Il professor Ramon Cabrera Salort è il preside della facoltà di arte della Isa, insegnante di metodologia delle pratiche artistiche e coordinatore delle attività extra accademiche dei suoi studenti artisti.

Lucrezia Cippitelli: Ci può raccontare cosa sta succedendo all’Avana? Come mai motli artisti che abbiamo incontrato sono specializzati proprio nelle azioni urbane?
Ramon Cabrera Sort: Credo che si tratti dell’applicazione di metodologie di ricerca basilari nel campo degli studio sociologici, etnografici ed antropologici: l’ osservazioe partecipante. Il ricercatore/artista si avvicina a fatti della vita quotidiana e le vive in prima persona.

L.C.: Un metodo di ricerca certamente non ancora così diffuso tra chi si occupa di arte contemporanea…
R.C.S.: Credo che di fatto lo sia anche se non in maniera consapevole: cosa può essere se non osservazioe partecipante prendere un autobus o fare una fila? Partecipa e si avvicina a fatti quotidiani e familiari e nello stesso tempo pone tra sè stesso e la realtà che analizza una distanza di sicurezza.

L.C.: Sappiamo che ha insegnato e insegna in Messico, che ha spesso avuto tra I suoi studenti artisti provenienti da altri paesi dell’America latina. Ritiene che esista un’identità culturale di questo continente? 
R.C.S.: Il tema dell’identità di per sé non è condiviso da tutti: è difficile definire un’identità soprattutto in relazione a un continente fatto di Paesi che hanno talvolta storie e tradizioni differenti. Esistono innegabilmente dei caratteri comuni che ci uniscono e che nel corso degli anni si sono trasformate in intense collaborazioni. In questo senso credo si possa parlare di identità: un’attitudine comune e l’intenzione comune di collaborare sullo stesso terreno.

L.C.: In questi giorni il dibattito sull’apertura all’Alca dei paesi del Latino America è su ogni giornale, e Cuba ha in proposito una posizione nettissima di sostegno all’ipotesi della costituzione di un mercato comune dell’intera America Latina. La Biennale dell’Avana inoltre si è storicamente costituita proprio come biennale degli artisti latinoamericani. Ritiene che in qualche modo Cuba rappresenti, o spinga per rappresentare, quest’ipotesi di dultura identitaria comune?
R.C.S.: Cuba è in qualche modo il punto di incontro delle diverse esperienze di ciascun paese latinoamericano. È il punto di incontro di interessi economici, sociali e politici comuni. Cuba è anche storicamente lo spazio di incontro, dialogo ed espressione di quegli stati che risultano periferici o marginali rispetto agli altri. Quindi perché non pensare che possa essere anche il luogo di confluenza e confronto delle differenti esperienze artistiche e culturali del continente?

D.I.P.
di Lucrezia Cippitelli

Playa è un quartiere molto popolare dell’Avana, fatto di casette basse di legno, strade sterrate tutte uguali, canali di scarico che corrono ai lati dei marciapiedi. E’ un quartiere silenzioso e deserto, diversamente da molte zone della città. Ci si arriva con degli autobus che lasciano gli abitanti su una grande strada di scorrimento che passa lontano, a parecchi isolati di distanza.
Dal patio antistante una casetta di legno restaurata e ripitturata vengono delle voci: è l’atelier in cui si riunisce il D.I.P., Departamiento de Intervenciones Publicas, un cololettivo di artristi che si sono formati o collaborano come giovani insegnati alla Isa, l’Istituto superiore di arte dell’Avana.

Il gruppo, che è un collettivo di affinità che rivolge la sua indagine principalemnte sull’arte negli spazi urbani e pubblici, ha partecipato alla Biennale con due installazioni al Pavellon Cuba ed al centro Wilfredo Lam e con un progetto che ha coinvolto diversi artisti ,provenienti da tutto il mondo, la cui ricerca fosse indirizzata verso gli interventi pubblici.

Sulla porta incontro Ruslan Torres, uno dei primi membri del gruppo, che mi introduce nell’atelier.
Ruslan Torres: Era la casa ereditata da uno di noi. L’abbiamo restaurata ed aperta al pubblico. Qui ci riuniamo regolarmente per lavorare, organizzare i nostri progetti negli spazi pubblici o editare gli audiovisivi che produciamo sulle nostre azioni, c’è sempre qualcuno che tiene aperta la casa di Playa. 
Siamo tutti studenti ed ex studenti della Isa, e riusciamo a far convergere le nostre attività all’interno dell’istituzione: inizialmente avevamo addirittura un piccolo studio all’interno della scuola. Abbiamo però preferito trovare una nostra indipendenza per non dipendere in maniera esclusiva dall’istituzione scolastica. Ci piace condividere le nostre esperienze con gli studenti, come hai visto fare durante la lezione-dibattito, data la scelta di lavorare senza permessi e senza compromessi riteniamo sia meglio aver acquistato l’indipendenza.

