Che cosa ci aspetta? Questa la domanda posta dalla Biennale di Berlino che celebra la sua sesta edizione con una sobria visione incastonata nel tempo della crisi virtuale. Immersi come siamo nell’euforia del low cost, quella sensazione di onnipotenza che ci trasporta con bagaglio a mano da una parte all’altra del mondo, abbiamo forse dimenticato che la realtà reclama la sua presenza. Le domande poste da questa biennale berlinese sono più concrete che mai e rimangono senza risposta. Di certo si può dire che una sensibile animazione che proviene dal basso sentire dell’umano, proprio qui al centro dell’Europa così supponente, non la si aspettava. E non la si voleva, a giudicare dalla completa assenza di quel gotha dell’arte internazionale che vive oramai di glamour lussuoso parafrasando o simulando lo star system. Di Berlino, la città che ha richiamato a sé le nuove generazioni della creatività internazionale, può dirsi che rispecchia in pieno l’identità complessa del Vecchio mondo, qui dove si concentrano le nuove tendenze dell’elettronica musicale e della resistenza socio politica alle prassi competitive del capitalismo avanzato. Berlino è città nordica e sudista, mediterranea e mare del nord, lingua latina e sassone, cibi orientali, sushi bar e dj set, turismo di massa e peregrinazione di minoranze che hanno coltivato il teorema della differenza proprio al centro del potere economico europeo. Berlino amplifica e sottolinea queste differenti realtà, fa convivere la Porsche modello naziskin con la bici riciclata formato No-oil e tutto ciò è reale. Così come reale è la sensazione di poter fare le stesse solite cose in diversi modi e con calibrature economiche sostanzialmente opposte. Sedersi in un ristorante ad impatto zero e pagare un pranzo completo cinque euro, oppure sbronzarsi di folla turistica e pagare la stessa somma per un sorso d’acqua proveniente da remote regioni francesi o peggio italo leghiste. La Biennale ideata da Katrin Rhomberg nasce nella complessità dei nostri giorni, fra la perenne ciclica crisi – ditemi quando non si è parlato di crisi dagli anni Settanta in poi? – e la scoperta di nuove e sempre più aggressive classi sociali di ricchi avvolte nell’ignoranza e nel disprezzo di tutto ciò che è intelligenza, cultura e sapere.

Una Biennale, come ci dice la curatrice durante la conferenza stampa, che vuole superare lo stordimento della cultura di massa ed i suoi reality show che cortocircuitano il realismo e producono illusione, virtualità e sogni. Al di là dello schermo e della fiction, al di là della sostanziale mercificazione dell’informazione tramite web, esiste l’umana realtà. E, per fortuna, gli scabri testi introduttivi del catalogo, severi e austeri, non citano né Lyotard né Derrida, non biascicano inutili sofismi derivati dall’iper citazionismo postmoderno ma accennano ad un possibile radicamento reale per via di una sensibilità esistenziale alla Sartre. Durante la stringata conferenza stampa presenziata da Gabriele Horn, direttrice della Biennale, Katrin Rhomberg, curatrice della biennale e Hortensia Völckers, Direttrice della Sezione Arte del Ministero della Cultura, le risposte alle poche domande espresse dal pubblico sono state chiare, dirette. Sul perché della selezione, che riscopre nomi di artisti di poca fortuna critica e molti giovanissimi ancora sconosciuti, Gabriele Horn taglia corto: sono le nostre scelte. Ma sul problema “reale” che la biennale porrà, le risposte risultano infastidite: perché qui si parla di gentrification. Ed un artista di Kreuzberg, dove ha sede la più cospicua parte della biennale, in effetti non ha domande da fare: “Vi ringrazio!”, dice, sollevandosi in piedi come leggendo un comunicato stampa preparato per l’occasione, “La Biennale dopo aver gentrificato Mitte, adesso volge il suo sguardo su Kreuzberg, dove vivevamo in pace e dove tutto cambierà in fretta. Bravi, adesso ci avete gentrificato!”
Inultilmente Katrin Rhomberg, viennese avvezza alla ruvidità di determinate posizioni opposte, tenta di conciliare la possibilità che una biennale discuta di cultura senza interferire negativamente con il contesto, ma soprattutto alla luce del fatto che questa edizione vuole mantenere un profilo austero e meditato. Il problema non è da poco. Salvate il Soldato Ryan! Kreuzberg, dopo Mitte e buona parte di Berlino, corre davvero il rischio di perdere la sua connotazione sociale, quale luogo di libera convivenza e resistenza politica. Ma l’arte contemporanea è quest’infamia? Nel giro di pochi anni abbiamo dovuto rivedere le nostre idee, da un’arte che riqualifica ad un’arte che mortifica, ed è tutto reale, certo molto più reale del MAXXI di Roma e dei milioni che l’archistar ha speculato sulla fame e sulla miseria degli artisti. Gli sfigati. La sfiga degli artisti è che oggi il vero artista è l’architetto o anche il curatore, quando riesce ad esserlo, poiché se l’involucro è fondamentale il contenuto è occasionale e non è un caso se posizioni di radicalismo curatoriale emergano sempre più prepotentemente, come e-flux, progetto di cura e arte in web che pervade sinistramente ogni mostra e anche la biennale di Berlino, almeno sino a quando non ce lo ritroveremo palesemente come arte in un prossimo libro vangelo della storia creativa.

