Al di là della retorica del successo oggi l’idea di accademia è specificamente nel mercato e vi spiego perché.

Il termine Accademia nel corso del XX secolo ha subìto notevoli trasformazioni. Il vocabolo, come si sa, proviene dal toponimo del bosco in cui Platone insegnava. La lingua italiana ha l’onere d’aver diffuso l’etimo nelle altre lingue europee con il significato “moderno”, umanista, di gruppo di persone che si riuniscono a scopo di studio. Solo nel periodo del positivismo, nella metà del XIX secolo, il termine assume anche un’accezione negativa, nata dalla scarsa fiducia attribuita alle discussioni “vacue” e non oggettivabili. In arte accademia definiva la permanenza di valori formali definiti come tali da un codice proprio di una istituzione che si voleva proprietaria della funzione guida nel sistema rappresentativo. Il realismo e gli impressionisti prima, l’avanguardia poi, codificano il sistema di riferimento del termine “accademico”, definendo con questo la persistenza ed il perpetuarsi di precisi riferimenti formali nello studio delle forme artistiche. Con la rottura di ogni simulacro formalistico il riferimento al termine si è ampliato, sino a diventare ai nostri giorni un astratto appellativo di colui che nell’arte usa una determinata struttura protettiva al fine di giustificare la sua identità nel consesso critico. Il significato di accademia ha inglobato differenti significati nella sua involuzione negativa, assumendo anche il valore spregiativo nei confronti delle istituzioni “accademiche” quando vuote di risultati pratici e prive di reali connessioni con il mondo vissuto. Proprio per questo il significato di accademia e accademico ha investito, nel luogo comune diffusosi in Europa nel XX secolo, anche le istituzioni didattiche del campo artistico sino al proliferare del termine in declinazione di “scolastico” e per i campi più disparati dell’agire umano. Tutto ciò, trasposto nel sistema dell’arte contemporanea, assume significati variabili ma sostanzialmente riunificabili nella definizione di “opere che non partecipano i valori della ricerca ma propongono un prodotto definito da caratteristiche sociali economicamente valutabili quando non retoricamente vuote o nulle”.

Cos’era l’Accademia nel sistema modernista dell’arte? Un modello strutturale di controllo e gestione del patrimonio storico in difesa di una forma ideale resa simbolica, in cui si accedeva attraverso esami di ammissione atti a dimostrare la comprensione dei beni storico culturali e la promessa del loro mantenimento nel tempo. L’accademia non poteva essere giudicata nemmeno dal suo interno.
Cos’è oggi il Mercato del mondo dell’arte contemporanea? Una struttura complessa di controllo e gestione del patrimonio dell’arte, in cui si idealizza il profitto attraverso la difesa di procedure formali ed esecutive che dimostrano l’appartenenza ad un territorio colto/informato ed in cui si accede attraverso esami di ammissione pubblica, ovvero le grandi manifestazioni internazionali atte a dimostrare la volontà del mantenimento di un valore attribuito. Il mercato non può essere giudicato da chi ne è fuori; chi ne fa parte beneficia del diritto di criticarlo facendo vuota retorica atta a manifestare l’illusoria democraticità del sistema.

Il termine accademia attualmente in voga non nasconde una qualche misura di disprezzo nei confronti dell’istituzione pubblica, le vituperate Belle Arti, le vagamente intellettuali scuole DAMS e universitarie. Il problema che si pone nell’analizzare la verosimiglianza del termine in uso con la sua tradizione dispregiativa invalsa nel sistema contemporaneo, grazie alla trasmissione delle sperimentazioni dell’avanguardia, contrasta con la complessa identità delle strategie dell’accademia contemporanea. Poiché in realtà è proprio in queste sedi che si trasmette la “tradizione” colta dell’avanguardia, non è di questo che oramai si discute. L’avanguardia si è trasformata in un metodo procedurale senza forma. L’accademia attuale non difende una forma ma l’appartenenza ad un territorio ed al privilegio del mercato. Non ci sono sistemi teorici da poter mettere in crisi, semplicemente perché non ci sono gli attori di questo dialogo, così come non ci sono astanti interessati, ma semplici consumatori che di volta in volta diventano “anche” produttori. In un sistema di mercato globale in cui l’essere umano è protagonista solo quando consumatore, la sua unica realizzazione sociale è quella del profitto. In qualche modo possiamo dire che il termine accademia, così come lo usiamo nel lessico spregiativo per definire qualcosa di stantio, involuto e ottusamente definito da menti limitate, assoldate per garantire interessi precisi, non si riferisce più all’Accademia già citata né tantomeno alle università ed ai DAMS universitari. Non si vuole negare che queste istituzioni siano “accademia”, e ciò vale particolarmente nel contesto geografico di lingua italica, di cui conosciamo la persistente ottusità. Ma non è questa l’accademia che può impensierirci. Non si può avere timore di una accademia cialtronesca, in mano a pochi potentati e vecchie baronie morenti: chi considera un pericolo la volontà di un’Accademia di Belle Arti? A chi può nuocere l’idea di veicolare contenuti antiquati e passatisti se non all’accademia stessa? 
Nella considerazione naturale di questo fenomeno individuabile nella retorica, o anche nella chiusura dialettica verso nuovi contenuti artistici, le accademie di belle arti, le università e le istituzioni tutte, impoverite dalla dissennata politica culturale, hanno realmente poca voce in capitolo. Non contano nulla né il loro parere né la loro identità, se è vero che il potere politico decide di affidare l’arte ad un manager esperto in polpette e nessuno di questi cosiddetti “baroni” ha la forza di dire nulla. Non hanno potere, tutto qui, possono infierire sui poveri ricercatori precari, sugli artisti dilettanti, nulla di più.

