A quasi un mese dall’opening sono già stati spesi fiumi di inchiostro su questa 54 edizione della Biennale di Venezia. Senza contare gli innumerevoli pamphlet avvelenati che hanno bersagliato il nostro Padiglione, ormai al centro di ogni conversazione che abbia per oggetto la kermesse lagunare.

Al di là delle critiche che hanno accompagnato il Padiglione Italia sin dalla nomina del curatore, c’è da constatare – non senza una punta di amarezza – che la mostra internazionale di Bice Curiger non si presta a fare da buon contrappeso in termini di qualità. In due parole, se le aspettative riposte in quest’ultima erano di gran lunga superiori a ciò che ci si aspettava di vedere nella mostra sgarbiana – che già si annunciava per quello che effettivamente è stata –, se all’Arsenale e ai Giardini eravamo pronti a vedere qualcosa di più, o meglio, ad avere una qualche illuminazione, tutto questo non è successo, fatta eccezione per pochi, singoli casi.

Il titolo scelto dalla Curiger per la sua prova in Laguna fa riferimento alla possibilità di gettare luce sulle ricerche dell’arte attuale ma anche sull’istituzione stessa, come annunciato in catalogo. Il suffisso “nazioni” richiama invece la specificità della manifestazione veneziana, ovvero quella delle presenze nazionali. Così la mostra “non intende promuovere una singola visione, bensì esporre la pluralità dei punti di vista attuali presenti in questo luogo”. L’introduzione è chiara, talmente chiara da apparire scontata. Ci dirà qualcosa di più a seguire? Purtroppo il testo in catalogo, al pari della mostra, perde proprio l’occasione di “aggiungere” qualcosa. Il problema della complessità culturale viene sfiorato ma mai approfondito, così come il rapporto tra il contemporaneo e l’antico, incarnatosi nella scelta di portare in mostra le tre splendide tele di Tintoretto, pittore della luce per eccellenza.

La biennale di Daniel Birnbaum era stata quella del politically correct, precisa e godibile seppur mai “sconvolgente”; qui viene a mancare anche quello scarso mordente intravisto nella passata edizione, impressione rilevata in mostra ma confermata poi proprio dal testo in catalogo, che appare svuotato di qualsiasi slancio critico-teorico.

ILLUMInazioni rimanda – come ci dice sempre la curatrice – sia all’Illuminismo come trionfo della ragione, sia all’illuminazione che, al contrario, è “riconoscimento intuitivo, epifania”. Una compresenza di opposti che si concilia a fatica; il risultato finale è una mostra che non appare né particolarmente illuminata né tantomeno illuminante.

Dunque una biennale che si fa sfuggire l’occasione di essere LA mostra per essere “solo un’altra mostra” – per citare l’efficace titolo di un testo da poco pubblicato per i tipi Postmediabooks (Just Another Exhibition, a cura di F. e V. Martini) – cui non spetta il merito di aggiungere qualcosa sulla situazione attuale.

Una delle possibili cause di tale esito è il fatto che alcuni dei lavori scelti per la mostra non siano il meglio che ci si aspetterebbe dall’artista invitato; l’intramontabile Cindy Sherman convince meno nella sua declinazione bucolica, il gigantesco uccello-vampiro di Nicholas Hlobo sembra il fratello minore (in termini di ingombro “concettuale” e non fisico) di un’installazione dello stesso Hlobo presentata a Palazzo Grassi nella mostra Il mondo vi appartiene.

Il ratto delle Sabine di Urs Fisher è di certo suggestivo, ma l’intervento a Palazzo Grassi non è da meno, anzi; l’illusione di una stanza allestita che si rivela essere solo carta da parati sembra funzionare meglio della pedissequa applicazione dell’idea di luce annunciata dal titolo della Curiger, dimostrando che il sensazionalismo può essere perseguito in modo meno didascalico.

Visto il bicchiere mezzo vuoto, proviamo ora a vederlo mezzo pieno: cosa resterà – o potrebbe restare – di questa 54 Biennale? Forse i silenziosi ma ingombranti piccioni di Maurizio Cattelan, diventati colombe nella descrizione “edulcorata” in catalogo.