La VI Biennale di Berlino ospita presso la Alte Nationalgalerie un’insolita mostra storica su Adolph Metzel (1815 – 1905) posto ad antecedente realista del contemporaneo. La parte più cospicua dell’allestimento contemporaneo si trova invece in un edificio di Kreuzberg abbandonato da anni e riadattato alla meglio. Su tutto domina la video installazione e con esiti contraddittori. Una buona parte dei video in severissimo bianco nero e alcune trovate ad alta tecnologia invischiano lo spettatore. Ma su tutto domina il litigio fra Bernard Bazile e Phil Collins. I due, per problemi di spazio, si sono ritrovati vicini, e come è usuale in occasione di video installazioni confinanti si è dovuto separare lo spazio con pareti e divisori non isolanti. Il video di Bazile, già noto come artista per le sue posizioni ostiche e un tantino respingenti, è molto rumoroso e inficia i trenta minuti super prodotti e tematici di Collins. Così la frittata è fatta e chi guarda la mostra non potrà vedere le due opere contemporaneamente, poiché gli artisti, a testa bassa, hanno deciso che quando gira un video l’altro deve rimanere spento. Se calcoliamo che la proiezione di Collins dura 30′ e quella di Bazile circa 20′ capiremo che è come aver sistemato un dispositivo intermittente che non consente la visione completa della mostra. Misteri delle video installazioni. Piuttosto la loro presenza così palese, tanto da motivare scritte polemiche sui quotidiani, mi spinge a cercare un valido motivo per cui in tutta la mostra non si riconosca un solo pittore che sappia dipingere la realtà, e sappiamo che ce ne sono.
Di certo due grandi scoperte o riscoperte questa Biennale le fa. Si tratta dei vecchi George Kuchar e John Smith. Il primo, americano del 1942, ha allestito un pandemonio video in una sede dislocata in un garage abbandonato. Si tratta di ventitré postazioni video sonore che trasmettono altrettanti lavori video dell’artista in una sarabanda di suoni, colori, immagini trash che descrivono una dimensione totalmente brutale dell’american way of life e che qui in Europa piace molto sottolineare. Il secondo, John Smith, inglese del 1952, ripropone il suo The Girl Chewing Gum (1976), un ironico ed esilarante commento sull’esaltazione onnipotente dell’artista e del regista compiuto con una tecnica minimale e dissacrante.
Ma questa biennale più che presentare opere ribadisce il diritto all’intelligenza pensante e non è un caso che sia una biennale sostanzialmente molto giovane e soprattutto quasi del tutto priva di mondanità. Opere come quelle di Henrik Olesen, Armando Lulaj, Andrey Kuzkin, Minerva Cuevas, non lasciano nulla al desiderio di soddisfare un gusto adulcorato, ma pongono questioni forti e soprattutto lasciano pensare alla nostra condizione attuale. Economia, razzismo, guerre, povertà, totalitarismo, sono le tematiche che non si risolvono in belle immagini ma che ci trasportano in una dimensione critica che è di per sé l’opera principale dell’edizione 2010. E non ci si dilunga su ciò che potrebbe alterare la condizione percettiva della nostra attuale realtà europea, riducendo al massimo le presenze extraterritoriali, proponendo sempre lavori abbastanza estesi ed esaustivi del contemporaneo esistito, vissuto in prima persona. L’operazione è sembrata davvero molto severa, e se si considera quanto sia stato fuorviante per la fisionomia della biennale berlinese l’edizione del 2008, con le sue principesche trovate e la povertà di contenuti, questa edizione rappresenta esattamente la concretezza etica in contrapposizione ad un recente passato con qualche errore.
Belle e importanti le installazioni di Fehrat Özgür, Dahn Vo, Petrit Halilaj, Nir Evron, Mohamed Bourouissa, Margaret Salmon, tutti nomi relativamente nuovi nel paesaggio del contemporaneo. Ma proprio in questa forza risiede uno dei valori della Biennale 2010, ovvero di non lasciare concessioni allo star system del contemporaneo e tentare invece una nuova strada teorica fatta di concretezza e di risultati. Ridiscutere la realtà per non morire socialmente, ed è questo, mi è sembrato, l’atteggiamento definito soprattutto dai più giovani presenti con lavori estremamente critici nei confronti della condizione obbligata del nostro quotidiano.
Belle anche le performance: Andrey Kuzkin con Wherever is out there si espone in una teca di vetro, un po’ come un gioiello in vetrina, un po’ sudario in odore di santo, e rimane esposto al ludibrio silenzioso del pubblico per ore, immerso nell’inusuale caldo soffocante di questa vernice berlinese e con il corpo tatuato dalle mille possibili malattie che vincono sulla vita e distruggono l’esistere.
E giù nella piazza, nel pieno della pulsante vita di quartiere, Marlene Haring ha ideato una performance sociale organizzando la festa d’inaugurazione. Al centro della piazza allestita con tavolini e panche si scorge un gazebo dal quale si levano urla di tifoseria varia. Un gruppo di supporter di Marlene Haring festeggia con birra sciarpe maglie e musiche, e l’amplificarsi di questo vociare coinvolge invitati e passanti, richiama suonatori di strada, ciclisti e famiglie. Verso sera la piazza è gremita in ogni dove, fra fumi di cibi esotici e di altro, comunità etniche a passeggio, montagne di bici accatastate che sembra di stare ad una “critical mass” a tema musicale sportivo. E constatando l’assenza di quella mondanità spocchiosa che sembra aver vinto premi speciali e il vanto di presiedere ogni dove un’arte che non comprende, mi dico che questa è Berlino e forse è vero che questo è un equilibrio precario e tutto potrebbe inghiottire anche quest’ultima grande oasi d’Europa. Così ritornando indietro non mi meraviglia affatto ritrovare sulle opere pubbliche affisse da Michael Schmidt una serie di manifesti in stile Wanted: si possono osservare i volti delle tre donne di questa biennale con una scritta “gentrificatrice!, grazie tante”. Forse non hanno torto, gli appetiti degli speculatori devono completare il lavoro berlinese, trasformare questa città nel sogno di una meta per parassiti creativi figli di famiglie benestanti da tutte le parti del mondo, possibilmente figli di evasori fiscali, di mafiosi, criminali e di quanto peggio questa nostra realtà ci propone, ma ingenui o ipocriti nel non sapere cosa hanno fatto i loro padri e galleggianti nella loro vacua creatività. Fissi sui loro Iphon e in perpetuo collegamento sulle varie applicazioni del web2 costoro stanno già accerchiando l’isola di Kreuzberg, non si sono nemmeno accorti della biennale immersi come sono nel loro torpore egocentrico e un assedio lungo e brutale si prospetta. Ecco cosa ci aspetta.

