L’articolato gioco di relazioni e di sovvertimento di ruoli innescato da Sophie Calle per rappresentare la Francia alla Biennale di Venezia è iniziato un anno fa, il 16 giugno 2006.
Invitata a scegliere il commissario che l’aiuterà nell’allestimento del Padiglione francese (è una richiesta che i francesi ormai da dieci anni fanno all’artista invitato) Sophie Calle rompe le consuete dinamiche e, preferendo il sottile gioco dell’hasard, in quella data pubblica un annuncio su giornali e riviste d’arte per reclutare il suo commissario. Era un annuncio vero o falso? Se era vero, come lo era, certo si trattava di una paradossale e ironica modalità per rompere il chiuso e consolidato sistema dell’arte.

In questi anni tutti gli artisti invitati avevano scelto critici d’arte noti e appartenenti all’establishment, Sophie Calle stravolgendo le regole tra le duecento risposte ricevute sceglie quella di un artista, Daniel Buren. Saltando a piè pari la figura del critico/curatore e facendo una scelta di campo che vede come centrale unicamente la figura dell’artista, anzi di due artisti in un confronto serrato, ancora una volta mette in discussione ruoli e identità (avevo bisogno “non d’un commissarie, mais d’un allié”, confessa la Calle). Daniel Buren non è un artista qualunque, è nota la sua disistima per i curatori di mostre, già nel ’72 nel catalogo di Documenta 5 di Kassel denunciava la tendenza a far del soggetto di un’esposizione non più le opere, ma l’esposizione stessa (al pari di quanto avverrà per i musei). Non solo, Buren conosce bene l’architettura e gli spazi del Padiglione francese, nel quale ha già esposto nell’86, e quindi può essere un buon suggeritore per trovare le soluzioni più idonee (utilizzando muri e bacheche) per esporre l’eterogeneità e complessità dei materiali di cui è costituita l’opera di Calle (centinaia di testi, foto, video).
Prenez soin de vous, Abbia cura di sé è il titolo.

Ho ricevuto una mail di rottura. Non ho saputo rispondere. Come se non fosse indirizzata a me. Terminava con le parole: Abbia cura di sé. Ho preso la raccomandazione alla lettera. Ho chiesto a 107 donne, scelte in base al loro mestiere, di interpretare questa lettera da un’angolazione professionale. Analizzarla, commentarla, recitarla, danzarla, cantarla. Esaurirla. Capire al posto mio. Rispondere per me. Un modo di prendere tempo per rompere. Prendermi cura di me”.
La lettera è sconcertante e seducente, con un linguaggio cinico, distaccato e raffinato un amante spiega a Sophie le ragioni della rottura della sua relazione con lei (a rileggerla mi viene in mente lo straordinario Vittorio Gassman nella parte del “sacrificato” tra Rica Dialina e Françoise Leroy ne I mostri di Dino Risi). È una lettera piena di enigmi, di doppi e tripli significati, di amore dichiarato e negato al tempo stesso, un modo per avvilupparci in un rocambolesco gioco di comprensione/incomprensione del testo. Ognuna delle donne interpellate da Sophie ha dato la sua interpretazione per iscritto o a voce o con i gesti e l’artista ce la presenta esponendo le lettere con la foto o il video della mittente mentre legge la mail o risponde. Sta a noi, complici di un vertiginoso gioco di specchi e di rimandi, leggere e guardare, sta a noi ricostruire l’identità dell’autore della lettera e del suo destinatario, ma sta anche a noi ricostruire l’identità nascoste di tutte quelle donne che con modalità differenti hanno reagito alla lettera di rottura inviata a Sophie.

Provocando un cortocircuito tra pubblico e privato, tra oggettivo e soggettivo, Sophie Calle fa in modo che un fatto intimo e banale scateni, in modo esilarante, le più diverse reazioni: da chi l’espone secondo il linguaggio dei sordi a chi la converte in cruciverba alla giocatrice di scacchi che la immagina come una partita in cui “i Neri abbandonano il gioco” (e “Lui” è il Re nero) alla criminologa che la analizza in modo spietato a chi la trasforma in performance (Laurie Anderson) a chi la commenta mentre sta in cucina (la nostra spiritosissima Luciana Littizzetto) alla bambina di quarta elementare (Ambra) che scrive “Ci sono parole complicate: irrimediabile buffonata” e conclude con “Lei è triste”.
“Je suis une artiste narrative” ha detto una volta Sophie Calle e infatti tutta la sua opera è un tentativo di sintesi di generi letterari (romanzi autobiografici, spy stories, inchieste giornalistiche) con i quali esplora e svela la sua vita e quella degli altri, invertendo ruoli e identità, stravolgendo regole consolidate in un ironico gioco tra realtà e finzione.
Nella mostra di Robert Storr al Padiglione Italia Sophie Calle porta alle estreme conseguenze la sua strategia di “artiste narrative”.
Impossibile immortalare la morte è il titolo della toccante installazione composta, come suo solito, da video e testo che si sostengono a vicenda. “Il 15 febbraio 2006 – ci racconta la Calle – la coincidenza di due chiamate telefoniche simultanee mi ha informato che ero stata invitata a esporre alla Biennale e che a mia madre restava un mese di vita. Quando le ho detto di Venezia, lei ha risposto: ‘E pensare che non ci sarò’. Invece c’è”.
Si tratta della cronaca dei desideri e delle azioni più semplici, ma per questo più significative e struggenti svolte dalla madre nell’ultimo mese e mezzo di vita, registrate e riproposte con un fare documentativo lieve e pure sconcertante per la sua franchezza, per il suo renderci partecipi di una sfera così estremamente intima da essere oscena com’è quella della perdita della propria madre. Con un estremo atto d’amore Sophie immortala non la morte della madre (è impossibile immortalare la fine di una vita, il passaggio dall’essere al non essere), ma i sottili passaggi che portano lentamente verso la morte o meglio di come la morte si impadronisca giorno dopo giorno della vita stessa.
D’altra parte l’unica vera protagonista di tutta l’opera di Sophie Calle è la propria intimità, le proprie paure e i propri desideri e la stessa alterità le è sempre servita per scavare in se stessa in un procedere che, attraverso la raccolta e la classificazione delle informazioni e la narrazione, fa della complessità la questione centrale delle sue operazioni artistiche.

Dall’alto:

Sophie Calle, Pas pu saisir la mort, 2007
Video 13mm, testo incorniciato 50×100 cm, porcellana 50×35 / Video 13 mm, framed text 50 x 100 cm, china 50×35 cm
(Courtesy: Galerie Emmanuel Perrotin, Parigi-Miami /Paris-Miami; Arndt & Partner Berlino-Zurigo / Berlin-Zurich; Gallery Paula Cooper, New York)

Sophie Calle, « Prenez soin de vous » Styliste, 2007
(Courtesy Galerie Emmanuel Perrotin, Paris / Miami; Arndt & Partner, Berlin / Zurich; Koyanagi, Tokyo; Gallery Paula Cooper, NY)

Sophie Calle, « Prenez soin de vous » Comptable, 2007
Lavoro fatto di 106 fotografie, testi, film
(Courtesy Galerie Emmanuel Perrotin, Paris / Miami; Arndt & Partner, Berlin / Zurich; Koyanagi, Tokyo; Gallery Paula Cooper, NY)

Sophie Calle, « Prenez soin de vous » Filosofa, 2007
(Courtesy Galerie Emmanuel Perrotin, Paris / Miami; Arndt & Partner, Berlin / Zurich; Koyanagi, Tokyo; Gallery Paula Cooper, NY)