Sicuramente la presenza di due italiani d’eccezione, Luigi Ghirri e Gianni Colombo, entrambi ai Giardini. Colombo in particolare, con il suo Spazio elastico del 1967, funziona bene da preambolo alla sala dove la curatrice ha voluto portare tre opere di Tintoretto. È uno dei pochi guizzi che si coglie nel dialogo cercato tra il grande maestro veneto e il dipanarsi delle ricerche contemporanee, insieme alla presenza delle vedute veneziane di Pipilotti Rist, un trionfo di luci, colori e suoni che rende visibile la stratificazione “temporale”. A dialogare con Pipilotti poteva esserci idealmente Canaletto… perché non “invitare” anche lui?

Altro punto a favore della Curiger è l’introduzione dei parapadiglioni, strutture concepite da artisti che “mirano a dinamizzare la presentazione rinunciando alla consueta narrazione additiva”. Monika Sosnowska, Franz West, Song Dong, Oscar Tuazon, hanno proposto mini architetture per dar spazio all’opera di altri artisti; tra i più riusciti quello della Sosnowska, ospitante l’installazione sonora di Haroon Mirza e gli intensi scatti fotografici di David Goldblatt, un documentario sulla città di Johannesburg raccontata attraverso i suoi paesaggi e la sua gente.

La riuscita del parapadiglione va letta in relazione alla fortunata sintesi arte-architettura, che si ritrova anche in molti padiglioni nazionali: quello austriaco di Markus Schinwald, quello greco di Diohandi, quello inglese di Mike Nelson, fino al progetto visionario del prematuramente scomparso Christoph Schlingensief, che ha trasformato il padiglione tedesco in una enorme chiesa laica. Tutti esempi di una profonda reinterpretazione dello spazio espositivo dato.

Altri artisti nella mostra della Curiger hanno proposto soluzioni simili seppur non espressamente pensate come parapadiglioni: è il caso dello svizzero Fabian Martì, dove però il percorso interno della struttura si rivela funzionale alla presentazione di un video dello stesso artista.

Cos’altro resterà di questa Biennale? Senz’altro la presenza degli inglesi, vincitori su tutta la linea a cominciare dal Leone d’Oro Christian Marclay. The Clock è una di quelle opere geniali che riattualizza la pratica del montaggio in funzione di una riflessione sul tempo, portando a coincidere quello “finto” dello schermo con quello reale di fruizione e risultando nel contempo un film avvincente, dal ritmo serrato seppur mai esplicitamente narrativo.

Sempre in mostra all’Arsenale, Nick Relph presenta Thre Stryppis Quhite Upon ane Blak Field, video che gioca sulla sovrapposizione di tre documentari: il primo dedicato all’artista Ellsworth Kelly, il secondo al tartan (particolare disegno dei tessuti in lana delle Highland scozzesi) e il terzo allo stilista Rei Kawakubo. Le immagini si sovrappongono così in un caleidoscopio di colori psichedelici, insistendo sulla capacità di evocare assonanze visive pur nella diversità dei contenuti trattati.

Altro inglese d’eccezione è Mike Nelson il quale, nel padiglione della Gran Bretagna, porta lo spettatore a perdersi tra porticine, tavoli da lavoro e improvvisate camere oscure, ridisegnando lo spazio in funzione di un percorso a tratti onirico.

Ora, dovendo guardare in casa nostra – e non potendo rivolgerci al padiglione Italia per trovare qualcosa da salvare, se non altro per colpa dell’affastellamento da Salon ottocentesco – c’è una realtà estremamente interessante che, seppur partita in sordina (mediaticamente parlando) perché non attraversata dallo stesso sciame di polemiche, ha saputo attirare l’attenzione e la curiosità degli addetti ai lavori.

Stiamo parlando del Padiglione delle Accademie alle Tese di San Cristoforo, frutto di una lunga preparazione che ha visto lavorare in sinergia i direttori delle 20 Accademie di Belle Arti italiane. Primo step, la selezione interna dei venti migliori diplomati degli ultimi 10 anni (2000-2010), i cui curricula e portfolio sono stati inviati a Roma per un’ulteriore selezione ad opera di una commissione ad hoc. Il risultato è una mostra con all’incirca 150 opere che, al contrario del padiglione “ufficiale”, appare molto meglio strutturata; l’allestimento con pannelli centrali rende possibile e leggibile un percorso, la compresenza di tutti i media artistici (con piccole salette dedicate alle proiezioni video) si presta ad offrire una panoramica completa ed equilibrata delle direzioni verso le quali si muovono le ricerche dei più giovani, al punto che non pochi hanno suggerito una strategica inversione di padiglioni.