L.C.: Come funziona il gruppo? Come lavorate?
R.T.: Non siamo un gruppo chiuso e gerarchico, piuttosto un contenitore che condivide certe esperienze. La nostra appartenenza non è nominale e univoca ma dipende unicamente dalla condivisione di progetti ed esperienze. Farò parte del D.I.P. finché avrò idee e voglia di partecipare all’ideazione e realizzazione di azioni.
Questa modalità di partecipazione ci permette di aprirci a chiunque abbia la nostra stessa attitudine.
Durante la Biennale del 2003 per esempio abbiamo lavorato con artisti provenienti da diversi paesi stranieri che abbiamo contattato istituendo un bando su internet. Non volevamo essere i classici artisti che producono un lavoro da appendere a una parete. Abbiamo proposto come opera la presentazione del nostro progetto. Hai visto le nostre installazioni all’interno del Centro Wilfredo Lam e del Pavellon Cuba. Parallelamente abbiamo organizzato una serie di incontri ed azioni che si sono svolti per tutto un mese in giro per l’Avana e che una volta a settimana abbiamo presentato e spiegato al pubblico in una sala conferenze messa a disposizione dell’università. I lavori proposti non sono stati solo opera nostra: erano i lavori realizzati dagli artisti che hanno risposto alla nostra convocatoria ed hanno partecipato alla biennale. La nostra proposta si è tradotta nella pratica in una curatoria interna alla curatoria della Biennale.Mi mostrano un video di una vecchia azione organizzata sul Malecon : una telecamera nascosta riprende una sezione del muretto che costeggia il lungo mare, luogo in cui generalmente si siedono gli abitanti della città, rivolti verso la strada, per veder passare la gente. Nell’azione alcuni performer si arrivano in gruppo, fingendo una casualità, e si mettono a sedere molto vicini a un uomo già accomodato. L’uomo, sentendosi assalito, dopo qualche minuto si allontana.

L.C.: Che tipo di azioni realizzate, qual è il vostro rapporto con il pubblico?
R.T.: Preferiamo confrontarci con persone che non hanno nulla a che fare con l’arte contemporanea. Il nostro lavoro consiste nel muoverci nella città “costruendo situazioni” che possano determinare una reazione da parte di chi la città la vive. Per questo il nostro pubblico nonè quello tipico degli eventi artistici, piuttosto il passante, il guidatore o il bigliettaio di un autobus. La nostra ricerca verte sulla registrazione delle reazioni della città alle nostre azioni: giochiamo sulla paura, la paranoia, il riso, l’empatia, il controllo, la vergogna, il senso di solidarietà. 
È come una registrazione delle pulsioni del tessuto urbano.
Per questo il professore con cui lavoriamo, Ramon Cabrera Salort, dice che applichiamo le metodologie della ricerca antropologica, sociologica ed etnografica alle pratiche artistiche. In qualche modo il nostro lavoro consiste nel registrare la realtà.

L.C.: Che rapporto avete con la polizia? Ho visto durante una presentazione dei vostri lavori alla Isa ho visto la documentazione di un’azione recente: avete incendiato una piccola costruzione su un terrazzo per registrare le reazioni spropositate o sottodimensionate di chi osservava il piccolo rogo…
R.T.: Il nostro rapporto ovviamente non è facile. 
Ma come tutti qui a Cuba sappiamo trovare il modo per non essere osservati, o per sfuggire al controllo, o per prenderlo in giro… Abbiamo fatto un tesserino per ciascuno di noi, simile a una tessera ufficiale di un qualche istituzione pubblica. La stessa scelta del nome era mirata: “DIP – DipartimentO di interventi pubblici”, non assomiglia certo al nome di un gruppo di attivisti! Quando la polizia ci ferma noi mostriamo il nostro tesserino con fotografia, nome e cognome. Il più delle volte il nome roboante del gruppo fa si che il poliziotto decida che siamo in regola e ci lascia continuare…