Il parere dei vecchi tromboni e delle vecchie trombone dell’accademia è parere “scolastico”; ben altra cosa invece la vera solida accademia benestante, quella oggi saldamente al potere con basi e strutture fondate su musei, gallerie, mercanti e mercato e successive consacrazioni politico/diplomatiche nelle grandi mostre internazionali. Una mega accademia che può prevaricare la politica degli stati minori. É quella la vera accademia. É lì che si decidono le procedure artistiche inequivocabili così come prima si decidevano nelle sale togate degli scranni accademici, oggi abitati da fantasmi sociali. Il grande mercato dell’arte è la vera accademia, è da qui che si muovono i soldati in difesa di un territorio tutto in vendita, fluido, le cui strutture portanti sono il sistema museale controllato attraverso il capillare finanziamento e relativo veto per ciò che mercato non è. Nulla di grave, con l’accademia si conviveva, e le avanguardie sono riuscite a promuoversi. E se oggi non è più tempo d’avanguardie è pure vero che non è tempo d’essere imbecilli e di continuare a fingere di non saper distinguere la ricerca e l’innovazione dai meri giochi di mercato, la vera accademia dei nostri anni. I movimenti innovativi, e gli individui innovativi, non hanno certo bisogno del patrocinio delle accademie, sono come una malattia di cui non ci si può liberare e che appare improvvisa. Quindi bisogna essere consapevoli. Siamo tutti più o meno consci di cosa sia la vera accademia. L’accademia era storicamente ciò che non poteva essere attaccata né nei discorsi né nelle fondamenta formali, d’altra parte cos’altro avrebbe significato accademia se non costituzione di un patrimonio formale elitario? Oggi il mercato non permette critiche, e non c’è oggi un tabù maggiore della sua idealizzazione nel sistema dell’arte. Un giudizio di mercato è insindacabile, pena il vilipendio. Per essere dei cultori d’arte basta conoscere le quotazioni delle opere.

Cosa determina questa nuova accezione di accademia? In primo luogo genera mostri. Uno dei primi mostri creati dall’accademia/mercato è l’artista dilettante che vaneggia il suo non essere accademia. Costei/costui vive immerso in un tempo ancora plumbeo di luce romantica: in qualche modo il suo comprendere l’accademia in quanto mercato lo porta a fare un ragionamento assoluto. “L’accademia è il mercato, io sono fuori dal mercato, quindi sono un grande artista.” Sbagliato. Riconoscere il dominio del mercato non significa porsi automaticamente al di sopra di questo. Il mercato non è una realtà da prendere alla leggera, perché ha raggiunto il suo dominio e in qualche modo bisogna farci i conti. L’accademia/mercato difende interessi molto vasti ma non dissimili. Non si può superare il problema dell’accademia/mercato con la semplicistica profanazione di un territorio. Bisogna costruire una complessità di rapporti in un altrove che disegni un sistema innovativo, non ci sono altre possibili soluzioni. E sapere che il fine è sempre conquistarne il territorio, anche se con altra moralità e modalità. 
In seconda istanza la comprensione dell’accademia genera una nuova identità della ricerca, quella non accademica. La ricerca sperimentale d’arte, quella che difficilmente può realizzarsi nel mercato: come esempio osserviamo l’arte web ad alto coefficente tecnologico, la new media art, che è spesso pura ricerca, implicitamente estranea alle logiche del mercato. Ma non è accademica perché ancora non si è trovato il modo di farla diventare protagonista del mercato. 
Gli artisti, per mantenere vivo il rapporto con la ricerca sperimentale, dovrebbero operare alla luce della vitale complessità, fisica, biologica, politica, ecologica della società, così come dovrebbero anche coloro, intellettuali o meno che siano, che dicono di pensarsi estranei alla responsabilità, ancorché dei privilegi, del potere di una accademia/mercato. Oppure saremo tutti come descritti nel fatalismo di Diderot, direbbe il lungimirante Luca Patella. Senza condannare chi raggiunge il successo e si gode i suoi soldoni, sappia d’essere accademia, perché controllo di una metodologia convalidata e riconoscibile dal sistema. Non ci sono altre possibilità d’essere dentro il potere.

Mi ricordo, anni fa su un treno, di una conversazione fra un signore sconosciuto ed un amico critico che sfoggiava una rivista patinata, una rivista internazionale d’arte. Il signore domandava cosa significassero quei segni per lui incomprensibili. Ne era, diceva chiassosamente, disgustato. Il critico senza nemmeno scomporsi troppo gli disse: questi “segni” costano tanti milioni e lei evidentemente questi soldi non ce li ha e queste cose quindi non le può capire. Punto. La mostruosità e la forza del mercato/accademia sono la sua indiscutibilità, la sua propaggine blobbante su tutto, il suo accerchiare ciò che reputa utililizzabile senza lasciare possibilità alcuna al dissenso e alla complessità; il mercato/accademia liquida il tutto con una semplice operazione classista, perché il valore dei soldi è indiscutibile. Al di là di ogni raziocinio. Sembra quasi che il talento del mercato/accademia sia stato quello di perpetuare l’ignoranza acquiescente, tale da vanificare ogni acculturazione anche occasionale. E ciò che più impressiona, oltre alle pirotecniche strategie alla Damien Hirst in lotta con Jeff Koons per il privilegio d’essere “l’artista” più pagato al mondo e più qualitativo suppongo, è la penosa constatazione che l’accademia/mercato “usa” il dissenso dell’estetica filosofica, dei suoi pensatori più attuali violentandone il pensiero, per costruire il suo stesso potere, autocriticandosi al fine di distruggere la ragione d’essere della critica.