Dall’alto:

Bernard Bazile
Les Manifs (Protest Marches), 2009
DVD, Farbe, Ton, Slogans / DVD, color, sound, slogans, 44’
Courtesy the artist / Copyright the artist

John Smith
The Girl Chewing Gum, 1976
Installation View, 6th Berlin Biennale for Contemporary Art
16mm film transferred to DVD, b/w, sound
Courtesy the artist: Tanya Leighton Gallery, Berlin
Copyright the artist
Foto / photo: Uwe Walter, 2010

George Kuchar
Eye on the Sky, 2008
DVD, Farbe, Ton / DVD, color, sound, 21’36”
Courtesy the artist; Video Data Base, Chicago

Andrey Kuzkin
Weariness, 2008
Performance
Moskau / Moscow
Courtesy the artist; Open Gallery, Moskau / Moscow. Copyright the artist

Ferhat Özgür
I Can Sing, 2008
DVD, Farbe, Ton / DVD, color, sound 7′
Foto: Domenico Scudero

Petrit Halilaj
26 Objekte n’ Kumpir, 2009
Mixed media.
Foto: Domenico Scudero

Petrit Halilaj
Particolare dell’installazione, KW, 6th Berlin Biennale, 2010.
Foto: Domenico Scudero

Margaret Salmon
Hyde Park, 2009
16 mm film transferred to DVD, b/w, without sound, 11′ 31″
Foto: Domenico Scudero

Michael Schmidt
Untitled, from the series Frauen, 1997–1999
Photographs in public space
Foto / Photo: Christian Sievers
Courtesy the artist and Galerie Nordenhake, Berlin. Copyright the artist