Al di là del buon allestimento, molti degli artisti che si incontrano lungo il percorso sono già talenti riconosciuti e non sfigurano affatto nel contesto biennalesco.

In ambito romano spiccano le presenze di Luana Perilli e Mariana Ferratto, già protagoniste di importanti mostre nella capitale. Le bellissime fotografie di Fatma Bucak, esposte all’ultima fiera bolognese nello stand di Alberto Peola, rimandano alle origini turche dell’artista, formatasi all’Accademia di Torino.

Le bianche ali in resina di Riccardo Albanese (ri)portano all’Accademia di Napoli, così come il cupo paesaggio metropolitano di Christian Leperino e il trittico fotografico di Barbara La Ragione.

Matteo Fato (Accademia di Urbino) presenta un’incisione di grandi dimensioni dove la tecnica tradizionale si sposa con un soggetto contemporaneo: Luca stesa.

Le opere di William Marc Zanghi e di Carmelo Nicotra mostrano come la scuola pittorica palermitana conservi una sua continuità, trovando nuovi stimoli nelle ricerche dei più giovani.

Infine, quasi alla fine del percorso espositivo, il video dalla pungente ironia di Laurina Paperina, Come uccidere gli artisti: Bruce Nauman colpito a morte da un clown, Ed Ruscha bruciato in un incendio in una pompa di benzina, Joseph Beuys mangiato da un coyote… un gioco che prende di mira i più grandi protagonisti dell’arte degli ultimi cinquant’anni, riportati “idealmente” a Venezia.

Il Padiglione delle Accademie invita così a guardare cosa si muove nelle fucine della giovane arte italiana. Una nota di freschezza e di luce in una Biennale che, in fin dei conti e a discapito del titolo, è risultata ben poco “luminosa”.

Dall’alto:

Maurizio Cattelan, Others, installazione nel Padiglione centrale dei Giardini. Foto dell’autore.  

Pipilotti Rist, Non voglio tornare indietro (Ospedale), 2011
video projection on veduta oil painting “Anonymous Venetian Master (Apollonio Domenichini?): Veduta with Canal Grande with Santa Maria di Nazareth, Santa Lucia and Scuola dei Nobili”, Museum Langmatt, Stiftung Langmatt Sidney und Jenny Brown, Baden/Switzerland (detail) Courtesy the artist, Hauser & Wirth and Luhring Augustine, New York

Monika Sosnowska, The model of “Antechamber”, 2011
Photo Monika Sosnowska ©
Courtesy the artist, Foksal Gallery Foundation, The Modern Institute, Galerie Gisela Capitain, Kurimanzutto, Hauser & Wirth

Christoph Schlingensief, Padiglione Tedesco, Eine Kirche der Angst vor dem Fremden in mir, 2011, Modell Foto: (c) Roman Mensing, artdoc.de in Zusammenarbeit mit Thorsten Arendt, artdoc.de

Christian Marclay, The Clock, 2010.
Edition of 6. Single-channel video. Duration: 24 hours.
Credit for the images should read: Courtesy White Cube, London and Paula Cooper Gallery, New York. Courtesy of the artist

Mike Nelson, British Pavilion, 2011. Foto dell’autore

Padiglione delle Accademie: Riccardo Albanese, Untitled, opera a parete, resina, 2008, cm 190x190x70.

Padiglione delle Accademie: Matteo Fato, Luca stesa, Incisione calcografica, puntasecca su zinco, 1950x1000mm (lastra di zinco),  210x115cm (carta), 2005. Courtesy dell’artista

Padiglione delle Accademie: Luana Perilli, The Man of The Season (in loving memory of loving memories), still from stop motion video, 2007-2010, courtesy The Gallery Apart in cooprodution with Incontri Internazionali d’Arte and MACRO