d’esser vista. Nobili nipponici che posano dinanzi la macchina come se dovesse esser loro fatto un dipinto, pose immobili e piene di onore, mentre ci mostrano foto dei loro nonni, oggetti loro cari come spade o mentre sembrano dirci “guarda questo sono io da bambino”. Si ritorna all’uso della foto per dire “io ci sono”: mi ritaglio un frammento d’eternità: è sempre il complesso della mummia di Bazin, che appaga un bisogno dell’uomo: la difesa contro il tempo (con la morte del Santo Padre e i videofonini è accaduto qualcosa di simile, ma in senso assai più blasfemo). Guardando quei bei volti con occhi piccoli e neri non posso fare a meno di pensare alle geishe affascinanti con cui si sono intrattenuti, ritorna così il legame con il titolo della mostra “The Ancient Sound of Image”.
Sono inoltre presenti Taiji Matsue (1963) con foto di paesaggi urbani e naturali che continuano oltre la cornice formando patterns e textures; Toshio Shibata (1949) il quale ha colto dighe costruite dall’uomo con immagini b/n dai toni fortemente contrastati; Tomoki Imai (1974) che con i suoi notturni metropolitani ci regala atmosfere quasi noir: un delitto su quella strada illuminata o in quella luminosa galleria può avvenire da un momento all’altro; Hiroshi Sugimoto (1948) con le sue architetture “affogate nel bianco e nero eterno” in cui giochi di luce creano equilibri compositivi.
Presso il Museo di Roma in Trastevere invece sono esposti lavori di autori cinesi più o meno famosi. Spesso, ma non solo, i soggetti sono presi frontalmente. Su questo fronte Susan Sontag può aiutarci un po’: “I cinesi s’oppongono allo smembramento fotografico della realtà. Non usano primi piani. […] il soggetto è sempre fotografato anteriormente, centrato, illuminato in maniera uniforme, intero”; se questo è vero, le fotografie non devono significare molto, devono mostrare ciò che è stato già descritto; tutto resta legato comunque alla realtà politica cinese.
Nel lavoro “The Assembly Hall”, Shao Yinong e Mu Chen, già presenti all’ultima biennale di Shangai in cui un comitato troppo accademico non ha permesso una piena libertà, hanno fotografato i luoghi di riunione politica dopo il 1949, anno della proclamazione della Repubblica popolare cinese, ora vuoti e silenziosi, statici.
Non mancano però gli occidentali: ecco infatti il lavoro di Nicolas Pascarel (1966); ogni cornice contiene due foto accostate, le quali hanno un rapporto dialettico fra loro, si lanciano la palla per poi lanciarla a noi che poniamo un link. Molto interessanti. Le opere esposte fanno parte della serie “Short Cut Memory”. “Cambogia 2004-2005” riflette invece sulla dittatura di Pol Pot, capo dei khmer rossi, dal ’75 al ’79. Serie divisa in tre parti, la prima – il passato – affronta le prigioni di Tuol Sleng, la seconda – il presente – i bambini orfani di Phnom Penh, città fantasma la cui popolazione fu costretta a confluire nelle campagne in fattorie comuni, e l’ultima – il futuro, la speranza – la convivenza con le cicatrici sulle rive del Mekong. Le foto, digitali, creano atmosfere affascinanti e seducenti catturandoci per poi farci riflettere.
Nella galleria Anna d’Ascanio, oltre al già ricordato Araki, c’è Din Q. Le (1968) con parte del lavoro “From Vietnam to Hollywood”; l’autore, di origine vietnamita, emigrato negli Usa a 10 anni, riflette sulla guerra che il suo stato ha affrontato. Influenzato sia dal lavoro d’intreccio di sua zia per fare tappeti, sia dalla western art history mescolata al cinema americano, crea un lavoro di “intreccio” fotografico, una doppia visione, linguaggi simultanei s’incontrano e fanno pensare di nuovo all’ambiguità del messaggio storico visto da prospettive diverse. In un intreccio di strips, ad esempio, intravediamo sia la foto di Nick Ut del 1972 Trang Bang “Bambini che fuggono dal napalm” sia un fotogramma d’un film, due uomini su sedia a rotelle reduci dalla guerra, forse soldati. C’è un elemento di forte contemporaneità: i media, il cinema, la guerra del Vietnam, la prima guerra in mondovisione e da qui l’influenza forte che le immagini hanno su di noi.
Dopo questa carrellata mi permetto qualche piccolo consiglio per immergerci un po’ meglio nell’atmosfera orientale: un paio di film d’autore coreani come “Ferro 3” o “L’isola” di Kim Ki Duk o l’elegantissimo corto di Wong Kar Wai in “Eros”.